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    Predefinito Crolla un mito terzomondista

    Dall'ultimo numero di Enclave, per gentile concessione dell'autore, un articolo che cerca di far luce sul caso di Rigoberta Menchu, personaggio portato ad esempio dalle sinistre di tutto il mondo.
    Personaggio che da un po' di tempo se la sta passando brutta perchè le bugie hanno le gambe corte.

    “Mi chiamo Rigoberta Menchú”. Alias Pinocchio.
    di GIORGIO BIANCO

    Rigoberta Menchú, una donna Maya Quiché del Guatemala, è assurta a fama mondiale nel 1982 dopo la pubblicazione della sua autobiografia, Io, Rigoberta Menchú, la sua autobiografia proposta come testimonianza delle ingiustizie patite da tutti gli indigeni spossessati delle loro terre e dei loro diritti dagli occidentali e in lotta contro l’oppressione imperialista. .
    Il libro sarebbe stato dettato dalla giovane Rigoberta all’antropologa di origine venezuelana Elisabeth Burgos, ex moglie del celebre intellettuale marxista francese Régis Debray, in quanto la Menchú all’epoca sarebbe stata analfabeta e avrebbe avuto difficoltà a parlare lo spagnolo. Nell’arco di una settimana, nell’appartamento parigino della Burgos-Debray, il futuro premio Nobel raccontò la sua storia: l’antropologa avrebbe voluto seguire una precisa cronologia (infanzia, adolescenza, famiglia, coinvolgimento nelle lotte contadine), ma l’eloquenza di Rigoberta fluiva così liberamente che la Burgos finì per lasciarla parlare, ponendole ben poche domande. Il risultato di questo lavoro furono diciotto ore e mezza di registrazione, pari a cinquecento pagine di trascrizione. L’antropologa ridispose il materiale in ordine cronologico, lo divise in capitoli, ed eliminò le proprie domande, in modo che il materiale apparisse come un monologo, una narrazione continuativa.
    Ma nel 1999 questo libro è stato smascherato come un clamoroso falso, uno dei più grandi inganni intellettuali e politici del ventesimo secolo. Addirittura, quando Elisabeth Burgos ha iniziato a mettere in dubbio l’efficacia della tattica di guerriglia nell’America latina e la sua natura “democratica”, la Menchú è giunta a negare l’apporto della Debray al libro: “Allora – scrive la studiosa, lei negò che io avessi scritto il libro, finse di averlo scritto in Messico con l’aiuto dei suoi compagni, e insinuò che io avevo soltanto effettuato le interviste. Senza dubbio, non pensava che io avevo conservato tutte le registrazioni delle nostre diciannove ore di conversazione. Consentii a Stoll [di cui si inizierà a parlare subito sotto, ndr.] di ascoltarle. A questo punto, Rigoberta adottò una strategia differente: accusare gli antropologi di razzismo” .
    A scoprire la verità sul libro della Menchú è stato David Stoll, antropologo americano di sinistra, considerato uno dei principali esperti universitari del Guatemala, docente all’università di Middlebury (USA). Tutto è incominciato allorchè, trovandosi nel villaggio di Chajul per svolgere delle ricerche, un giorno Stoll ha domandato ad alcuni campesinos se quella in cui si trovava in quel momento era la piazza nella quale, come narrato nel libro, Rigoberta Menchú vide morire bruciato suo fratello. La domanda, con grande sorpresa dello studioso, ha suscitato una serie di sguardi ironici tra la gente del posto, inducendolo ad approfondire la questione.
    Da allora Stoll ha intervistato 120 guatemaltechi, inclusi i parenti, gli amici, i vicini di casa e gli insegnanti di Rigoberta, in un lavoro durato ben dieci anni, che ha dato come frutto il volume Rigoberta Menchú and the Story of all the Poors Guatemalans .
    In seguito alla sua pubblicazione, il New York Times ha mandato in Guatemala il reporter Larry Rohrter per verificare le affermazioni di Stoll, e ne ha ricavato con grande facilità una netta conferma. Il falso era clamoroso. "Forse – ha osservato il giornalista David Horowitz – la più importante delle scoperte di Stoll è il modo in cui Rigoberta ha distorto la sociologia della sua situazione familiare, insieme a quella dei Maya nella regione di Uspantán, per renderle conformi ai precetti marxisti. I Menchú non facevano parte dei poveri senza terra” .
    Ma nel frattempo, Rigoberta Menchú si era già imposta come un mito della cultura universitaria. Particolarmente clamoroso e significativo è stato l’episodio che si era verificato alla Stanford University, quando un corteo di professori e di studenti di sinistra, guidati dal Reverendo Jesse Jackson, contestò una materia obbligatoria del curriculum dell’ateneo, la “Civiltà occidentale”. Lo slogan che i manifestanti ritmavano era quanto mai esplicito: “La cultura occidentale se ne deve andare”. I funzionari dell’Università furono subito pronti ad accogliere il diktat dei dimostranti, e le opere di autori del Terzo mondo (soprattutto marxisti) che prima erano state “escluse” vennero imposte come letture obbligatorie, alla pari di Aristotele, Dante o Shakespeare. Tra questi testi, spiccava proprio quello della Menchú.
    Caposaldo della sua leggenda è il suo presunto analfabetismo, di cui si è già detto: “faccio ancora molta fatica a parlare il castigliano – si legge nella prima pagina della sua autobiografia -, perché non sono mai stata in alcun tipo di scuola. Non ho avuto la possibilità di uscire dal mio mondo, di dedicarmi a me stessa, e solo tre anni fa ho cominciato a imparare lo spagnolo e a parlarlo. E’ difficile quando si deve imparare unicamente con la memoria, senza potersi servire di un libro” .
    Ma David Stoll ha ricostruito, con grande accuratezza, un quadro ampiamente incompatibile con l’insistenza con cui la Menchú ribadisce, quasi facendosene un punto d’orgoglio, di non aver mai frequentato nessuna scuola e di aver imparato lo spagnolo soltanto di recente: “Un suo cugino mi ha detto di essere stato il suo animador (tutore) per quattro anni, fino a quando le suore non la portarono via per continuare la sua educazione. I limiti della memoria rendono difficile specificare delle date, ma le testimonianze locali non lasciano dubbi sul quadro generale. Secondo due fratelli, Rigoberta lasciò Chimel a sei o sette anni” . Rigoberta frequentò così per qualche anno la scuola cattolica di Chicastenango, nel sud del Quiché, per poi fare ritorno a Chimel. Trascorsero poi alcuni anni, prima che, fra i dodici e i quattordici anni (1971 – 1973), Rigoberta riprendesse a studiare, questa volta presso la scuola dell’ordine belga della Sacra Famiglia, specializzato nell’educazione di giovani donne. A Uspantán, il futuro premio Nobel abitò talora nel convento, in altri periodi presso parenti, ed ebbe anche la possibilità di lavorare per almeno due donne ladinas.
    Il secondo stadio dell’educazione di Rigoberta ebbe come teatro il Colegio Belga, nel centro di Guatemala City, un rinomato collegio dove frequentò due anni di scuola elementare in un corso accelerato per ragazze più grandi. E’ possibile che Rigoberta vi abbia trascorso un terzo anno semplicemente lavorando; in ogni caso, in seguito le suore la mandarono in un altro istituto nella ricca città di Chiantla, Huehetenango, presso il Colegio Básico Nuestro Señor de Candelaria.
    La Menchú, si è visto, è solita pietire sulla sua scarsa conoscenza del castigliano e sulle difficoltà nell’apprenderlo, ma un suo fratello, riferendosi a una sua visita a Chimel nel 1978, ricorda che “Il suo modo di parlare era ormai ben diverso dal nostro. Sapeva parlare spagnolo molto bene… Ci raccomandava di parlare correttamente. Ci ragguagliava sempre su ciò che studiava là…” .

    -Il padre Vicente: come costruire una leggenda sul falso più falso

    Una delle figure centrali, nel libro della Menchú, è senz’altro quella del padre Vicente, che nella narrazione assume l’aura eroica di un indomito combattente contro i soprusi dei proprietari terrieri e del governo: “Mio padre condusse per ventidue anni una eroica battaglia per difenderci contro i proprietari terrieri, che volevano spogliare noi e i nostri compaesani della terra. Quando il nostro piccolo terreno già dava un raccolto, dopo molti anni di lavoro, e il villaggio aveva ormai estese coltivazioni, apparvero i proprietari terrieri: i Brol”. Definiti senza mezzi termini “criminali” perché venuti sulle terre ad effettuare delle misurazioni con l’aiuto di ingegneri e ispettori, questi ultimi sono accusati di essersi messi d’accordo con “quelli del governo” per “togliere la terra ai contadini” . Le proteste di Vicente Menchú presso l’INTA (Instituto Nacional de Transformación Agraria, istituto preposto allo sviluppo di infrastrutture, assistenza tecnica, crediti e definizione dei titoli di proprietà dei terreni) fanno sì che l’ufficio chieda ai proprietari del denaro per continuare a misurare la propria terra, e rilasci ai contadini dei documenti che li autorizzano a non lasciare l’aldea. Ma, secondo quanto racconta Rigoberta, si trattava di un doppio gioco: “A mio papà facevano firmare un foglio e lui non sapeva quello che c’era scritto. Mio padre non imparò mai a leggere e scrivere. Il risultato era che in quel foglio si diceva che i contadini confermavano, una volta di più, di essere disposti a lasciare la terra. E siccome il rappresentante eletto dalla comunità [Vicente Menchú, ndr.] aveva firmato quella carta, di conseguenza i proprietari avevano il coltello dalla parte del manico” .
    Vicente si butta allora a capofitto in un’attività che lo vede freneticamente spostarsi dagli uffici dell’INTA a quelli degli avvocati, fino ad aderire ai sindacati della FASGUA, la Federazione Autonoma Sindacale del Guatemala. Questo, secondo il resoconto di Rigoberta, è il motivo del suo primo arresto: “In seguito al fatto che mio padre aveva aderito ai sindacati e ricevuto il loro appoggio, i proprietari terrieri diedero del denaro al giudice di istanza e fu così che arrestarono mio padre, accusandolo di essere un individuo che attentava alla sovranità del Paese. Metteva in pericolo la sovranità e la tranquillità dei guatemaltechi, secondo loro” . Vicente trascorre nel carcere di Santa Cruz un anno e due mesi, prima che i figli riescano a tirarlo fuori. La detenzione non ha piegato la determinazione di Vicente, che rinsalda i rapporti con i sindacati, e nemmeno vi riuscirà un’aggressione che Rigoberta attribuisce ai “guardaspalle dei proprietari” e che lo lascia gravemente ferito: “Mio padre, in ospedale aveva parlato con molta gente e aveva visto che c’erano molte cose in comune con gli indigeni di altri posti. Questo cambiava la nostra prospettiva, il nostro modo di vedere tutta la situazione. E così mio padre continuò nel suo lavoro, ma ormai con l’ausilio dei sindacati. C’erano volte che mio padre non poteva andare alla capitale, ma i sindacati potevano occuparsi delle questioni che lui doveva sbrigare. Tutte le cose che lui doveva seguire potevano seguirle alcuni dei sindacati che gli davano aiuto” .
    E’ a questo periodo che Rigoberta fa risalire l’apprendimento dei primi rudimenti di spagnolo e i primi viaggi nella capitale, grazie ai passaggi che le offrono i preti e l’ospitalità che le accordano le monache. “C’erano degli europei che ci aiutavano”, dice Rigoberta a proposito di questo periodo, senza però essere molto precisa né sulla loro identità, né sul perché aiutassero gli indigeni: “Erano persone che avevano lavorato per un certo tempo a insegnare tecniche agricole ai contadini. […] Queste persone ci aiutavano e conoscevano i problemi della mia comunità. Ritornarono al loro paese, ma amano sempre il Guatemala e così aiutavano mio papà. Ricevevamo dunque questo denaro e cercavamo di risparmiarlo per i viaggi di mio padre e per i nostri spostamenti, in modo che la comunità non fosse costretta a contribuire coi guadagni del suo lavoro” .
    Il secondo arresto di Vicente, nel 1977, è basato su accuse molto più pesanti (“Con quest’ultimo arresto il suo caso era molto più grave. Rischiava una condanna all’ergastolo, perché lo accusavano come politico, ormai. Era un comunista, era un sovversivo, dicevano. Come la prima volta, i medesimi militari, a colpi di fucile, lo prelevarono di casa e lo portarono in carcere. Lo avevano legato e lo colpivano continuamente. Era un prigioniero politico, la sa causa era molto più grave” ), ma, attraverso le pressioni dei sindacati, anche la sua detenzione è molto più breve: quindici giorni.
    Anche sul piano politico la nuova detenzione ha su di lui conseguenze più profonde. Al suo ritorno a casa, racconta Rigoberta, “era molto orgoglioso e pieno di allegria perché in carcere aveva incontrato un’altra persona, un carcerato, che era davvero un prigioniero politico. Era una persona che difendeva i contadini, perché, diceva, non era solo un nostro problema. I nostri nemici non erano solo i proprietari ma tutto quanto il sistema. Quell’uomo aveva una chiarezza di idee maggiore che mio padre. E così papà ritornò pieno di orgoglio e disse: dobbiamo affrontare questi ricchi, che sono diventati ricchi grazie alle nostre terre, grazie ai nostri raccolti” . E’ in coincidenza con questo periodo che nasce il Comitato di Unità Contadina (CUC), alla cui fondazione Rigoberta sostiene che il padre abbia contribuito fin dall’inizio, sebbene Stoll veda la questione come molto controversa: “Così mio padre cominciò a unirsi con gli altri contadini e si mise a discutere con loro per la creazione del Comitato di Unità Contadina (CUC). Molti contadini stavano discutendo di questo comitato, a dire il vero, ma non c’era ancora niente di concreto. Con la grande chiarezza a cui era pervenuto, mio padre aggiunse un ulteriore contributo alla formazione del CUC” :
    Stoll ha ricostruito con molta più accuratezza il contesto storico e sociale in cui un’organizzazione come il CUC ha potuto vedere la luce. L’organizzazione nacque nella zona del Quiché, nei pressi del dipartimento di Santa Cruz: una regione più sviluppata e densamente insediata di quella di Uspantán, e meno isolata dalla vita del Paese.
    Tra gli anni Cinquanta e i Settanta, questa zona ha conosciuto un processo di modernizzazione e di emancipazione, sconosciuto ad altre regioni del Guatemala, che ha avuto come principale motore l’Azione Cattolica e una nuova generazione di sacerdoti provenienti dalla Spagna. L’intento era di dare nuova linfa vitale alla vita religiosa di questi fedeli per lungo tempo negletti, emancipandoli dal cattolicesimo “popolare” e formandoli come catechisti. “Ma presto – ricorda Stoll – i catechisti si impegnarono nell’organizzare cooperative e nel candidarsi a cariche politiche. Alcuni dei preti che diedero vita all’Azione Cattolica avevano combattuto per Francisco Franco durante la guerra civile spagnola; essi miravano a che la nuova organizzazione fosse una controriforma che avrebbe protetto i fedeli dall’esca del comunismo. Invece, loro e i loro catechisti si scontrarono con le strutture clientelari del Guatemala rurale, trasformando la diocesi di Quiché nell’avamposto della teologia della liberazione” .
    Molti dei fondatori del CUC, in effetti, provenivano dall’ala sinistra dell’Azione Cattolica. “La cosa più sorprendente della nuova organizzazione – osserva ancora Stoll – era la sua ambizione di rappresentare ‘tutti i lavoratori delle campagne’. Con l’aiuto della conscientización (crescita della coscienza), una tecnica pedagogica associata alla teologia della liberazione e alla sinistra cattolica, il CUC voleva unire tra loro diverse categorie di contadini. Intendeva coalizzare proletari rurali e piccoli proprietari, i senza terra e coloro che della terra erano stati privati, i ladinos e gli indigeni. Ma la sua priorità era organizzare flussi migratori di lavoratori dalle montagne alle piantagioni. I contadini guatemaltechi si erano riadattati alla sottomissione dopo la controrivoluzione del 1954. Nato nel 1978, il CUC denunciava senza mezzi termini l’oligarchia. Voleva elevare i salari e ridistribuire i terreni” .
    David Stoll dedica molta attenzione alle affermazioni della Menchú riguardo al ruolo del padre nella fondazione e nell’attività del CUC. La questione non è oziosa come potrebbe sembrare, perché, osserva l’antropologo, “L’organizzazione è stata per Rigoberta il veicolo per generalizzare l’esperienza di suo padre e del villaggio come quella di tutti i poveri del Guatemala. La sua storia del 1982 [il libro Mi chiamo Rigoberta Menchú, ndr.] dava credibilità all’alone immaginario che circonfondeva il CUC, compresa l’idea che esso rappresentasse masse di contadini ansiosi di prendere le armi contro lo Stato. Il fatto che Vicente potesse diventare il più celebre fondatore del CUC anche se non ebbe nulla a che fare con esso fino agli ultimi giorni della sua vita, fa comprendere l’importanza della storia di Rigoberta. E fa capire anche l’importanza di rispondere alla domanda se il CUC rappresentasse realmente un focolaio rivoluzionario” .
    La prima, clamorosa scoperta dell’antropologo è stata il fatto che tutti gli abitanti di Uspantán da lui interpellati hanno negato che il CUC sia mai stato presente nella zona. “’Né il CUC né le sue attività sono mai state presenti qui. Non ricordo di nessuno che abbia indetto una riunione del CUC’, mi ha detto un ex-sindaco, proprio come hanno fato attivisti per i diritti umani e altre fonti che si sono dimostrati disponibili su argomenti scottanti. L’organizzazione fu sempre semiclandestina, naturalmente’. Perfino attivisti per i diritti umani desiderosi di rivendicare l’eredità del CUC per Uspantán non sono stati in grado di parlare di loro conoscenze personali, né la presenza del CUC nell’Uspantán risulta dai rapporti delle associazioni per i diritti umani o dai ricordi della famiglia di Rigoberta. Anche se poche persone hanno affermato che esso ha avuto una sua storia locale, la loro fonte di informazione era il libro del premio Nobel. Nessuno ha rivendicato un’esperienza di prima mano con il CUC” .
    Numerose testimonianze parlano della presenza di un’organizzazione contadina molto più vecchia, la Lega dei Contadini, alle cui attività Vicente potrebbe aver partecipato molto superficialmente. Ma il punto è che “Vicente e la sua famiglia furono coinvolti in altre organizzazioni alle quali Rigoberta non fa riferimento, apparentemente perché sarebbero difficili da conciliare con la sua versione dei fatti. Anche se lei descrive Chimel come un paese orgogliosamente isolazionista, diffidente verso le influenze esterne, altri ricordano un villaggio di contadini che, come molti altri, fu contagiato dall’etica della superación (farsi strada economicamente) acquisendo informazioni utili dal mondo esterno. Come villaggio guidato da catechisti e impegnato nel rivendicare le proprie terre, Chimel era di mentalità particolarmente aperta da questo punto di vista” .
    Quando la Menchú parla, come si è visto, di “certi europei” che fornivano aiuto e denaro ai contadini, secondo Stoll fa un velato riferimento a un programma cui i Menchú parteciparono con entusiasmo. L’iniziativa era guidata dal dottor Carrol Behrhorst, un medico missionario luterano proveniente dal Kansas, tanto conosciuto da essere visto come la “risposta guatemalteca” ad Albert Schweitzer. Dopo aver fondato un ospedale nel Chimaltenango, il dottor Behrhorst estese i suoi programmi sanitari ed agricoli ad Uspantán, compreso il villaggio di Chimel. Almeno tre volontari statunitensi lavorarono con la famiglia Menchú e i loro vicini negli anni Settanta. Vicente fece parte del comitato, e i suoi due figli più grandi frequentarono un corso di due anni per diventare promotori di Behrhorst. Un’attività che non aveva nulla a che fare, ovviamente, con la politica: “Rigoberta non era una promotrice, ma era solita raccogliere offerte per i suoi fratelli alla clinica. I Menchú erano impegnati nella politica estremista? Nessuno dei tre volontari con cui ho parlato ricorda che lo fossero. ‘Penso che non passasse loro neanche per la mente’, risponde uno, basandosi sulle sue frequenti visite a Chimel tra il 1976 e il 1978’” . Anche i vecchi amici e i vicini negano che Vicente fosse impegnato in politica: “Ciò che dicono è che, sempre, egli pidió su derecho – insistette sui propri diritti” .
    Stoll si diffonde sulla particolare tecnica di indottrinamento marxista che il CUC adottava con i suoi militanti, resa indispensabile dalla loro eterogenea composizione sociale: “I marxisti erano soliti partire dal presupposto che la classe lavoratrice avrebbe inevitabilmente preso coscienza del proprio sfruttamento. I contadini creavano problemi perché, come piccoli proprietari, non erano stati completamente spogliati dei loro averi. Così, essi avrebbero necessitato di una leadership proveniente dalla classe lavoratrice urbana, ovvero gli intellettuali marxisti: i contadini indigeni, con la loro consapevolezza di rappresentare un gruppo a sé, erano ancora più problematici. Per comunicare con gli indigeni, la sinistra guatemalteca mutuò la dottrina della conscientización dalla teologia della liberazione. Lo sviluppo della coscienza fu insegnato in un linguaggio di reciprocità, in cui i contadini educavano i loro pedagoghi appartenenti alla classe media come il contrario, e ciò contribuiva al sorgere di nuove organizzazioni di contadini” .
    La tecnica della conscientización è stata per la sinistra un efficace metodo per radicalizzare le masse contadine indigene, inducendole ad abbandonare le loro posizioni tradizionalmente moderate [characteristic ameliorationism] e spingendole verso la guerriglia. Ma, sebbene un’organizzazione come il CUC non costituisca più un soggetto particolarmente rappresentativo nella sinistra guatemalteca, esso si è profondamente radicato nell’immaginario collettivo degli indigeni. La “presa di coscienza”, che può essere riassunta in tre punti: “1) ci hanno rubato la terra; 2) ora siamo più consapevoli; 3) non glielo permetteremo più”, è un tema centrale del libro della Menchú.
    Si inizia a comprendere, allora, il motivo della falsificazione commessa nell’attribuire al padre Vicente una militanza in un’organizzazione, il CUC, di cui in realtà egli non fece mai parte: rappresentare Vicente come uno dei suoi fondatori e principali attivisti significa non soltanto far brillare la sua figura della luce riflessa del CUC, ma fare di lui un simbolo, alla pari dell’organizzazione stessa, una figura epica da far sedimentare nell’immaginario dei contadini indios: “Nella sua narrazione del 1982, Rigoberta […] identifica suo padre come un lavoratore stagionale sfruttato, che combina la coscienza di un semiproletario rurale con quella di un contadino indipendente che si sta appropriando di terre pubbliche e si sta difendendo dall’espropriazione. Questo trasforma Vicente in un contadino universale, un simbolo che ha un innegabile fascino sui campesinos e i loro simpatizzanti, ma, come qualunque simbolo potente, condensa così grandi peculiarità da poter celare molto. Ancora, sebbene la vita di Vicente sia piuttosto differente da come viene descritta da sua figlia, egli ha finito per rappresentare molto di più, una trasformazione della coscienza che diciassette anni dopo la sua morte è evidente in tutta la popolazione Maya. Qualcosa di simile si può dire dell’organizzazione a cui Vicente non appartenne mai, il Comitato per l’Unità Contadina. Anche se il CUC nacque come un fronte di guerriglia, anche se fu molto meno largamente radicato di quanto pretendesse, è divenuto una leggendaria istanza di battaglia” .
    Ma i Menchú non appartenevano affatto alla categoria dei poveri senza terra. Né risulta che i ladinos fossero una casta dominante nel villaggio o nel distretto di Rigoberta, dove non c'erano grandi tenute, o fincas, come lei le chiama nel libro.
    Non solo Vicente Menchú non era affatto un contadino espropriato, ma possedeva 2.753 ettari di terra. La ricerca di Stoll ha ridimensionato la disputa per la terra, che sarebbe durata 22 anni, e che nel libro rappresenta l’elemento centrale, che conduce alla ribellione e alle tragedie seguenti. In realtà, si trattò di una contesa per un appezzamento minuscolo, ma, in quel contesto, significativo, di 151 ettari. “L'eroica lotta di Vicente Menchú contro i padroni che volevano prenderci la terra” in verità non fu una battaglia con i rappresentanti della classe dei conquistadores di discendenza europea, ma con i propri parenti Maya, la famiglia Túm, capeggiata dallo zio della moglie. “Se davvero Vicente ha accolto favorevolmente i guerriglieri – si domanda Stoll – che cosa poteva sperare di ottenere? Se prendiamo sul serio Mi chiamo Rigoberta Menchú la risposta è semplice, perché Chimel è assediato dai proprietari terrieri e i guerriglieri li proteggeranno. Ma se l’interminabile conflitto di Vicente era invece con Laguna Danta [la località dove risiedevano i Túm, ndr.], non potrebbe aver piuttosto desiderato che l’EGP lo proteggesse dai suoi parenti acquisiti? Quando i guerriglieri apparvero nel 1979, l’INTA gli stava assegnando la titolarità dei 2.753 ettari, ma rifiutò di includere i 151 ettari intorno alla casa di Vicente. La proprietà dell’ultimo tratto di terreno era ancora irrisolta, con grande scorno di entrambe le parti. Solo mesi dopo, nel novembre 1978, i Túm gettarono ombre sul censimento finale dell’INTA, dal momento che Vicente era stato sbattuto in prigione. Sebbene fosse libero dopo poche settimane, l’accusa pesava ancora sul suo capo, e la proprietà del terreno su cui aveva vissuto per trent’anni non era ancora certa” . Quando i guerriglieri cercano di arruolare e organizzare piccoli proprietari le cui inimicizie più pressanti sono tra di loro, è normale che gli eventi che ne susseguono siano motivati più dalle faide interne che dalla causa più ampia che si suppone i contadini dovrebbero abbracciare. Se Vicente Menchú aveva una politica, ha osservato David Horowitz, era quella tipica di un contadino conservatore . Ancora più importante è il fatto che la passione della sua vita non ha mai riguardato le problematiche sociali, ma questa lite familiare con i suoi parenti acquisiti, che erano piccoli proprietari terrieri e coltivatori come lui. E’ stato il suo coinvolgimento in questa faida di famiglia che lo ha fatto impegolare nel dramma politico in atto in Guatemala fra studenti e rivoluzionari di professione, lotta che in realtà era estranea ai suoi interessi e che ha finito per ucciderlo.

    -La calata dei guerriglieri nel villaggio di Rigoberta

    Alla fine degli anni Settanta, in coincidenza con un’offensiva globale sovietica, il regime cubano di Fidel Castro inaugurò una svolta nella propria politica estera, finanziando e armando tutta una serie di insorgenze guerrigliere in Centro America, secondo una strategia elaborata un decennio prima da Régis Debray (ex marito, come si è detto, di Elisabeth Burgos) e da Ernesto Guevara. I Paesi maggiormente coinvolti furono El Salvador e il Guatemala, dove i gruppi guerriglieri erano capeggiati non da indios, ma da ispanici di cittá, spesso provenienti da centri di addestramento comunisti occidentali e del Medio Oriente. Del resto, già negli anni Cinquanta, per molti guatemaltechi, l’esempio di Fidel Castro, di “Che” Guevara e della guerriglia che stavano conducendo sulla Sierra Maestra a Cuba sembrava la sola strada percorribile. Come molti latinoamericani, credevano di vedere nella rivoluzione cubana un modello di liberazione.
    L’arrivo dei guerriglieri si fece preannunciare, ad Uspantán (il comune più grande nelle vicinanze di Chimel, il paese di Rigoberta), con l’occupazione di una proprietà e un agguato ad un camion dell’esercito. Ma fu solo il 29 aprile del 1979 che uno di questi corpi militarizzati, l’Esercito Guerrigliero dei Poveri del Guatemala (EGP), si materializzò all’improvviso, dapprima infiltrandosi nella città in abiti civili. Una volta in uniforme, si rivelarono essere più di un centinaio: dal momento che nessuno di loro era mascherato, e nessuno fu riconosciuto nelle ore successive, è alquanto probabile che non fossero del luogo. Secondo la testimonianza rilasciata a Stoll da una donna Quiché, i guerriglieri dipinsero di rosso tutto ciò che potevano, irruppero nel mercato, sequestrarono i soldi dell’esattore delle tasse, e li gettarono in strada perché chiunque potesse prenderseli. Forzarono le prigioni e fecero fuggire tutti i detenuti. Quando giunsero alla piazza della città, gridarono ‘Siamo i difensori dei poveri’ per quindici o venti minuti consecutivi . Un altro testimone ricorda che furono tagliate anche le comunicazioni, ossia il telegrafo.
    Alcuni sostengono che la folla applaudì gli oratori dell’EGP, altri che vi furono segni di disapprovazione. “Ci spaventarono – ha detto a Stoll la donna di cui si è detto - tutti erano impauriti perché molti di loro erano armati. Sembrava che ci fossero delle donne ne gruppo, ma non era possibile vederle perché erano in uniforme. Ci fu qualcuno [nella folla] che disse ‘E’ una cattiva cosa, perché forse stanno per ucciderci’. Altri dissero ‘E’ bene, perché stanno aiutando i poveri’” .
    Sia come sia, il punto è che, come osserva Horowitz, i guerriglieri, come forestieri, non avevano alcuna comprensione della situazione ad Uspantán, dove praticamente tutte le dispute per la terra si svolgevano fra gli stessi abitanti Maya . Le prime vittime della violenza guerrigliera furono due proprietari terrieri ladinos, Honorio García ed Eliu Martínez, ma subito dopo fu la volta di due missionari del Summer Institute of Linguistic (SIL), Stan e Margot McMillen, i quali dirigevano una clinica nel villaggio Uspanteko di Las Pacayas, vicino a Soch. “I gringos sono bugiardi”, fu la motivazione addotta dal comandante dei guerriglieri. “Offrono qualcosa alla gente, ma soltanto per sottrarre qualcos’altro. Hanno cancellato la medicina tradizionale, e negli Stati Uniti trattano i guatemaltechi come schiavi, facendo loro pulire le latrine” .
    Essi, osserva Horowitz, percepivano il problema sociale secondo una versione da manuale marxista, che poi è stata legittimata e perpetuata dal libro di Rigoberta e dalla commissione che assegna i Premi Nobel. Credendo che questa violenza riuscita avesse consegnato il potere ai guerriglieri della sua regione, Vicente Menchú si aggregò a loro, fornì loro un posto per riunirsi e li accompagnò ad una manifestazione. Ma le forze di polizia del Guatemala, che si erano preparate ad affrontare l'offensiva progettata da Fidel Castro, sostenuto dai sovietici, reagì con la brutalità che la contraddistingueva. Gli omicidi che ne seguirono furono promossi anche dai parenti inferociti dei contadini ladinos uccisi, che volevano la vendetta contro gli assassini di sinistra. Fu questa catena di violenze a causare il massacro di molti innocenti, compresi i genitori di Rigoberta e un fratello, la cui morte Rigoberta, come si vedrà ora, ha reso sensazionale con la storia falsa del rogo al quale, sempre secondo la sua invenzione, furono costretti ad assistere lei e i suoi genitori.

    -La morte del fratello

    Una delle vicende più drammatiche della vicenda narrata dalla Menchú è proprio il rapimento l’uccisione del fratello Petrocinio. Ma, come ha osservato ancora una volta Stoll, Rigoberta ha fornito dei fatti versioni contraddittorie. Secondo il libro del 1982, mentre la maggior parte della sua famiglia era nascosta, Petrocinio, il fratello minore, di sedici anni, viveva a Chimel, dove prestava servizio come segretario della comunità . Il padre era entrato in clandestinità con il CUC, mentre Rigoberta era presa dai suoi impegni nella stessa organizzazione, nel dipartimento di Heheutenango.
    Petrocinio viene sequestrato il 9 settembre del 1979, durante un viaggio organizzativo in un altro villaggio, dopo che un membro della comunità lo ha consegnato all’esercito in cambio di una somma di denaro. Con lui ci sono una ragazza e la madre, che lo seguono fino all’accampamento militare in cui altri venti prigionieri sono già stati sottoposti a torture raccapriccianti. Immediatamente la famiglia Menchú si riunisce. L’esercito chiama a raccolta i contadini “per assistere allo spettacolo” : “: “Era il 23 settembre – racconta la Menchú -, quando sentimmo che i militari avevano diffuso bollettini in diverse aldeas. Nella mia aldea non vennero perché sapevano che il popolo stava all’erta ed era preparato ad aspettarli in qualsiasi momento. Ma in altre aldeas, dove pure abbiamo dei compagni, diffusero bollettini di propaganda in cui annunciavano la rappresaglia nei confronti dei guerriglieri: avevano in mano un certo numero di guerriglieri e li avrebbero castigati nel tal posto. Quando arrivò la notizia, ricordo che erano le undici di mattina, la mamma disse: ‘Mio figlio sarà lá, tra i castigati’. Sarebbe stato un castigo pubblico e per questo chiamavano la gente perché vi presenziasse. Anzi, il bollettino diceva che chi non sarebbe stato presente, sarebbe stato considerato complice dei guerriglieri” .
    I Menchú raggiungono la piazza di Chajul, il paese dove erano stati convocati, proprio nel momento in cui i soldati fanno scendere Petrocinio e gli altri prigionieri da un camion militare. I prigionieri, che indossano uniformi militari, sono stati torturati in maniera così atroce da risultare irriconoscibili. Petrocinio è stato rapato a zero e sfregiato, e gli sono state strappate le unghie delle mani e dei piedi. Le sue vecchie ferite sono ormai infette. Mentre un ufficiale arringa la folla sulle insidie del comunismo, i soldati strappano i vestiti ai prigionieri per mostrare quale trattamento è stato loro riservato. Infine, l’ufficiale ordina di cospargere i prigionieri di benzina, e di dar loro fuoco. Molti contadini, di fronte a questo spettacolo, cercano di avventarsi con i loro machete contro i soldati, che nel frattempo si allontanano gridando slogan in favore dell’esercito e della patria. L’unica fonte d’acqua disponibile è troppo lontana, così per i prigionieri arsi vivi non c’è più nulla da fare.
    Il padre Vicente, sempre secondo Rigoberta, dice di lui che sapeva leggere e scrivere, e prendeva nota di tutte le proteste che giungevano dalla zona. Ma, dice Stoll, “in Uspantán ho sentito ricordare Petrocinio solo come un giovane che poteva aver frequentato un po’ di scuola, ma non come catechista, segretario od organizzatore del villaggio” . Si presume che sia stato agarrado (catturato) perché era a portata di mano, e la sua famiglia era accusata di un raid dell’EGP a Soch.
    Secondo la Menchú, non era raro che l’esercito umiliasse e torturasse i prigionieri prima di ucciderli, anche di fronte alle loro famiglie. “Ma – scrive Stoll - quando raccontai la storia narrata da Rigoberta, dei prigionieri bruciati vivi nella piazza di Chajul, tutto quello che ottenni furono occhiate interrogative. I prigionieri morirono rapidamente a causa delle violenze, confermarono i paesani, ma ciò che essi ricordavano era abbastanza differente. Un uomo rammentava di aver visto cinque o sei cadaveri, vestiti con abiti militari, un chilometro fuori della città in direzione della guarnigione militare. Un elicottero aveva portato gli uomini prima che fossero uccisi: l’esercito sostenne che si trattava di guerriglieri di Uspantán che avevano attaccato Chajul” .
    Stoll sostiene che le versioni fornite dagli abitanti di Chajul sono più credibili di quella della Menchú, perché una delegazione di contadini, tra i quali anche suo padre Vicente, comunicò la versione dei cittadini di Chajul poco più tardi, in una seconda tornata di proteste nella capitale nel gennaio 1980 .

    -L’assalto all’ambasciata spagnola: chi appiccò il fuoco?

    Come sottolinea Stoll, la presa di ostaggi nelle ambasciate e nei ministeri è una forma di protesta diffusa in America latina . Nel 1978, i sandinisti catturarono l’intero Congresso del Nicaragua per drammatizzare la loro battaglia contro la dittatura di Somoza. Si tratta però di una tattica che può avere esiti disastrosi, come nel caso dell’occupazione della Corte suprema colombiana nel 1985, alla quale l’esercito rispose con i carri armati. E come nel caso, evocato dalla Menchú, dell’occupazione dell’ambasciata spagnola a Ciudad de Guatemala, il 31 gennaio 1980. Contestatori mascherati assaltarono l’ambasciata per protestare contro la repressione governativa, al che la polizia la prese d’assalto. Trentasei persone morirono in una conflagrazione la cui dinamica resta tuttora misteriosa. Ancora oggi, non c’è accordo su chi appiccò il fuoco all’ambasciata spagnola.
    Vincente Menchú, racconta Rigoberta, è il portavoce dei contadini. L'occupazione è guidata dal Fronte rivoluzionario studentesco “Robin García”. Un testimone ha descritto a David Stoll come veniva addestrato Vicente Menchú per il ruolo che doveva svolgere: “Dicevano a Don Vicente, ‘Dì: 'I popoli uniti in tutto il mondo non saranno mai sconfitti,'’ e Don Vicente diceva, 'I popoli uniti non saranno mai sconfitti.' Dicevano a Don Vicente, Alza la mano sinistra quando dici così,' ed egli alzava la mano sinistra” . Quando partono per il viaggio che li porta all'ambasciata spagnola, i contadini dell'Uspantán che accompagnano i rivoluzionari studenteschi non hanno la minima idea di dove stiano andando, né di quale sia lo scopo stesso del viaggio. David Stoll ha intervistato una sopravvissuta il cui marito morì nell'incidente, la quale gli ha spiegato che il viaggio ebbe inizio con una festa di nozze presso la chiesa cattolica di Uspantán. Due giorni dopo la cerimonia, i convenuti partono, senza rivelare, nemmeno a lei, lo scopo e la destinazione del viaggio: “I señores dissero che andavano alla costa, ma arrivarono alla capitale”. Una volta lì, gli studenti rivoluzionari mettono in atto il loro piano di occupazione dell'ambasciata e di sequestro di ostaggi, mentre i Maya ancora non sospettano niente.
    L’ambasciata spagnola sorge in un edificio non sorvegliato in una via periferica. A volto mascherato, gli occupanti varcano l’entrata principale alle undici del mattino. Annunciano che tutti i locali sono da considerarsi occupati, e fanno delle telefonate ai media per ottenere una conferenza stampa. Prima che la stampa giunga all’ambasciata, questa è già circondata dalla polizia. Gli appelli dell’ambasciatore spagnolo Cajal e del suo segretario, e di due dignitari guatemaltechi, vengono ignorati, e la polizia inizia la sua irruzione alle 14.
    I manifestanti arretrano al secondo piano, dietro un cancello metallico che bloccava la cima delle scale. I leader della protesta chiedono, in cambio dello sgombero dell’ambasciata, di poter fare un corteo nella capitale portando con sé gli ostaggi, ma la polizia rifiuta, esigendo che gli occupanti lascino uno per uno l’edificio. Quando la polizia infrange il cancello metallico, gli occupanti rinchiudono i loro ostaggi nell’ufficio dell’ambasciatore e lo barricano con dei mobili.
    Intorno alle 15, la polizia inizia a battere colpi contro la porta. Al di fuori, i giornalisti e gli altri astanti odono un’esplosione all’interno della stanza, e vedono fumo e fuoco attraverso le finestre. Dal momento che queste hanno un’intelaiatura metallica e sono provviste di sbarre di ferro, nessuno può fuggire. I pompieri possono soltanto gettare acqua da terra. Quando, alla fine, entrano nella sala, la maggior parte delle vittime si trovano ammassate l’una sull’altra vicino alla finestra. Per lo più, sembrano essere morti a causa delle inalazioni di fumo .
    Solo due persone sono sopravvissute: l’ambasciatore Cajal, e uno degli occupanti, Gregorio Yujá Xoná, di San Pablo El Baldo. La settimana successiva, però, Gregorio è portato via dal letto d’ospedale da uomini armati, e qualche giorno dopo il suo cadavere viene ritrovato di fronte all’Università di San Carlos con un biglietto che recita: “l’ambasciatore di Spagna corre lo stesso rischio”.
    Sul numero e sulla provenienza dei morti c’è molta confusione e certo il libro della Menchú non aiuta a fare chiarezza. Il governo spagnolo ha accusato il regime guatemalteco guidato da Lucas García della morte di trentanove persone, ma il rapporto della Croce Rossa parla di trentasei morti . Tra questi, figurano sei campesinos provenienti da Chimel. Un numero che si accorda con le ricerche di Stoll, secondo cui i morti di Chimel erano, oltre al padre di Rigoberta, un catechista di nome Mateo Sic Pinnula, un trentasettenne di nome Juan Us Chic, probabilmente il tesoriere del comitato del Chimel, una donna di nome Regina Pol Suy, un giovane parente dei Menchú di nome Tomás Lux e una ragazza di quattordici anni, Maria Pinula Lux . Eppure, anche in questo caso la Menchú riesce a mentire o quantomeno ad essere imprecisa, visto che nel suo libro parla non di sei, ma di otto morti provenienti da Chimel.
    La sinistra ha sempre accusato le forze dell’ordine di aver usato dispositivi incendiari come il napalm o il fosforo bianco per incenerire le vittime. Si è anche detto che le bottiglie Molotov che gli occupanti avevano con sé erano di tipo semplice, e non avrebbero mai potuto causare il massacro che si è verificato. “Da allora – osserva Stoll – la maggior parte dei resoconti dell’incendio hanno riecheggiato le fonti rivoluzionarie e accusato le forze dell’ordine di avervi dato inizio. Il racconto di Rigoberta del 1982, insolitamente, lascia la questione aperta. Ma un decennio più tardi, lei e il CUC hanno raggiunto il consenso accusando il governo e sostenendo che esso voleva ‘distogliere l’attenzione’ dalla sua immagine logorata. In che modo il bruciare vive trentasette persone in un’ambasciata straniera avrebbe distolto l’attenzione va al di lá della comprensione, sebbene sia vero che il regime di Lucas García fu sfacciato nella sua brutalità” .
    Come ovvio, il movimento ha rivendicato la natura pacifica dell’occupazione dell’ambasciata. David Stoll sostiene che, retrospettivamente, essa appare nonviolenta in confronto alla brutalità con cui la polizia assalì i dimostranti. Ma, subito dopo, riconosce che il personale dell’ambasciata non oppose alcuna resistenza, per cui gli occupanti non avevano alcuna giustificazione per l’uso della forza, e dunque difficilmente si può negare che gli eventi che seguirono siano stati scevri da violenza e coercizione. I ventisette contestatori erano armati di machete, tre o quattro revolver, e bottiglie Molotov . Inoltre essi presero persone innocenti in ostaggio, comprese quattro donne guatemalteche e cinque spagnole che lavoravano per l’ambasciata, precludendo loro ogni via di fuga. Gli ostaggi vennero ammucchiati sotto il tiro delle armi, e usati come scudi umani.
    Il libro della Menchú fa riferimento alle Molotov come parte dell’armamentario di autodifesa del villaggio, ma, osserva Stoll “è qualcosa che non ho mai sentito nel nord del Quiché” . Il solo fatto che alcuni dei contestatori avessero con sé delle bombe, non significa necessariamente che tutti fossero a conoscenza del fatto che quella armi sarebbero state portate, che tutti fossero d’accordo con il loro utilizzo, e nemmeno che tutti sapessero di che cosa si trattava. Il piano per l’occupazione dell’ambasciata rinvenuto dalla polizia, spiega Stoll, parla dell’importanza di utilizzare correttamente i “materiali di autodifesa”, compresa la loro distribuzione, l’istruire gli occupanti più giovani su di essi, e il mantenere una certa segretezza riguardo al loro uso . Questo, osserva Stoll, sottintende differenti livelli di conoscenza tra contestatori eterogenei fra loro. Dal piano di occupazione, inoltre, si evince che era destinato alla lettura da parte di persone istruite, il che avrebbe automaticamente escluso i contadini. Difficilmente questi avrebbero compreso appieno le conseguenze dell’uso della benzina delle Molotov. Inoltre, nell’atmosfera di panico dell’ufficio dell’ambasciata, non c’era sicuramente tempo per discutere di decisioni immediate, tanto più con “compagni” che parlavano a stento il castigliano.
    Mario Aguirre Godoy, un ostaggio che era riuscito a fuggire prima dell’assedio finale all’ufficio dell’ambasciatore, racconta che, quando la polizia irruppe nell’ambasciata, un occupante gridò: “Siamo pronti a morire se non tornate indietro!”. Un altro manifestante urlò: “Se entrate, gli ostaggi faranno la nostra stessa fine!”. Dal momento che nessun testimone ha visto la polizia gettare materiale incendiario nella stanza, e le fiamme uscivano dalla finestra, la terribile interpretazione che molti testimoni hanno dato è che gli occupanti si siano suicidati. Stoll riconosce che i contestatori che decisero di bruciare benzina in uno spazio così ristretto probabilmente ignoravano le conseguenze di un tale atto. Forse, sempre secondo Stoll, volevano soltanto costringere la polizia a ad uscire dall’edificio. Anche l’ambasciatore Cajal sostiene che se il regime di Lucas avesse voluto negoziare con lui, nessuno sarebbe stato ucciso. “Nondimeno – scrive Stoll – una terribile possibilità rimane: il massacro all’ambasciata spagnola potrebbe essere stato un suicidio rivoluzionario che avrebbe comportato l’uccisione degli ostaggi e dei giovani contestatori” .
    Ma nel complesso, l’olocausto dell’ambasciata spagnola non ha rappresentato certo una sconfitta per il movimento rivoluzionario, dal momento che la polizia aveva assaltato l’edificio malgrado le proteste dell’ambasciatore spagnolo. La flagrante violazione delle leggi internazionali relegò il governo del Guatemala nel più completo isolamento, e il massacro finì per acquistare un valore simbolico per tutti coloro che miravano ad una coalizione rivoluzionaria.

    -Il premio Nobel

    Come è noto, il premio Nobel per la pace prende il nome dall’inventore svedese della dinamite, Alfred Bernhard Nobel (1833 – 1896), che sperava di creare un’arma così distruttiva da dissuadere per sempre gli uomini dalla guerra. Ma è lecito ritenere che non sempre egli avrebbe approvato il conferimento del premio. Ogni anno, una medaglia e una somma di denaro (nel caso della Menchú, 1.200.000 dollari) vengono assegnati alla persona che ha fatto “il miglior lavoro per la fraternità tra le nazioni, per l’abolizione o la diminuzione delle armi esistenti e per la creazione o la promozione di assemblee di pace”. Ma quando Nobel ideò il premio, probabilmente, era ben lungi dall’immaginare che nel secolo successivo sarebbe stato conferito a Henry Kissinger, a Le Duc Tho (Vietnam del Nord, 1973), al presidente egiziano Anwar Sadat e al primo ministro israeliano Menachem Begin (1978).
    Sotto molti punti di vista, Rigoberta Menchú era una figura più adatta di altre a ricevere il premio: non avendo mai fatto parte di organizzazioni statali o simili, non poteva essere ritenuta responsabile, dal punto di vista amministrativo, di violazioni dei diritti umani. Peraltro, la sua candidatura rimetteva in discussione i criteri di accettabilità, perché il suo libro del 1982 rivendica esplicitamente il ricorso alla violenza: “Il nostro lavoro nell’aldea continuava, anche se non avevo la chiarezza politica su chi fossero esattamente i nostri nemici. Cominciammo a mettere in pratica le nostre misure di sicurezza per l’aldea. Cominciammo a costruire le trappole che, secondo quanto ci raccontavano i nonni, venivano usate dai nostri antenati. I nostri antenati ce le hanno lasciate come un’eredità. E così dicevamo: se vengono i soldati dei proprietari li ammazzeremo qui. Fu allora che decidemmo di usare la violenza” . Persino le Sacre Scritture vengono invocate come fonte di legittimazione per il ricorso alla violenza: “Cominciammo a studiare la Bibbia: nella Bibbia ci sono molti aspetti che possiamo collegare alle nostre relazioni con gli antenati, i quali a loro volta vissero una vita simile alla nostra” . E ancora: “Ci mettemmo a cercare testi in cui fosse rappresentato ciascuno di noi, facendo una sorta di paragone con la nostra cultura indigena. Nell’esempio di Mosè sono rappresentati gli uomini. Abbiamo poi l’esempio di Giuditta, anche lei una donna famosa ai suoi tempi, che tanto lottò per il suo popolo e tanto fece contro il re di quei tempi, che arrivò a tagliargli la testa. Eccola avanzare con in pugno la vittoria, la testa del re. Questo esempio ci dà un’ulteriore idea di come noi cristiani dobbiamo difenderci. Ci faceva pensare che senza la giusta violenza nessun popolo può arrivare a ottenere la sua vittoria. […] E poi c’è la storia di David che nella Bibbia appare come un povero pastorello e che riuscì a sconfiggere il re di quel tempo, che era il re Golia; questo episodio va destinato all’educazione dei bambini della nostra comunità. In tal modo, dunque, cercammo testi e salmi che ci insegnassero a difenderci dai nostri nemici” . Persino Gesù Cristo viene trasformato in una sorta di antesignano della violenza proletaria: “Dalla Bibbia abbiamo ricavato persino delle idee per perfezionare le nostre armi popolari, che erano rimaste la nostra unica soluzione. Io sono cristiana e partecipo alla lotta in quanto cristiana. E per me come cristiana la cosa più importante è la vita di Cristo. Per tutta la vita, Cristo fu umile. Come narra il racconto nacque in una piccola capanna. Fu perseguitato e, per questo, dovette decidere di avere un piccolo gruppo per far sì che la sua semente non si disperdesse. Furono i suoi discepoli, gli apostoli” .
    Sulla base di questa interpretazione quantomeno bizzarra della Bibbia, Rigoberta realizza bottiglie Molotov, approva la minaccia dell’uso di bombe come tattica e partecipa alla discussione sul giustiziare o no un’anziana donna sospettata di essere un’informatrice (fortunatamente per il futuro premio Nobel, la sospettata verrà giudicata innocente ).
    Come ha osservato Stoll, il conferimento del premio alla Menchú si è rivelato proficuo anche per i gruppi guerriglieri: la carta “indigena” ha consentito loro di sopravvivere al collasso dell’Unione Sovietica, alla bancarotta di Cuba e all’esaurimento delle strategie organizzative tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli Ottanta . La sinistra aveva trovato un nuovo movimento sociale a cui guardare come ad un punto di riferimento. Persino in Europa, i socialdemocratici si sono dimostrati alquanto ricettivi all’idealizzazione romantica della guerriglia e alla mistica del nobile indio oppresso. “Questi presupposti sono raramente contraddetti dai media scandinavi, che in Centro America fanno affidamento su giovani freelance idealisti anziché su corrispondenti più esperti e smaliziati. La conseguente confusione mentale ha consentito ai socialdemocratici europei, che trovarono la forza per combattere i marxisti nei rispettivi Paesi, di subire il fascino dei rivoluzionari marxisti dell’America Latina” .

    -La “rottura” con Elisabeth Burgos

    La ricerca di Stoll, in definitiva, ha smascherato Rigoberta Menchú come agente comunista al servizio proprio di quei terroristi che in ultima analisi furono i veri responsabili dello sterminio della sua stessa famiglia. La fedeltà di Rigoberta alla causa castrista è così ferrea che, dopo la pubblicazione del suo libro e la sua trasformazione in portavoce internazionale dei popoli indigeni, ella si è rifiutata di denunciare il tentativo genocida della dittatura sandinista di eliminare gli indiani Miskitos. Sulla questione si è perfino consumata la rottura con la sua traduttrice, Elisabeth Burgos-Debray, che, insieme ad altri personaggi eminenti nel mondo della sinistra francese, aveva protestato contro l'aggressione sandinista.
    Ma soprattutto, la stessa antropologa ha finito per sconfessare il racconto della Menchú come menzognero. Nel 1982, quando Rigoberta le dettò il racconto che avrebbe preso la forma del libro, la Burgos non poteva recarsi in Guatemala e cercare di corroborare il racconto. “Mi limitai ad inviare il manoscritto a Ricardo Ramirez, il leader della guerriglia, che me lo rispedì con una nota di congratulazioni. Mi domandò soltanto di modificare un paio di dettagli” . Quindici anni dopo, la Burgos non aveva nemmeno bisogno del libro di Stoll per rendersi conto di aver partecipato, inconsapevolmente, a un’opera di mistificazione: “Alla fine degli anni Ottanta, iniziai a ricevere informazioni che non supportavano il mio libro. Compresi fino a che punto la strategia guerrigliera era un’impresa giacobina, premeditata e pericolosa. Fu allora che iniziò la campagna per il premio Nobel a Rigoberta, e non mi avrebbero più voluta associare a lei perché avevo detto che non approvavo certe cose. Il libro di Stoll, che è molto ben documentato, non certo un semplice pamphlet, dimostra che non è vero che Rigoberta non andò mai a scuola, che non è vero che suo fratello Nicolás morì di fame – in realtà, è ancora vivo – [nel capitolo VII del suo libro, la Menchú racconta che, subito dopo che lei e la sua famiglia iniziarono a lavorare in una finca, un suo fratellino di otto anni, Nicolás appunto, morì di denutrizione, ndr. ] che è quantomeno inesatto che Rigoberta lavorò come domestica nella capitale, e che, quindi, non poteva aver patito le umiliazioni razzistiche di cui parlava, che non fu testimone dell’uccisione dell’altro suo fratello, Petrocinio, per mano dei militari che lo bruciarono vivo, e che neppure la sua immagine idealizzata del padre era autentica” .

    -Conclusioni

    Assurta a fama mondiale grazie al successo del suo libro, al Premio Nobel assegnatole, e alla carica di ambasciatrice delle Nazioni Unite, la Menchú è anche a capo della “Fondazione Rigoberta Menchú Túm” per i Diritti Umani e si fa portavoce della causa della “giustizia sociale e della pace”. Ma tutto questo, afferma Horowitz, non è altro che “fiction politica”: “praticamente ogni cosa che ha scritto Rigoberta è una bugia. Si tratta inoltre di bugie non casuali o marginali, ma che riguardano gli avvenimenti e i fatti che stanno al centro della storia” , e che sono state appositamente e accuratamente studiate per creare una leggenda provvista di tutti i crismi per diventare una parabola di quella nuova religione, più che mai imperante, che è il “politicamente corretto”.
    A proposito delle polemiche suscitate dal suo libro che smaschera le menzogne della Menchú, Stoll ha scritto: “Negli anni Sessanta molti accademici nordamericani iniziarono a giustificare le loro carriere identificandosi con gli ‘oppressi’. Invece di studiare ‘in basso’ negli ordini sociali come prima, ad esempio, studiavamo ‘in alto’ investigando le strutture di potere. A partire dagli anni Sessanta la sinistra accademica fu emarginata dalla politica nazionale dalla reazione di destra. Nel mondo, le alternative al capitalismo si andavano disintegrando. Un luogo dove gli accademici come me [Stoll è pur sempre uno studioso di sinistra, ndr.] potevano trovare rifugio era la critica dell’egemonia capitalistica. Ma così come noi decostruivamo le forme occidentali di conoscenza, molti continuarono ad abbracciare le loro cause preferite con molto più fervore di quanto l’imperante culto dello scetticismo sembrasse permettere. Il conseguente miscuglio di iperrelativismo e di pensiero dottrinario portò l’attenzione pubblica nel dibattito nordamericano sul politically correct. Fino al 1990. p.c. era soltanto un’espressione ironica su quanto era facile offendere la sensibilità delle persone di sinistra. Raramente la si sentiva al di fuori delle università di maggior prestigio. In seguito, i critici degli accademici liberal si resero conto che gli scherzi riguardavano le azioni ideologiche, come dimostrato dall’occasionale persecuzione di un conservatore in un campus, e iniziarono a denunciare la ‘correttezza politica’ come minaccia per la libertà di parola. Rigoberta rappresentava uno dei temi più delicati, a causa del dibattito, strettamente correlato, sul multiculturalismo, il terreno di discussione riguardo a cosa si sarebbe dovuto insegnare nelle scienze umane e sociali. Per quelli che considerano il multiculturalismo una buona idea, esso rappresenta uno sforzo lungamente atteso per portare le voci precedentemente escluse – in particolare quelle delle donne, dei gruppi etnici subordinati, dei gay e delle lesbiche – nei curricula. Per quelli che considerano negativamente il multiculturalismo, esso minaccia di frammentare il sistema educativo e la società americana in blocchi di identità che non possono più rendersi conto di quanto hanno in comune. Fu nel nome del multiculturalismo che Mi chiamo Rigoberta Menchú entrò nelle bibliografie universitarie. Poiché il libro ha l’utile prerogativa di riguardare i contadini, gli indigeni e le donne, è una forma efficace per illustrare le intersezioni di classi, etnie e generi, accompagnate da fluenti discussioni sul sincretismo religioso, l’identità, la coscienza e la protesta” .
    Il fatto che il libro della Menchú sia costruito ad arte per creare un’icona del poitically correct è dimostrato dall’insistenza con cui Rigoberta batte sul proprio analfabetismo e sulla sua ignoranza della lingua spagnola: un ingrediente indispensabile per creare una figura rispondente ai canoni del bon sauvage, il mito inventato da Rousseau e perpetuato da miriadi di intellettuali terzomondisti, ma anche fatto volentieri proprio da intellettuali indigeni, dell’uomo primitivo originariamente buono, che si scontra con i mali, le violenze, le discriminazioni create dalla civiltà. La rivendicazione di analfabetismo, e quindi, in certa misura, di “selvaggeria” della Menchú, equivale quindi a una rivendicazione di innocenza. In che misura questo incoraggi un atteggiamento paternalistico nei confronti delle popolazioni meno sviluppate, e quanto, a lungo termine, questo paternalismo le danneggi, è questione su cui si potrebbe discutere ampiamente. Di sicuro, Rigoberta Menchú ne ha solo guadagnato.
    La reazione della Menchú allo smascheramento delle sue menzogne, ha scritto Horowitz, è stata duplice. Da un lato ha risposto con un “no comment”, dall’altro ha aggiunto l’ennesima menzogna, negando di aver avuto niente a che fare con il libro che le ha regalato fama universale. Cosa che, naturalmente, si è guardata bene dal fare quando le è stato assegnato il premio Nobel. Ma, come si è visto, David Stoll, ascoltando i nastri incisi per la Burgos-Debray, che costituirono la base del libro, e confrontandoli con il libro stesso, ne ha tratto la convinzione che la narrazione, fatti salvi gli aggiustamenti apportati dall’antropologa, è sostanzialmente identica.
    Alla luce di tutte le menzogne di cui risulta essere intessuta, la fittizia autobiografia della Menchú non può che essere letta come un pezzo di propaganda a sostegno delle organizzazioni terroristiche comuniste, e, forse più di ogni altra cosa, come un mattone importantissimo aggiunto a quella che è una delle colonne portanti della subcultura del “politicamente corretto”: l’odio contro gli europei, le società che essi hanno costruito, gli Stati Uniti, insomma verso l’Occidente. Non è un caso che il suo libro sia diventato vangelo là dove il politically correct impera, ovvero nelle università di quello stesso Occidente che sembra amare tanto il rito dell’autoflagellazione: sono oltre 15.000 le tesi di laurea scritte su di lei, tutte improntate alla più supina accettazione delle sue “verità”. Inoltre, la Menchú ha già ricevuto quattordici dottorati onorari presso altrettanti istituti superiori di prestigio.
    L’accurata opera di demistificazione di Stoll, purtroppo, non ha sortito alcun effetto pratico ai fini di cambiare questa situazione. La commissione per il Nobel si è già rifiutata di revocare il premio. Anzi, il 7 dicembre 2002, a San Pedro Jocopilas, nel dipartimento di Quiché, sono stati commemorati, con una cerimonia religiosa Maya ed una serie di iniziative culturali, i dieci anni dal conferimento del Premio Nobel per la pace alla leader indigena guatemalteca. Tre giorni dopo, la Menchú era a San Marcos (250 chilometri a ovest di Città del Guatemala) dove ha tenuto una conferenza dal titolo: “I popoli indigeni e il valore della lotta per la terra”. Il giorno successivo l’ha vista al fianco delle organizzazioni per i diritti umani di Chimaltenango (40 chilometri a ovest della capitale), località dove si progetta di costruire un “Complesso per la pace” .
    In migliaia di corsi universitari il suo libro continua a figurare tra i testi dei programmi d’esame, e gli editorialisti della stampa più importante hanno preso le difese delle sue menzogne. E’ interessante analizzare il leit-motiv che accomuna queste prese di posizione, e che si potrebbe riassumere in questa formula: “anche se mente, dice la verità”. Il Los Angeles Times, ad esempio, ha riconosciuto che “qualcosa è andato storto”, ma, nel contempo, ha sostenuto che sarebbe sbagliato danneggiare la “causa” per colpa degli eccessi del libro della Menchú. Anzi, come recita una frase riportata da Horowitz, “Dopo le prime bugie, l’intero apparato degli attivisti dei diritti umani, del mondo del giornalismo e delle università si è adoperato per esagerare le terribili condizioni di vita dei contadini, quando dire la verità sarebbe stato sufficiente”. Ma, osserva Horowitz, se dire la verità fosse stato sufficiente, allora non ci sarebbe stato bisogno delle bugie della Menchú, né della loro diffusione. E se nella leggenda ci fosse stato del vero, allora i guerriglieri guatemaltechi non sarebbero spariti nel giro di due o tre anni. Il punto, osserva ancora Horowitz, è che non c’erano le premesse per l’insurrezione armata che i guerriglieri cercarono di forzare, proprio come non ce n’erano stati per l’insurrezione in Bolivia in cui aveva perso la vita Ernesto Guevara .
    Così come la commissione che assegna i premi Nobel si è rifiutata di revocare il riconoscimento del 1992, altrettanto fanno le Nazioni Unite, per il quali è “Volenteroso Ambasciatore di Cultura della Pace”, carica che, insieme al Nobel, garantisce del suo valore morale e intellettuale e della sua reputazione di paladina dei diritti dei popoli indigeni e in generale dei poveri, degli emarginati e dei diseredati della terra. A questo proposito, andrebbe osservato che, la mancata revoca del premio Nobel ha, indipendentemente dal giudizio morale che se ne può dare, una maggiore legittimità, in quanto a conferirlo è pur sempre un soggetto privato. Ma lo status di ambasciatrice Onu è, naturalmente, pubblico, e le garantisce, nel corso dei 7.000 inviti a cerimonie, conferenze, convegni che si dice riceva ogni anno, di esternare, a nome di milioni di persone, affermazioni come quella secondo cui l'Occidente “pagherà per tutte le guerre che ha fatto nel mondo”. Recentemente, a Milano, ha dichiarato: “se i seimila morti delle Torri gemelle meritavano una simile guerra, allora l'avrebbero meritata anche le duecentomila vittime della guerra civile del Guatemala e i quasi cinquantamila ‘desaparecidos’”. Di Bin Laden ha detto che “È un alunno degli Stati Uniti, un militare che è stato addestrato come uno stratega per combattere contro i russi. Ma è anche un formidabile pretesto per nascondere i veri interessi che sono in gioco con questa guerra: il controllo degli oleodotti e del petrolio afgano” .
    Se la violenza e la disperazione descritti da Rigoberta Menchú nel suo libro hanno una fonte, questa va cercata nella stessa intellighentsia di sinistra, che ha fatto di questa mentitrice un’eroina, e della sua mendace biografia un esempio da manuale di sociologia marxista.
    Prova ne sia il fatto che a “Latinoamericana”, la rivista diretta da qualche tempo da Gianni Miná, ha dichiarato: “Troppe autorità degli Stati Uniti fingono di ignorare che esse stesse hanno addestrato, armato, finanziato e incoraggiato le menti malate che oggi si rivoltano contro di loro e tentano di nascondere che i genocidi commessi nella seconda metà del ventesimo secolo in America, e in altre regioni del mondo, hanno potuto contare sull’approvazione, il sostegno e l’assenso di Washington” . Ma naturalmente, il premio Nobel per la pace si guarda bene dal rivolgere altrettanto accorato sdegno nei confronti dell’appoggio dato dalla dittatura cubana al terrorismo comunista in Centro America, secondo le linee tracciate nel decennio precedente, come si è detto, da Ernesto “Che” Guevara e da Régis Debray. Alla fine degli anni ’70, infatti, in coincidenza con un’offensiva globale sovietica, Fidel Castro ha imposto alla politica estera del suo Paese una netta svolta, armando e sponsorizzando una serie di focos insurrezionali, in particolare in Nicaragua, El Salvador, e, guarda caso, Guatemala. I leader di questi movimenti guerriglieri, per lo più, non erano affatto contadini indios, come vorrebbe far credere l’autobiografia della Menchú, ma ispanici di città, cioè principalmente gli eredi disillusi dei ceti medi e superiori. Si trattava per lo più, come ha fatto notare ancora Horowitz, di diplomati presso i centri di addestramento dei quadri a Mosca e all’Avana, e presso i campi di addestramento dei terroristi del Libano e della Germania Est. Tra i leader dei guerriglieri salvadoregni figurava addirittura un musulmano sciita comunista libanese di nome Shafik Handal.
    Forse, il risvolto peggiore della “vicenda Menchú” non è neppure tanto la sua solidarietà alla politica castrista, peraltro fallimentare, di appoggio ai movimenti guerriglieri del Centro America, quanto il fatto che la sua mendace autobiografia ha rappresentato, e continua incredibilmente a rappresentare anche dopo il suo smascheramento, un formidabile supporto a quella parte dell’intellighentsia occidentale che distilla i dogmi del “politicamente corretto”, o addirittura seguita a cullarsi in antichi sogni di palingenesi marxista, e, soprattutto, deve le proprie fortune accademiche e editoriali, il proprio stipendio, la propria stessa esistenza, a un’opera di sistematica, capillare, professionale disseminazione di odio verso quell’Occidente al quale pure deve tutto. “Il clamore suscitato dal libro-verità di Stoll – ha scritto Alessandra Nucci su “Tempi” – è dovuto soprattutto al fatto che la Menchú si è imposta non come un mito del marxismo, solidale con la guerriglia castrista, ma come testa di ponte della multiculturalità, messa a fianco di Aristotele, Dante e Shakespeare a rendere politicamente corretti gli esami di ‘Civiltà occidentale’. Questo è il paradigma irrinunciabile che unisce post-marxisti, ambientalisti, e, in modo quasi-ossimorico, anti-globalizzatori, tutto il popolo composito dei contestatori itineranti legati al nome di Seattle. Non a caso essi temono l’omologazione delle multinazionali, del Wto e del Fondo monetario, ma invocano di fatto quella delle Nazioni Unite. La multicultura, che rivendica il rispetto per il diverso, in realtà è cultura unica e obbligatoria, livella e relativizza gli usi e le idee di centinaia di milioni di persone e le mette sullo stesso piano degli usi e delle idee di ogni ‘minoranza’. Il suo principio ‘non’ dichiarato ma implicito e ferreo è l’esaltazione incondizionata di tutto ciò che di occidentale non è” . La Menchú, è stato detto, ha ingannato innanzitutto gli strenui difensori del terzomondismo della commissione per i premi Nobel, così come i suoi sostenitori a Stanford, ognuno dei quali non attendeva altro che una favoletta di questo tipo per dare legittimità alle proprie fantasie.

  2. #2
    Hanno assassinato Calipari
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    Anche Ari6 ha il vizio di non riportare tutto, ma solo la visione Stoll...ta...


    ---

    http://www.politicaonline.net/forum/...761#post466761

    ---

    Credi di essere furbo...

    Il libro non e' un "clamoroso falso", Stoll si appende a due o tre dubbi per costruire un intero libro di paranoia comunista, dove ignora totalmente i massacri in Guatemala.

    Il suo lavoro non ha credito, se non nelle Tv spazzatura Usa, dove si riporta solo la sua tesi, senza confrontarla con il resto.

    Nota: se leggete Giorgio Bianco e lo confrontate con il materiale postato dal link sopra, vedrete come questa persona ha scopiazzato l'articolo da pezzi presi in Internet, un po' come fanno i giornalisti per l'Iraq, bevendo tutte le falsita' dei comandi "alleati" e riportandole pari pari.

    Mi chiedo come uno possa nascondere la sua paranoia anticomunista dietro il termine "libertario".

  3. #3
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    Tanto per cominciare, tu che non hai remore a definire i lavori altrui "privi di credito" o "scopiazzature", ti sei almeno dato la pena di leggere il libro di Stoll, che liquidi con tanta disinvoltura?
    Sei pregato di rispondere in modo netto e senza giri di parole, con un "sì" o con un "no". Nel frattempo, concedimi di nutrire fieri dubbi: diversamente, ti saresti reso conto che il suo saggio, frutto di una permanenza in Guatemala durata 10 anni, è basato su ben altro che "due o tre dubbi". Si può non condividere una virgola di quello che dice (ma ci vogliono le prove per dimostrare che dice il falso), ma nessuno che abbia letto il libro di Stoll può negare che è una confutazione continua, puntuale, sostanziale di quanto raccontato dalla Menchù.
    Il dubbio, peraltro, si acuisce quando scrivi che il libro "ignora totalmente i massacri in Guatemala" affermazione che chiunque lo abbia letto può smentire come assolutamente falsa.

    Non so da dove tu tragga la notizia che il suo lavoro "non ha credito, se non nelle Tv spazzatura Usa", in ogni caso quest'affermazione può essere frutto soltanto di malafede o di cattiva conoscenza dei fatti, visto che "Rigoberta Menchù and all the Poor Guatemalans" ha suscitato un vero caso mondiale, e i risultati delle sue ricerche sono stati confermati non solo dal "New York Times" (che come è detto nell'articolo ha mandato un suo reporter sul luogo a verificare quanto affermato), ma, tanto per fare qualche esempio, da "El Paìs" di Madrid (con un articolo intitolato "Le pietose bugie di Rigoberta Menchù", di Octavio Martì) e da giornali guatemaltechi come "Siglo XXI" e "El peròdico de Guatemala". Tutti paranoici anticomunisti?

    Quanto all'articolo di Bianco, se ti dessi la pena di leggerlo nella versione apparsa su Enclave, cioè con le note, ti accorgeresti di come la tua affermazione secondo cui "questa persona ha scopiazzato l'articolo da pezzi presi in Internet" sia soltanto l'ennesima mistificazione, o forse soltanto un patetico tentativo di liquidare ciò che non fa comodo gettandovi sopra discredito gratuito; tutte le citazioni, infatti, sono tratte, oltre che dal libro di Stoll, da articoli di giornale e da altri libri.

    Ma soprattutto: tolti gli insulti gratuiti del tuo post, che cosa rimane? Su quali basi ti senti autorizzato a sostenere che Stoll ha detto il falso e che il molto più modesto Bianco "beve tutte le falsita' dei comandi 'alleati'"?
    Il libro del sociologo inglese è nutrito di dati e di fatti dalla prima all'ultima pagina: il discredito che tu cerchi di gettarci sopra non poggia su un argomento che sia uno.
    Se il libro della Menchù non è un clamoroso falso, come si spiega il fatto che la Menchù, non certo avara di parole, non ha nemmeno tentato di smentire quanto scritto da Stoll?
    Come si spiega che persino la stampa italiana sia stata costretta a prendere atto delle falsità del personaggio, sia pure affermando subito dopo che la sua carica di ambasciatore Onu va secondo loro mantenuta ugualmente, perché in questa veste la Menchù "fa del bene", che peraltro non è stato meglio precisato?
    Anziché liquidare Stoll come autore da "TV spazzatura", come fai mentendo spudoratamente, e Bianco, di cui non sai nulla, come "scopiazzatore", perché non metti sul piatto qualche argomento, così che la discussione inizi a poggiare su un terreno più sodo e non su aria fritta?

    Ancora: se il volume di Stoll è frutto di quella che chiami "paranoia anticomunista", non è strano che provenga proprio da un intellettuale inglese che era e continua ad essere di sinistra? E soprattutto, se è così, come si spiega il fatto che a prendere le distanze dalla Menchù sia stata la sua stessa biografa, Elizabeth Burgos, che come è ricordato anche nell'articolo di Bianco è esponente di punta dell'intelligentsia parigina di sinistra, nonché ex moglie del celebre intellettuale marxista Régis Debray? La rottura ebbe inizio - ma è tutto scritto nell'articolo - dal rifiuto della Menchù di apogiare la causa degli indiani Miskitos, ma ben presto la Burgos ebbe conferma, da fonti guatemalteche, del fatto che la Menchù le aveva raccontato ua marea di menzogne. Anche la Burgos-Debray è un'anticomunista paranoica?
    Per inciso, queste notizie si trovano in un volume che non offre affatto quella che tu chiami la "visione Stoll...ta" della questione (evidentemente, non ti passa per la testa che Ari6, come Bianco, abbiano i loro motivi per considerare questa interpretazione come la più verosimile, così come tu ritieni invece del tutto fondato il racconto della Menchù), ma che ricostruisce il fitto dibattito suscitato dal libro di Stoll (altro che TV spazzatura!), riportando articoli che esprimono visioni differenti e anche antitetiche: "The Rigoberta Menchù Controversy", a cura di Antonio Arias, ed. Minnesota.

    Ultima nota: ti chiedi "come uno possa nascondere la sua paranoia anticomunista dietro il termine 'libertario'". La questione è abbastanza semplice: "paranoia" è un termine che indica una paura patologica di un pericolo inesistente o non tale da giustificare questa reazione. Il danno che personaggi come la Menchù sono in grado di fare, non solo politicamente (l'appoggio della Menchù alla strategia castrista) ma soprattutto culturalmente sono enormi, e ben li ha sintetizzati Ari6 richiamando il termine "terzomondismo".
    Infine, non c'è proprio bisogno di ricorrere al termine "libertario" per "mascherare" il proprio anticomunismo. Non tutti gli anticomunisti sono libertari, ma non si è libertari se non si coltiva un sano, doveroso e intransigente anticomunismo.

  4. #4
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    Poco da aggiungere.
    Mi limito a precisare che le note di cui parla Redbuster (che sono una settantina, non due o tre) non le ho potute postare perchè avrei dovuto aggiungere a mano i richiami sul testo.
    In ogni caso le documentazioni del libro di Stoll sembrano molto precise. Senz'altro lo sono molto di più di quelle della Menchu, che infatti gode oggi di molto meno credito presso l'opinione pubblica internazionale.
    Certo, restano i difensori d'ufficio, ma sono i soliti che negano le stragi del comunismo. Credibilità zero.

  5. #5
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    Talking Tagliamo la testa al "topo"...

    Prima che stò Stoll terminasse la sua fatica, mi ero già accorto di tutto quando sentii questa chiattona educata dalle suore elogiata da gianni minà(il topo).

    Secondo il "lemma di lefty" "qualsiasi cosa piaccia a minà è sbagliato" punto.

  6. #6
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    ...O anche: " Qualsiasi cosa sia compassione terzomondista e', a priori, una cagata mostruosa di nerchia, oltre che un pezzo di disonesta' e diarrea, come sempre" .Vorrei aggiungere una piccola considerazione: Ma....vi siete accorti che si chiama .....RIGOBERTA... O NO?

  7. #7
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    Originally posted by Muhaddip
    ...O anche: " Qualsiasi cosa sia compassione terzomondista e', a priori, una cagata mostruosa di nerchia, oltre che un pezzo di disonesta' e diarrea, come sempre" .Vorrei aggiungere una piccola considerazione: Ma....vi siete accorti che si chiama .....RIGOBERTA... O NO?
    Nient'affato, i problemi del terzo mondo sono una cosa serissima.

    Proprio perchè si ha paura delle giuste rivendicazioni del trezo mondo, si costruiscono falsità come la menchù o il "subcomandante"(chissà che cazzo vor dì) marcos.

  8. #8
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    Si. In termini pratici,pero'...QUASI sempre: Stravolgimenti sinistro-politicizzati della realta' e palle mostruose.(..............RIGOBERTA!!!!!!)

  9. #9
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    2 esempi cosi',a caso, in un secondo? Te' li chi' : 1) L' "Apartheid sudafricano".....( MAI esistito!) 2) Lo "sfruttamento" del lavoro , da parte di europei ed americani, dei paesi del "terzomondo". Con numeri e " fatti", che sfruttano la totale ignoranza della gente,tipo: "Vengono pagati un quarto di dollaro all'ora" (In paesi dove l'affitto ed il mangiare costano circa 1/65 esimo che in America o Europa!) e , comunque, "sfruttamento"di adulti e bambini che non aspettano altro! A braccia aperte! E che, nella semplice realta' contingente,sarebbero SENZA lavoro se non fosse per lo "sfruttamento", dei paesi occidentali , che comunque gli stanno dando una possibilita' di sostentamento e sopravvivenza, nell'immediato,ed anche di SVILUPPO, nel futuro!

  10. #10
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    Penso che il post qui sopra chiarisca perfettamente il mio concetto di "paranoia anticumunista", cioè negare le condizioni della maggioranza del mondo.

    Lasciamo stare, va

    redbuster (bel nick ) porta degli spunti interessanti, ma alla fine il castello crolla perchè le fonti, sono sempre le stesse. Fonti Guatemalteche.

    Se un giornalista sta 10 anni in guatemala senza essere ammazzato, significa che se ne è rimasto ben distante dalla questione genocidio.

    Per quanto riguarda la Menchù, quando una persona ha una dignità, non risponde a delle accuse diffamatorie, quella persona ha visto di peggio nella sua vita, di chi crede di fare un buon servizio lavorando per il governo del guatemala. Qualcuno dice che anche Blair è di sinistra, la cosa non mi sfiora minimamente...

    Il libro di Stoll è disponibile via Internet, se non lo sapete. E non lo sapete perchè non avete letto ciò che riporto nel link sopra, dov'è linkato.

    Restate pure a discutere tra voi, a parlare di terzomondismo. Ciò non impedirà a nessuno di portare avanti con forza le proprie batteglie contro lo sfruttamento.

    La questione somiglia molto a quella Israeliana, dove lo stesso fatto è letto in due modi talmente opposti, da impedire qualsiasi possibilità di riconciliazione.

    Perchè piace Israele ai padroni? Perchè può massacrare imbellamente i Palestinesi e ricevere riconoscimento internazionale come altri stati più pacifici, l'applauso degli antiterzomondisti, quelli dei club per soli uomini, per intenderci.

    Pasquino: sub comndante significa che non è lui il comandante, ma il popolo del Chiapas. Ovviamente non conosci nulla di quella realtà e sarai sempre ben disposto ad abbracciare gli articoli che ne parleranno male.

    Però quando Aznar e il governo spagnolo intervengono nella questione del Chiapas in maniera "pesante" (eufemismo per dire assassina) ignorate, la cosa scivola via, per giustificare un omicidio a voi basta dire che era un comunista. Oppure, versione Israeliana, un terrorista.

 

 
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