I ragazzi italiani non sono come certi furbi commentatori che se la solitudine anglo-americana diventa difficoltà a vincere una guerra, dalle loro comode poltrone di avvocaticci da 8 settembre e professionisti del và dove ti porta il vento, sono subito tentati di spiegare che l’avevano detto loro che non basta la potenza militare, che Saddam ha due palle così (anzi, è quasi un eroe) e che gli sta bene agli arroganti nord-atlantici prendersi un po’ di fuoco nemico e pure amico (vero corrispondente del nostro stivale, Capranica di Rai 1 e 2, che dall’Egitto in cui ti maceravi di rimborsi spese e suk non ti par vero trovarti a villeggiare a Londra, da dove sottolinei con ironia saddamita che i primi dieci ragazzi inglesi tornati in una bara dall’Irak, «non sono neanche morti al fronte»?). I ragazzi italiani non desiderano mettere insieme pace e pensione, logo Cgil e (no-logo?) del Che, arcobaleno per denunciare l’orrore e quello per scioperare contro il perfido Berlusca-Albione, tirnando fin che si può la copertina del vessillo multicolore, sperando che poi duri per tutta la campagna elettorale. No, i ragazzi italiani vorrebbero indossare magliette con l’union jack ed esporre ai balconi le bandiere a stelle strisce. I ragazzi italiani si sentono istintivamente figli, nel bene e nel male, di questo Occidente che non può fare il tifo per il dittatore Saddam, le tempeste di sabbia, la jhad islamica, i kamikaze. I ragazzi italiani però non possono dire e fare queste cose, se non bigiando in larga maggioranza le mobilitazioni ipermediatizzate di questi giorni. Non posso dirle e farle perché avrebbero addosso tutta la violenza conformista. La stessa che, conformisticamente, si ripete ciclicamente dal ‘68 ad oggi, passando dalle magliette con la faccia di Di Pietro e gli slogan di quelli che han sempre le “Mani pulite” («ma non hanno mani» direbbe Peguy). Ci fa orrore questa guerra “cretina”, come la chiama anche il falco Edward Luttwak (leggere qui a pag. 8), ma non ci fa orrore e, anzi, lo onoriamo, il ragazzo americano e inglese in divisa al fronte, andato a una guerra sbagliata, sì, ma anche “in mio nome”. è un’ingiustizia che si debba morire così, soldati e civili, americani e irakeni, un’ingiustizia di cui, come ha detto il Papa, chi l’ha voluta ne risponderà davanti a un tribunale che non è il nostro. Ma il pacifismo vestito con kefiah e scialli sioux che va in piazza fasciandosi di antiamericanismo, ci ripugna. Ci ripugnava ieri quando gridava in piazza “meglio rossi, che morti”, ci ripugna oggi perché è la continuazione della guerra con altri mezzi (più o meno comodi, più o meno aggressivi, ma pur sempre con tanti applausi dalle nazionali cantanti, top model, attori, registi e soubrette). Allo sciovinismo che produce euforia e al pacifismo che produce la sicurezza della massa totalitaria, noi preferiamo il mestiere delle armi. E, si intende, le armi dell’educazione. Cioè quella di una compagnia umana che, almeno come tentativo, guida l’uscita dall’istintività reattiva adolescenziale per conquistare la decisione per l’esistenza, le ragioni della vita, la responsabilità per il mondo comune. Ma, educazione a che? «La passione più profonda dell’uomo è il suo desiderio di trovare un significato» ha scritto addirittura Marshall Mc Luhan, il teorico del “villaggio globale” inaugurato dalla Tv e dalla trasmissione delle informazioni alla velocità delle luce, “causa formale” di quella spettacolarizzazione della guerra che conduce a ridurre il “bisogno di pace” a una reazione da burattini. Senza significato non c’è tempo (o c’è “il tempo delle mele”), mentre il tempo della pace è quello dell’uomo che sa bene dove andare. Cioè dell’ideale che, nel presente, si incarna nella vita ordinaria della persona qualunque e, come un tempo accadde agli uomini di un’epoca spazzata sì dalla barbarie, ma che si imbatterono e aderirono all’ideale reso opere da persone come san Benedetto (il cristiano che salvò dalla distruzione il mondo pagano e che piantò le radici di quella libertà che noi oggi chiamiamo “Occidente”), costruisce luoghi di fraternità e di umanità nuova.