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  1. #1
    l'Edera del Cugino è sempre...
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    Le praterie del dubbio - Una delle poche cose, anzi forse la sola ch'io sapessi di certo era questa: che mi chiamavo Mattia Pascal E me ne approfittavo. Ogni qual volta qualcuno de' miei amici o conoscenti dimostrava d'aver perduto il senno
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    Predefinito Forse a qualcuno è sfuggito...

    Da "La Stampa"... notorio giornale filosovietico... ed inserto quotidiano dell'Unità...


    IL CAVALIERE AL CONVEGNO DELLA CONFINDUSTRIA DI TORINO
    «Sulle imprese Costituzione d’ispirazione sovietica»
    «Basta leggersi l’articolo 41, me ne sono già lamentato più volte Cambiamo le regole, anche nel Parlamento. Non vedo nessuno scandalo nei parlamentari ”pianisti”: ratificano decisioni già prese»

    13/4/2003

    TORINO

    Riforme, riforme e ancora riforme. E’ l’impegno che Silvio Berlusconi prende davanti alla platea del convegno Confindustria di Torino, sia in campo economico sia sul terreno istituzionale. Ma ci sono troppi «vincoli», aggiunge il premier, che rallentano l’azione del governo. Aprendo il suo intervento del Lingotto - poi trasformato in una tavola rotonda con i grandi nomi dell’economia italiana, da Umberto Agnelli a D’Amato, da Tronchetti Provera a Rainer Masera e Andrea Pininfarina - Berlusconi aveva annunciato di non voler dedicare alcuna battuta all’opposizione e al teatrino della politica. In realtà, con passaggi più volte sottolineati da applausi di consenso, il Cavaliere “non si è tenuto”, gettando qua e là i suoi «sfoghi» da imprenditore sulla «fatica di Sisifo» che gli costa governare con la sola arma della «moral suasion», alle prese con una pubblica amministrazione vecchia e da riformare in uno Stato «pletorico e inefficiente». Ma sono due battute «a rischio» (Berlusconi lo sa e parla di «passatisti della democrazia che grideranno allo scandalo») ad aver fatto più rumore nel mondo politico. La difesa dei «pianisti» - i deputati che votano per i colleghi assenti sulle loro tastiere elettroniche - e l’attacco alla Costituzione che «risente della cultura sovietica» negli articoli dedicati all’impresa. L’assist al premier su questo secondo argomento viene dal presidente della Piccola Impresa di Confindustria, Francesco Bellotti, che lamenta la mancanza di «cultura d’impresa» nelle scuole. «Musica per le mie orecchie», replica il presidente del Consiglio, che aggiunge, a conforto di un ambiente educativo ancora ostile agli industriali: «Mi sono più volte pubblicamente lamentato del fatto che la nostra legge fondamentale dà poco spazio alle imprese». E aggiunge che «la formulazione dell’articolo 41 e seguenti risente delle implicazioni che fanno riferimento alla cultura e alla Costituzione sovietica da parte dei padri che hanno scritto la nostra Carta». Il premier sa che la Prima Parte della Costituzione è considerata un patrimonio difficilmente emendabile, e quindi si è ampiamente dedicato alla Seconda Parte, quella con l’ordinamento della Repubblica. Prima di tutto, rivendicando il merito di aver rimediato «agli errori della sinistra» sul federalismo approvato la scorsa legislatura, con una nuova riforma nello stile dei «Cantoni Svizzeri», che permetterà ai cittadini di «tirare per la giacca più facilmente» i responsabili di qualche servizio non all’altezza. Poi ha collegato a questo la necessità di chiudere con il bicameralismo imperfetto, lamentando di sentirsi un «primus inter pares» a Palazzo Chigi con il «solo potere di essere paziente». Discende da questo rammarico la lunga filippica contro i vizi del parlamentarismo (non nuova per il Cavaliere), dove «si vota per disciplina di partito», con «inutili interventi ripetitivi cui nessuno dà ascolto». Allo stesso modo, al Cavaliere appare spropositato il lungo iter di un decreto legge del governo, che prima di trasformarsi in norma cogente deve passare attraverso mille passaggi. Quasi quasi, sogna Berlusconi, sarebbe meglio che votassero i capigruppo per tutti - lasciando spazio agli eventuali dissidenti - con modifiche radicali ai regolamenti parlamentari per rendere più spedita l’azione del governo. Il premier si assolve e - senza contestazioni da un parterre che nei giorni scorsi non pareva molto tenero verso il governo - aggiunge: «Credo sinceramente che non si potesse fare di più. Nei prossimi tre anni proseguiremo su questa strada». Poi, pensando alle elezioni del 2006: «E forse non basteranno».

    g. pa.


    IL SENATORE A VITA CHE FU MEMBRO DELLA COSTITUENTE CONTESTA L’ANALISI DI BERLUSCONI
    «Non è vero, l’argine era ben saldo»

    13/4/2003

    ROMA NELLA nostra Costituzione non c’è traccia di collettivismo o ostilità verso le imprese, né di di cedimenti alla cultura sovietica. Basta rileggere la relazione introduttiva di Giorgio La Pira all’Assemblea Costituente: sull’umanesimo di San Tommaso e Maritain si fonda la libertà della persona, dell’organizzazione sociale e quindi anche dell’economia». All’origine della carta fondamentale, assicura il senatore a vita Emilio Colombo (membro della Costituente, ex presidente del Consiglio e del Parlamento Europeo), «non figura l’intenzione di togliere spazio alle aziende private, tanto meno la volontà politica di avvilupparle in soffocanti vincoli burocratici».

    Senatore Colombo, non è d’accordo con Berlusconi?

    «No. L’iniziativa privata è tutelata adeguatamente dall’articolo 41 della Costituzione. E’ la storia dell’ultimo mezzo secolo a dimostrarlo. L’assemblea costituente non risentì di diktat collettivisti delle sinistre, anzi in apertura dei lavori Togliatti intervenne, subito dopo La Pira, per condividerne l’impostazione solidaristica pur criticando alcuni punti. Non so quali ambiguità celasse l’opzione di Togliatti per la solidarietà sociale, in ogni modo si giunse a riequilibrare il libero mercato con la difesa dei lavoratori e il riconoscimento dei sindacati. E’ da questa dialettica che scaturì l’economia sociale di mercato. I comunisti, a partire dalla svolta di Salerno, avevano dato forti prove di disponibilità al dialogo. Per cercare consensi accettarono persino la monarchia. Nulla turbò quell’atmosfera, neppure gli scontri durissimi con De Gasperi e le piazze in tumulto per l’esclusione dei comunisti dal governo. In quel crogiuolo fu determinante l’accordo sulla solidarietà. Dall’enciclica «Rerum Novarum» di Leone XIII in poi era filtrata, infatti, nella coscienza degli italiani la convinzione che la logica degli affari non potesse svolgersi in maniera selvaggia e fuori da ogni bilanciamento. Così all’Assemblea passò la linea di un libero mercato non fondato sull’individualismo. La lotta al nazifascismo aveva rafforzato un patrimonio condiviso di idee e valori. I concetti di utilità sociale, sicurezza, libertà, dignità umana si facevano largo trasversalmente».

    Come si arrivò al compresso?

    «Non fu difficile. Ad essere minoritaria era piuttosto la visione liberista che non tiene conto della difesa dei lavoratori e della funzione sociale della proprietà. Comunque, alla Costituente mi sono occupato assieme a Segni e Taviani di temi economici e posso garantire che gli argini alla cultura sovietica non sono mai stati a rischio. Non è mai stato in discussione il soffocamento della libertà delle imprese. Piuttosto sono stati gli imprenditori, spesso, a chiedere al palazzo un ruolo di coordinamento. E non era solo la Dc ad avere un orientamento «statalista». Il repubblicano La Malfa, in genere definito un liberista, ottenne dal presidente del Consiglio Aldo Moro 300 miliardi dell’epoca per il salvataggio di un’azienda lombarda. E prima della Dc, lo Stato si faceva carico delle aziende in crisi per salvare la ricchezza nazionale: da Giolitti e Banca Romana all’Iri e Beneduce».

    Ritiene che sulla Carta fondamentale sia più forte l’impronta degli «statalisti» o quella dei liberisti?

    «Non ha senso porre la questione in questi termini. E’ stata la Dc a nazionalizzare servizi come l’energia elettrica per salvaguardare l’economia italiana. Sì è vero, l’iniziativa privata è stata concepita come libera, però, con una precisazione: va svolta in maniera da non arrecare danni alla dignità umana. Ne deriva il riconoscimento dei sindacati che tanto preoccupava gli americani. Furono le teorie sociali di noi cattolici a creare aggregazione. A meno che oggi non si voglia definire sovietico l’intervento correttivo dello Stato, dimenticando che a porre le basi del boom economico degli anni 60 e della conquista dei mercati europei è stata la legge sui tassi agevolati alla piccola e media impresa».

  2. #2
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    Predefinito "La Costituzione; una storia repubblicana".

    "La Costituzione; una storia repubblicana".

    Cari amici, è per me un grande piacere partecipare a questa serata, perché in un momento in cui, come diceva Cicerone, ci si vergogna perfino di vivere, ritornare con la mente alla tensione ed all’atmosfera della costruzione della Costituzione ed all’inizio della vita repubblicana, è come dare una goccia d’acqua ad un deserto.

    E’ un po’ come ripercorrere un itinerario spirituale che ci aiuta a vivere, che ci permette di continuare in questo confronto estenuante, continuo, che noi repubblicani, sparsi ahimè a destra ed a manca, giorno per giorno siamo costretti a fare, con la forza della nostra coscienza, con l’educazione che abbiamo ricevuto, con il tipo di vita pubblica che vorremmo, che è molto diversa dall’attuale e nella quale fatichiamo a riconoscerci.

    Questo logoramento continuo che tutti noi sentiamo, in un Paese dove tutti sembrano impegnati nel gioco collettivo e perverso di non chiamare le cose con il loro vero nome ma di camuffarle nelle forme più strane, viene alleviato da certe pause di sollievo, e questa di oggi è, appunto, una pausa di sollievo e di ristoro.

    Perché parlare della storia del processo di costruzione e redazione della Costituzione, cioè della carta dei Diritti fondamentali della Repubblica Italiana, significa parlare della storia di un pensiero, quello repubblicano, che lega con un filo di continuità l’esperienza della Costituzione della Repubblica Romana del 1849 a quella del 1947.

    Per meglio argomentare tale affermazione conviene cominciare tale percorso un po’ dalla fine, e cioè da quando Meuccio Ruini, presidente della Commissione dei 75 che aveva redatto il testo della Costituzione della Repubblica, nell’illustrare il progetto dell’Assemblea Costituente, disse, tra l’altro:
    “Formulare oggi una Costituzione è compito assai grave. Dopo le meteore di quelle improvvisate nella scia della Rivoluzione francese e delle altre del Risorgimento, concesse dai sovrani – tranne una sola luminosa eccezione, la Costituzione Romana di Mazzini, alla quale noi ci vogliamo idealmente ricongiungere – è la prima volta, nella sua storia, che tutto il popolo italiano, riunito a Stato nazionale, si dà direttamente e democraticamente la propria Costituzione”. ]
    Per completezza storica Ruini avrebbe potuto aggiungere che l’Assemblea Costituente rappresentava anche – insieme con il suffragio universale – una promessa fatta e mai mantenuta dalla monarchia sabauda.

    Infatti, durante la prima guerra d’indipendenza, all’indomani della temporanea liberazione della Lombardia, il Parlamento di Torino aveva votato la Legge 11 Luglio 1848, in cui si diceva: “L’immediata unione della Lombardia e delle Province di Padova, Vicenza, Treviso e Rovigo, quale fu votata da quelle popolazioni, è accettata. La Lombardia e le dette province formano con gli Stati Sardi e con gli altri già uniti un solo regno.
    Col mezzo del suffragio universale sarà convocata una comune Assemblea Costituente, la quale discuta e stabilisca le basi e forme di una nuova monarchia costituzionale con la dinastia dei Savoia, in conformità del voto emesso dal popolo lombardo, in virtù della Legge 12 Maggio 1848 del governo provvisorio di Lombardia”.

    Nulla di fatto – come ci dice la storia – nonostante il duplice vincolo del mantenimento della dinastia dei Savoia e della monarchia.

    Questa, comunque, è - per così dire – la principale carta d’identità della Repubblica Romana.
    Il fatto che dalla sua esperienza emerse l’unica Costituzione dell’Italia pre-unitaria non concessa da un principe, ma votata da un’Assemblea eletta a suffragio universale.
    I costituenti dell’Italia repubblicana furono ben consapevoli di questo filo di continuità che legava la Repubblica nata dal referendum popolare del 2 Giugno 1946 alla più significativa esperienza istituzionale del Risorgimento, tanto è vero che ne rivendicarono concretamente e giustamente l’eredità.

    Risulta in modo evidente non soltanto dalle parole di Ruini, ma anche da altre circostanze.

    Non è solo obbedire alla ricerca di una curiosità ricordare e rilevare che all’Assemblea Costituente, tra i nomi dei personaggi italiani dell’Ottocento, quello di Mazzini fu il più citato. Ricorre infatti nei volumi dei lavori preparatori ben 99 volte, seguito da quello di Cavour al quale andarono 88 citazioni.

    Anche quello dei costituenti non si può considerare un puro ossequio formale.
    Se rileggiamo la Costituzione del 1849 vediamo in essa, infatti, molti punti di contatto con quella adottata un secolo dopo.
    Nelle ispirazioni di fondo, nei contenuti, in alcune decisioni particolarmente coraggiose, come quella di abolire la pena di morte in un contesto europeo in cui la pena di morte era strumento di governo.
    Nella affermazione, contenuta nell’art. 7 dei Principi fondamentali, – che qualcuno ha definito “tacitiana” – della libertà religiosa e di coscienza: “Dalla credenza religiosa non dipende l’esercizio dei diritti civili e politici”.
    In quella, altrettanto concisa e significativa, che troviamo nel “Decreto Fondamentale” della Repubblica, che costituisce parte integrante della Costituzione: “La forma del governo dello Stato sarà la democrazia pura ….”.
    Nel linguaggio politico ci siamo abituati a sentire parlare di “democrazia popolare” e, su tutt’altro versante, di “democrazia protetta”, o con molte altre aggettivazioni.
    E’ invece concetto profondamente moderno ed attuale quello secondo cui la democrazia non tollera aggettivi, se non quello, appunto, di “pura”, cioè senza qualificazioni ulteriori, il più delle volte deformanti e fuorvianti.

    Ma – senza voler indulgere a tecnicismi – la Carta del 1849 ha un altro importante punto di contatto con quella di oggi.
    Mentre in genere, a cominciare dallo Statuto Albertino, le Costituzioni dell’Ottocento erano “flessibili”, vale a dire modificabili con lo strumento della legge ordinaria, quella Romana era una Costituzione “rigida”, con la previsione di un “corpus” di norme formalmente costituzionali modificabili soltanto con una particolare procedura, che oggi si definisce “procedura d’aggravamento”.

    Tuttavia non va dimenticato che Mazzini non era fautore di una Costituzione “Romana”, che gli sembrava, nelle contingenze del tempo, riduttiva rispetto all’aspirazione per una Costituzione “Italiana”, di ambito nazionale.
    Egli suggeriva, infatti, di dettare alcuni principi generali, piuttosto che di definire in modo formale un’architettura statuale.
    Potremmo dire che, per fortuna, non fu completamente ascoltato dai Costituenti che sedevano in Campidoglio e che ci hanno lasciato un documento di valore davvero incommensurabile.

    Circa un secolo dopo, gli eredi di Mazzini che partecipano alla nuova fase Costituente, si trovano di fronte un Paese profondamente diviso, socialmente fortemente disomogeneo e dotato di una cultura politica ed economica assai arretrata, eredità di ottanta anni di regime monarchico e di venti anni di regime fascista.

    Il Partito Repubblicano vedeva allora il ricongiungersi di due gruppi.
    Innanzi tutto il gruppo degli esuli che aveva vissuto l’esperienza del sistema politico svizzero, del sistema politico americano e del sistema politico francese: Egidio Reale, Randolfo Pacciardi, Cipriano Facchinetti per limitarsi ai soli nomi più noti.
    Accanto a questo gruppo stava l’altro, quello formato da uomini rimasti in Italia dove avevano assistito all’evoluzione-involuzione del sistema fascista e che avevano compiuto una profonda riflessione sulla logica della dittatura, sul tipo di società, sul tipo di sistema politico che la dittatura, non soltanto fascista, ma le dittature irrompenti in tutta l’Europa, dalla dittatura stalinista alla dittatura portoghese, alla dittatura spagnola, creavano sul piano della tipologia politica.
    Questo gruppo faceva capo a Tomaso Perassi, a Giovanni Conti, a Giulio Andrea Belloni.

    Il combinarsi di queste due esperienze, che è un momento culturale interessantissimo, così come il combinarsi dell’esperienza intera del gruppo repubblicano, con l’esperienza degli uomini del Partito d’Azione che erano poi i repubblicani usciti dal loro partito per rispondere all’appello di Rosselli ed a una visione liberal-socialista dello Stato, costituisce forse il quadro più interessante del mondo dell’Assemblea Costituente.

    L’attività svolta dal Partito Repubblicano all’interno della Costituente, cioè la storia interna dell’Assemblea Costituente, vedrà il nostro partito impegnato in quello sforzo di coordinamento dei vari indirizzi culturali e politici, delle varie filosofie sociali che portò a quello che fu chiamato poi il “Compromesso Storico della Costituente”.

    Su un solo punto il Partito Repubblicano rifiutò sempre il compromesso: l’art. 7 della Costituzione: “Lo Stato e la Chiesa cattolica sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani. I loro rapporti sono regolati dai Patti Lateranensi. Le modificazioni dei Patti, accattate dalle due parti, non richiedono procedimento di revisione costituzionale”.

    Ed a ragione, perché se si fosse comportato diversamente avrebbe negato la sua stessa storia.
    Ma su tutto il resto la piattaforma, l’unica piattaforma scritta, in fondo in fondo, era il programma, il progetto di Costituzione del Partito Repubblicano.

    Quel progetto, come la Costituzione, delinea una Repubblica di tipo parlamentare, fondata sul ruolo preminente e centrale dei partiti.
    I Repubblicani scartano l’ipotesi della Repubblica presidenziale.
    Giovanni Conti racconta come si arrivò a quella soluzione.
    Non vi era dubbio che in un paese come era l’Italia, nel quale probabilmente le cose sarebbero andate come nella Repubblica di Weimar, un presidente all’americana avrebbe inevitabilmente assunto il ruolo di para-dittatore.

    Questa è la ragione per cui il Partito Repubblicano fece la sua scelta.
    Una scelta fatta anche nella convinzione che una repubblica parlamentare assorbisse meglio le tensioni politiche che non una repubblica presidenziale (e in questo il Partito Repubblicano ebbe il conforto della migliore dottrina anglosassone).

    L’altro punto fondamentale è la Presidenza della Repubblica.
    Il Partito Repubblicano aveva lottato contro la concezione della monarchia come punto di raccordo di uno Stato di casta e di uno Stato militare.
    Non potevano rinnegare questa posizione, ma è coraggioso il progetto repubblicano; è coraggioso nel punto in cui assicura al Presidente della Repubblica, non soltanto il potere di nomina dei ministri, ma il potere di revoca.
    Questo è uno dei punti fondamentali.

    L’altro ancoraggio fondamentale è la diffidenza che accompagna tutta l’elaborazione del progetto repubblicano ed in fondo la vita del Partito Repubblicano contro le involuzioni personalistiche del potere.
    Evitando di attribuire al Presidente della Repubblica un potere libero di sciogliere il Parlamento, si rimetteva in seno alle Camere la coscienza di quello che le Camere dovevano fare e di quello che doveva fare il Governo.
    Il Partito Repubblicano pensava che nei primi due anni della formazione di un Governo, a meno che non ci fossero state due crisi nel giro di dodici mesi, il Presidente non dovesse arrivare allo scioglimento.

    C’era poi il problema dell’indipendenza dei giudici e soprattutto della Corte Costituzionale per la cui istituzione il Partito Repubblicano si impegnò con un coraggio che allora nessuno degli altri partiti ebbe – basti ricordare la definizione che Togliatti diede della Corte: “bizzarra”, è un istituto bizzarro, lo chiamò! –

    La decisione di imboccare la strada della Corte Costituzionale, di una giurisdizione costituzionale di tipo anglo-sassone, il primato dei giudici ed il primato della legge da questo punto di vista, in materia costituzionale, fu un atto di grandissimo coraggio.
    Con essa il Partito Repubblicano si mise contro tutti, e d’altra parte tutti erano contro di noi: l’alta Magistratura, la burocrazia, la buonissima parte della classe dirigente italiana, ecc.

    Poi il referendum, il referendum visto come istituzione di libertà.
    Il Partito Repubblicano contrappone all’organizzazione del Partito Leninista, il suo tipo di organizzazione, rifiutando quella che Ortega ha chiamato “la statalizzazione della vita”.
    Da questo punto di vista la matrice libertaria repubblicana, pose il Partito come il nemico del modello leninista e del suo tipo di organizzazione, verso il quale era incline anche il Partito cattolico, perché profondamente richiamato dalla sua vocazione totalitaria verso quel modello di organizzazione.

    Il Partito Repubblicano non ha mai avuto la presunzione, pur essendo il Partito che più ha fatto per portare la Repubblica in questo Paese, che la vita dei partiti politici, che i partiti politici dovessero riassumere in sé stessi e completamente rappresentare la vita degli individui.
    Abbiamo sempre creduto – e qui voglio citare una bellissima frase di Giulio Andrea Belloni – “che il privato dovesse continuare ad avere nel nostro Paese una sua completa, assolutamente intoccabile sfera, sia da parte dello Stato, sia da parte della comunità politicamente organizzata”.

    Ed ancora Belloni aggiungeva: “Un altro criterio ci conviene tenere presente in questo ordine di considerazioni per la ricostruzione del Paese: non tutta l’attività sociale deve essere demandata alla vita statale.
    La libera, spontanea, non predefinibile iniziativa delle popolazioni, le anche impreviste aggregazioni di interessi debbono avere grandissima parte naturalmente nel nuovo Stato.
    Bisogna che il legislatore non lo dimentichi un istante, quando gli incombe di dare vita ad un organismo giuridico che lasci la massima possibilità di movimento alle forze costruttive extrastatali”. (Art. 18 della Costituzione)

    Amici, questo è stato in una rapidissima sintesi, come in un disegno schizzato a carboncino, l’apporto che il Partito Repubblicano ha dato affinché anche nel nostro Paese si giungesse, alla fine, alla costituzione di una Repubblica e si affermassero quei principi e valori che sono alla base della democrazia.

    Ed è in questa storia, che ci appartiene, che dobbiamo ritrovare le motivazioni più profonde del nostro impegno politico.
    Ieri come oggi, siamo chiamati a difendere i valori della nostra Carta Costituzionale così come gli antichi cavalieri templari erano chiamati a custodire e preservare il mitico Sacro Graal dalle sortite degli infedeli.

    E per concludere vorrei citare un passo preso dal libro “Dialogo intorno alla Repubblica” di Norberto Bobbio e Maurizio Viroli, quando entrambi, ricordando le parole del compianto Guglielmo Negri, concordano che: “… i costituenti del 1946 erano diversi politicamente ed ideologicamente, ma avevano alle spalle una comune esperienza di sofferenza e di umiliazione vissuta prima sotto il fascismo poi durante la guerra.
    L’esperienza tragica che li accomunava era per loro una motivazione assai importante a cercare insieme l’assetto istituzionale che offriva le migliori garanzie per impedire che l’Italia vivesse di nuovo la tragedia che essi avevano conosciuto.
    Avevano, in altre parole, il senso di un impegno comune.
    Avevano idee diverse sul futuro ma la pensavano alla stessa maniera rispetto al passato: mai più il fascismo, mai più una monarchia.
    Oggi gli eventuali costituenti non avrebbero nessun senso di impegno comune.
    Per questo mi sembra del tutto fuori luogo parlare di una riforma costituzionale”.



    tratto dal sito www.repubblicanesimo.it

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    Torino, il premier interviene al convegno di Confindustria
    e attacca l'articolo 41 della nostra legge fondamentale
    Berlusconi: "La Costituzione
    è di ispirazione sovietica"
    Sull'invio di truppe in Iraq annuncia: "Convocheremo il Parlamento
    la prossima settimana". E poi lancia una "Maastricht del Welfare"


    TORINO - Un Silvio Berlusconi come sempre a tutto campo, quello che si presenta - tra gli applausi - sul palco torinese di Confindustria. Il premier, con una mossa a sorpresa, straccia le 26 pagine del suo discorso, e dice alla platea di voler trasformare il suo intervento in un botta e risposta con i suoi interlocutori: "Fatemi domande birichine", chiede agli imprenditori presenti (tra cui Umberto Agnelli). Ne segue un fiume di dichiarazioni sugli argomenti più vari, con alcuni passaggi destinati a fare impennare la polemica politica: come quello in cui il capo del governo definisce "di ispirazione sovetica" alcuni passaggi della nostra Costituzione.

    Un'opinione che non può certo passare inosservata. Ma il presidente del Consiglio parla anche d'altro: dall'annuncio di una "Maastricht del Welfare" nel semestre di presidenza italiana della Ue, alla difesa dei "pianisti" in Parlamento; dalla futura abolizione dell'Irap al fatto che la Camere saranno convocate già la prossima settimana per esprimersi sull'invio di truppe in Iraq.

    La Costituzione "sovietica". Ecco le precise parole di Berlusconi: "Mi sono più volte anche pubblicamente lamentato, del fatto che la nostra legge fondamentale dà alle imprese poco spazio". E ancora: "La formulazione dell'articolo 41 e seguenti risente delle implicazioni sovietiche che fanno riferimento alla cultura e alla costituzione sovietica da parte dei padri che hanno scritto la Costituzione". Lui non cita il contenuto dell'articolo 41; ma per i lettori che vogliono farsi un'idea, riportiamo il testo integrale: "L'iniziativa economica privata è libera. Non può svolgersi in contrasto con la utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana. La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l'attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali".

    La difesa dei "pianisti". Per il premier, i parlamentari che durante il voto schiacciano anche i pulsanti dei banchi dei compagni assenti non fanno nulla di male: "Ho visto che c'è stato scandalo per i cosiddetti pianisti. Non c'è nulla di scandaloso. Per quanto riguarda l'aula, il singolo gruppo vota per il numero dei componenti del suo gruppo: Se qualcuno è in disaccordo, deve essere presente, per dare il suo voto contrario".

    Lacci e lacciuoli alle riforme. Berlusconi risponde con battuta alle lamentele degli imprenditori sul ritardo delle riforme promesse: su questo tema, dice, "non abbiamo fatto un solo passo indietro. La prossima volta le difficoltà si possono superare se darete a Silvio Berlusconi e a Forza Italia il 51% dei consensi. Allora il percorso sarà più agevole". Comunque per realizzarle non basterà una legislatura, ammette. Per poi definire "una fatica di Sisifo" i passaggi necessari a trasformare una proposta in legge: "Ho solo il potere di essere paziente, la situazione attuale non mi dà potere alcuno, posso solo proporre decreti al Parlamento".

    La Maastricht del Welfare. "Nei sei mesi di presidenza europea, vogliamo arrivare a un accordo con gli altri 14 Paesi per una Maastricht del Welfare. Il problema dell'invecchiamento della popolazione è generale, tutti gli Stati stanno facendo conti per verificare gli incrementi di capacità di spesa da affrontare". In questo contesto, "l'Italia si ritrova con un sistema che non si può più mantenere così come è oggi".

    L'allargamento dell'Unione. Una "grande Europa", che dopo l'allargamento a venticinque, estenda ancora i propri confini dalla Turchia alla Moldavia, dalla Russia fino a Israele: questa l'idea del presidente del Consiglio. Che, aggiunge, nel corso del semestre di presidente farà "76 viaggi all'estero". Mentre, a proposito della crisi in Medio Oriente, Berlusconi ribadisce che l'Italia vuole ospitare i colloqui iraelo-palestinesi.


    La guerra in Iraq. Il premier annuncia: "In settimana chiederemo al Parlamento il via libera per le forze di sicurezza" italiane da inviare nel paese del Golfo persico. Poi ribadisce la legittimità dell'intervento angloamericano.

  4. #4
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    Dopo le dichiarazioni del premier a Torino
    sul carattere "sovietico" della Carta fondamentale
    L'Ulivo accusa Berlusconi
    "Offende la Costituzione"
    Violante: "Ha una concezione violenta della politica"
    Sartori: "Solo un altro modo per difendere Mediaset"


    ROMA - "Ma cosa vuole che dica? È una sciocchezza. E' solo un altro modo per difendere Mediaset, la sua proprietà". Giovanni Sartori è lapidario: l'uscita di Silvio Berlusconi sulla Costituzione ispirata a quella sovietica non merita molto più di una battuta. Per il politologo quell'insistere sull'articolo 41, quello che prevede e regola l'iniziativa economica privata, e i seguenti, altro non è che un tassello della strategia complessiva, qualcosa che sta tutta dentro il conflitto di interesse del Cavaliere.

    Ma il professore guarda alla vicenda da New York e con il distacco dello studioso. Vista da Roma la cosa preoccupa, e molto, il centrosinistra. Il capogruppo ds alla Camera Luciano Violante dice che nella maggioranza ci sono tre forze, - An, Forza Italia e Lega, - che sono fuori dalla storia costituzionale del Paese e non hanno proprio idea di quali siano i valori che la Costituzione rappresenta per tutti gli italiani".

    Un'estraneità, continua il presidente dei deputati diessini, che sta dietro "questi strafalcioni gravissimi". Di suo Berlusconi, conclude Violante, ci mette "una concezione violenta e oppressiva della politica" e "una concezione violenta e selvaggia del bipolarismo" che lo porta ad offendere la Costituzione e le opposizione. E lo induce a "premiare la frode, a dire che i "pianisti" vanno bene".

    La preoccupazione per la sortita del premier emerge anche a Borgo San Lorenzo, durante l'incontro di Piero Fassino e Sergio Cofferati con i militanti del Mugello. È l'ex leader della Cgil che prende di petto il problema è dice ai militanti: "E' nostro compito difendere la Costituzione italiana dai ripetuti attacchi della destra".

    Cofferati non fa solo un'enunciazione di principio, scende nel concreto. Spiega che "siamo di fronte ad un continuo svuotamento di articoli importanti della nostra Costituzione che vanno dalla scuola alla giustizia". Un allarme basato sulle scelte concrete del governo. E sui precedenti. Non è infatti la prima volta che Berlusconi parte lancia in resta contro l'impianto economico, e non, della Costituzione del 1948. Usando sempre lo stesso argomento: la Carta si ispira al modello sovietico. E sempre con un occhio ai suoi interessi concreti.

    Nel settembre del 1997, per esempio, in piena Bicamerale e durante il duro confronto sulla sussidarietà, difese l'idea di privatizzare i servizi pubblici in nome di "una concezione liberaldemocratica che è assente dalla Costituzione attuale, scritta sul modello della Costituzione sovietica del 1936". Il Cavaliere tornò sull'argomento nell'ottobre dicendo che bisogna varare una Costituente per mettere mano anche alla prima parte della Carta. Perché i diritti di difesa e di libertà degli italiani "sono inferiori a quelli dei nostri concittadini europei perché frutto di mun compromesso come fu la Costituzione del 1948, che come sappiamo ebbe a modello la Costituzione sovietica".

    Processi e diritto di proprietà, dunque. Capitoli del libro del conflitto di interessi. E in effetti lo scontro fra maggioranza e opposizione sul conflitto di interessi, e sulla legge che continua a giacere alla Camera, ruota anche sull'interpretazione degli articolo 41 e 42 della Costituzione. Soprattutto in quelle parti in cui si dice che la "proprietà privata è garantita". L'argomento è però usato dalla Cdl per gridare contro "l'esproprio": ovvero l'obbligo di vendita dei beni per il presidente del Consiglio come soluzione al conflitto di interessi.

    (14 aprile 2003)

  5. #5
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    i due articoli sopra riportati sono tratti dal quotidiano la Repubblica

  6. #6
    l'Edera del Cugino è sempre...
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    Le praterie del dubbio - Una delle poche cose, anzi forse la sola ch'io sapessi di certo era questa: che mi chiamavo Mattia Pascal E me ne approfittavo. Ogni qual volta qualcuno de' miei amici o conoscenti dimostrava d'aver perduto il senno
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    Predefinito Non cominciò così?

    Con l'accusa a quest'aula sorda e grigia?

    Fu abbastanza agevole, sul piano giuridico, per il regime fascista introdurre una serie di leggi liberticide le quali, instaurando in Italia la dittatura, ben presto travolsero i contenuti più liberali dello Statuto Albertino, che pure formalmente continuò a rimanere in vigore. Dalla legalizzazione delle squadre armate fasciste alle nuove leggi elettorali, elaborate su misura per dare al Partito Nazionale Fascista il pieno controllo del Parlamento; dalla istituzione del Tribunale Speciale per la difesa dello Stato, composto da giudici legati al regime, al perseguimento penale del dissenso politico e all'introduzione della censura; dal divieto di sciopero all'abolizione delle libertà sindacali; dalle nuove prerogative autoritarie, che vennero riconosciute a Mussolini come capo del Governo, alla legge che trasformò il Gran Consiglio del Fascismo, organo interno del Partito Nazionale Fascista, in organo costituzionale dello Stato e alla abolizione del sistema elettivo parlamentare con la costituzione della Camera dei fasci e delle corporazioni.

  7. #7
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    Predefinito da: www.lavoce.info

    15-04-2003
    Berlusconi e i padri costituenti



    Art. 41 L'iniziativa economica privata è libera. Non può svolgersi in contrasto con l'utilità; sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana. La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l'attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali
    .

    Il presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, ha sostenuto, in un recente incontro con gli industriali a Torino, che la nostra Costituzione "risente delle implicazioni sovietiche che fanno riferimento proprio alla cultura e alla Costituzione sovietica da parte dei padri che l'hanno scritta" (vedi il Sole 24 ore, 13 aprile, p. 4). Sdegnate le reazioni di esponenti dell’opposizione e, più in generale, del mondo della cultura, che hanno ricordato l’alto livello intellettuale e morale dei nostri padri costituenti.

    La proprietà privata nella Costituzione

    Ma queste reazioni non rispondono a una legittima sollecitazione del presidente del Consiglio. Proviamo a porci i quesiti posti dalle affermazioni di Berlusconi: esiste o no una componente "sovietica" nella nostra Costituzione? Più precisamente, i limiti imposti dalla Carta costituzionale alla proprietà privata, riflettono una sfiducia dei padri costituenti nell’operato delle forze di mercato, indotta dalla mentalità dell’epoca, oppure qualcos’altro?

    Per rispondere a questa domanda, la cosa migliore da fare è interrogare direttamente i padri costituenti, estraendo qualche citazione dal dibattito che si svolse in seno all'Assemblea costituente, tra il 1946 ed il 1947.

    Il dibattito alla Costituente

    Palmiro Togliatti (Partito Comunista), nel corso di uno dei primi interventi (16 ottobre 1946) sostenne che "si sta scrivendo una Costituzione che non è una costituzione socialista, ma è la Costituzione corrispondente ad un periodo transitorio di lotta per un regime economico di coesistenza di differenti forze economiche che tendono a soverchiarsi le une con le altre (…) è evidente che la lotta che si conduce non è diretta contro la libera iniziativa e la proprietà privata dei mezzi di produzione in generale, ma contro quelle particolari forme di proprietà privata che sopprimono l’iniziativa di vasti strati di produttori e, particolarmente, contro le forme di proprietà privata monopolistiche".

    L’onorevole Marinaro (partito Uomo qualunque) propose - nella seduta del 1° ottobre 1946 - che si attribuisse allo Stato il compito di "impedire la formazione di privilegi e di monopoli".

    Dal canto suo l’onorevole Cortese, collega di partito di Luigi Einaudi, sostenne che non è sufficiente "intervenire per reprimere, bisogna prevenire, impedire che si formino le situazioni monopolistiche".

    Il monopolio, secondo Luigi Einaudi, è "il male più profondo della società presente", si tratta, parafrasando Proudhon, di un vero e proprio "furto", di cui lo Stato non deve farsi "complice" assumendo "esso quei monopoli con cui i privati riescono a fare il danno della collettività. È come dinanzi al ladrone pubblico che svaligia i viandanti, noi si dicesse al carabiniere: tu non arresterai il ladrone, ma anzi ti convertirai in ladrone a tua volta, spoglierai coloro che camminano per le strade". Come noto, Einaudi propose, nella seduta del 13 maggio 1947, che la "lotta ai monopoli" divenisse un espresso principio costituzionale.

    L'onorevole Dominedò (Democrazia Cristiana), intervenendo il 1° ottobre del 1946, non ebbe dubbi nel sostenere che "quando si venga a determinare in un'impresa economica il carattere di preminente interesse nazionale, si venga quasi automaticamente a prospettare l'eventualità di uno Stato nello Stato, di una potenza nella potenza collettiva. È il pericolo in atto nella forma monopolistica (…) un intollerabile monopolio privato".

    Fu ancora più esplicito Mortati (Democrazia Cristiana), nel corso della seduta del 13 maggio 1947, circa la necessità di "armonizzare l'attività economica privata con i fini pubblici", e nel puntualizzare che nel "coordinamento ed i controlli a fini sociali, vi è la facoltà di impedire la formazione dei monopoli".

    Questi, in sintesi, gli interventi più importanti che portarono poi alla stesura dell’articolo 41, a cui si è riferito il presidente del Consiglio, e degli altri articoli della nostra Costituzione relativi ai rapporti economici. Evidentemente, la preoccupazione dominante dei padri costituenti era la lotta ai monopoli e quegli articoli vennero introdotti proprio perché ritenuti allora sufficienti per prevenire la formazione di condizioni di monopolio.

    A questo punto viene da porsi un’altra domanda: che termini userebbero oggi i padri costituenti per descrivere il monopolio televisivo detenuto dal presidente del Consiglio? Forse "una potenza nella potenza collettiva"? Oppure uno "Stato nello Stato"?

  8. #8
    l'Edera del Cugino è sempre...
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