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IL CAVALIERE AL CONVEGNO DELLA CONFINDUSTRIA DI TORINO
«Sulle imprese Costituzione d’ispirazione sovietica»
«Basta leggersi l’articolo 41, me ne sono già lamentato più volte Cambiamo le regole, anche nel Parlamento. Non vedo nessuno scandalo nei parlamentari ”pianisti”: ratificano decisioni già prese»
13/4/2003
TORINO
Riforme, riforme e ancora riforme. E’ l’impegno che Silvio Berlusconi prende davanti alla platea del convegno Confindustria di Torino, sia in campo economico sia sul terreno istituzionale. Ma ci sono troppi «vincoli», aggiunge il premier, che rallentano l’azione del governo. Aprendo il suo intervento del Lingotto - poi trasformato in una tavola rotonda con i grandi nomi dell’economia italiana, da Umberto Agnelli a D’Amato, da Tronchetti Provera a Rainer Masera e Andrea Pininfarina - Berlusconi aveva annunciato di non voler dedicare alcuna battuta all’opposizione e al teatrino della politica. In realtà, con passaggi più volte sottolineati da applausi di consenso, il Cavaliere “non si è tenuto”, gettando qua e là i suoi «sfoghi» da imprenditore sulla «fatica di Sisifo» che gli costa governare con la sola arma della «moral suasion», alle prese con una pubblica amministrazione vecchia e da riformare in uno Stato «pletorico e inefficiente». Ma sono due battute «a rischio» (Berlusconi lo sa e parla di «passatisti della democrazia che grideranno allo scandalo») ad aver fatto più rumore nel mondo politico. La difesa dei «pianisti» - i deputati che votano per i colleghi assenti sulle loro tastiere elettroniche - e l’attacco alla Costituzione che «risente della cultura sovietica» negli articoli dedicati all’impresa. L’assist al premier su questo secondo argomento viene dal presidente della Piccola Impresa di Confindustria, Francesco Bellotti, che lamenta la mancanza di «cultura d’impresa» nelle scuole. «Musica per le mie orecchie», replica il presidente del Consiglio, che aggiunge, a conforto di un ambiente educativo ancora ostile agli industriali: «Mi sono più volte pubblicamente lamentato del fatto che la nostra legge fondamentale dà poco spazio alle imprese». E aggiunge che «la formulazione dell’articolo 41 e seguenti risente delle implicazioni che fanno riferimento alla cultura e alla Costituzione sovietica da parte dei padri che hanno scritto la nostra Carta». Il premier sa che la Prima Parte della Costituzione è considerata un patrimonio difficilmente emendabile, e quindi si è ampiamente dedicato alla Seconda Parte, quella con l’ordinamento della Repubblica. Prima di tutto, rivendicando il merito di aver rimediato «agli errori della sinistra» sul federalismo approvato la scorsa legislatura, con una nuova riforma nello stile dei «Cantoni Svizzeri», che permetterà ai cittadini di «tirare per la giacca più facilmente» i responsabili di qualche servizio non all’altezza. Poi ha collegato a questo la necessità di chiudere con il bicameralismo imperfetto, lamentando di sentirsi un «primus inter pares» a Palazzo Chigi con il «solo potere di essere paziente». Discende da questo rammarico la lunga filippica contro i vizi del parlamentarismo (non nuova per il Cavaliere), dove «si vota per disciplina di partito», con «inutili interventi ripetitivi cui nessuno dà ascolto». Allo stesso modo, al Cavaliere appare spropositato il lungo iter di un decreto legge del governo, che prima di trasformarsi in norma cogente deve passare attraverso mille passaggi. Quasi quasi, sogna Berlusconi, sarebbe meglio che votassero i capigruppo per tutti - lasciando spazio agli eventuali dissidenti - con modifiche radicali ai regolamenti parlamentari per rendere più spedita l’azione del governo. Il premier si assolve e - senza contestazioni da un parterre che nei giorni scorsi non pareva molto tenero verso il governo - aggiunge: «Credo sinceramente che non si potesse fare di più. Nei prossimi tre anni proseguiremo su questa strada». Poi, pensando alle elezioni del 2006: «E forse non basteranno».
g. pa.
IL SENATORE A VITA CHE FU MEMBRO DELLA COSTITUENTE CONTESTA L’ANALISI DI BERLUSCONI
«Non è vero, l’argine era ben saldo»
13/4/2003
ROMA NELLA nostra Costituzione non c’è traccia di collettivismo o ostilità verso le imprese, né di di cedimenti alla cultura sovietica. Basta rileggere la relazione introduttiva di Giorgio La Pira all’Assemblea Costituente: sull’umanesimo di San Tommaso e Maritain si fonda la libertà della persona, dell’organizzazione sociale e quindi anche dell’economia». All’origine della carta fondamentale, assicura il senatore a vita Emilio Colombo (membro della Costituente, ex presidente del Consiglio e del Parlamento Europeo), «non figura l’intenzione di togliere spazio alle aziende private, tanto meno la volontà politica di avvilupparle in soffocanti vincoli burocratici».
Senatore Colombo, non è d’accordo con Berlusconi?
«No. L’iniziativa privata è tutelata adeguatamente dall’articolo 41 della Costituzione. E’ la storia dell’ultimo mezzo secolo a dimostrarlo. L’assemblea costituente non risentì di diktat collettivisti delle sinistre, anzi in apertura dei lavori Togliatti intervenne, subito dopo La Pira, per condividerne l’impostazione solidaristica pur criticando alcuni punti. Non so quali ambiguità celasse l’opzione di Togliatti per la solidarietà sociale, in ogni modo si giunse a riequilibrare il libero mercato con la difesa dei lavoratori e il riconoscimento dei sindacati. E’ da questa dialettica che scaturì l’economia sociale di mercato. I comunisti, a partire dalla svolta di Salerno, avevano dato forti prove di disponibilità al dialogo. Per cercare consensi accettarono persino la monarchia. Nulla turbò quell’atmosfera, neppure gli scontri durissimi con De Gasperi e le piazze in tumulto per l’esclusione dei comunisti dal governo. In quel crogiuolo fu determinante l’accordo sulla solidarietà. Dall’enciclica «Rerum Novarum» di Leone XIII in poi era filtrata, infatti, nella coscienza degli italiani la convinzione che la logica degli affari non potesse svolgersi in maniera selvaggia e fuori da ogni bilanciamento. Così all’Assemblea passò la linea di un libero mercato non fondato sull’individualismo. La lotta al nazifascismo aveva rafforzato un patrimonio condiviso di idee e valori. I concetti di utilità sociale, sicurezza, libertà, dignità umana si facevano largo trasversalmente».
Come si arrivò al compresso?
«Non fu difficile. Ad essere minoritaria era piuttosto la visione liberista che non tiene conto della difesa dei lavoratori e della funzione sociale della proprietà. Comunque, alla Costituente mi sono occupato assieme a Segni e Taviani di temi economici e posso garantire che gli argini alla cultura sovietica non sono mai stati a rischio. Non è mai stato in discussione il soffocamento della libertà delle imprese. Piuttosto sono stati gli imprenditori, spesso, a chiedere al palazzo un ruolo di coordinamento. E non era solo la Dc ad avere un orientamento «statalista». Il repubblicano La Malfa, in genere definito un liberista, ottenne dal presidente del Consiglio Aldo Moro 300 miliardi dell’epoca per il salvataggio di un’azienda lombarda. E prima della Dc, lo Stato si faceva carico delle aziende in crisi per salvare la ricchezza nazionale: da Giolitti e Banca Romana all’Iri e Beneduce».
Ritiene che sulla Carta fondamentale sia più forte l’impronta degli «statalisti» o quella dei liberisti?
«Non ha senso porre la questione in questi termini. E’ stata la Dc a nazionalizzare servizi come l’energia elettrica per salvaguardare l’economia italiana. Sì è vero, l’iniziativa privata è stata concepita come libera, però, con una precisazione: va svolta in maniera da non arrecare danni alla dignità umana. Ne deriva il riconoscimento dei sindacati che tanto preoccupava gli americani. Furono le teorie sociali di noi cattolici a creare aggregazione. A meno che oggi non si voglia definire sovietico l’intervento correttivo dello Stato, dimenticando che a porre le basi del boom economico degli anni 60 e della conquista dei mercati europei è stata la legge sui tassi agevolati alla piccola e media impresa».