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  1. #1
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    Predefinito I Saccheggi Dei Musei Iracheni

    CARO NEBBIA, CARO SKORPION,

    NELLA SPERANZA (VELLEITARIA?) DI RIUSCIRE A POSTARE UN PO' DI PIù NEL VOSTRO GRADEVOLISSIMO FORUM, VI POSTO QUESTO COMUNICATO DEL CENTRO STUDI CATTOLICO INTEGRALE "GIUSEPPE FEDERICI" DI RIMINI SUL SACCHEGGIO DEI MUSEI DELL'IRAQ.
    UN CARO SALUTO CON AFFETTO

    GUELFO NERO



    Duecento cento anni fa le baionette napoleoniche imposero la ³libertà democratica² ai popoli europei; l¹arrivo delle truppe dei ³liberatori² fu seguita un po¹ ovunque dal saccheggio sistematico di opere d¹arte presenti nelle chiese e nei palazzi. Oggi lo scenario si ripete in Iraq: nuovi Napoleoni, nuove armate liberatrici, nuovi saccheggi di opere d¹arte. Ovviamente vi è una differenza sostanziale tra i governi cattolici prerivoluzionari e il regime di Saddam, ma non cambia la natura massonica (e quindi anticattolica) dei ³liberatori²: infatti, il Mondialismo di oggi è il frutto delle varie rivoluzioni che, da quella americana sino a quella russa, hanno sovvertito l¹Ordine Cristiano. La pretesa ³crociata contro l¹Islam² è solamente propaganda: un¹ipotetica armata di autentici Crociati inizierebbe a combattere in Europa per ripristinare la Regalità Sociale di Cristo negata dalle democrazie laiciste. Queste democrazie laiciste, dopo aver consegnato a Yalta una parte dell¹Europa cristiana al dittatore comunista Stalin, in nome del falso principio della fraternità massonica hanno accolto milioni di immigrati islamici e ora si preparano ad accogliere nella Comunità Europea i 70 milioni di musulmani della Turchia, con la benedizione degli Usa e d¹Israele.
    In rete si trovano numerosi articoli che denunciano lo scempio del patrimonio artistico dell¹Iraq e sottolineano il ruolo che può aver avuto l'ACCP, una lobby americana di ricchi collezionisti e mercanti d'arte. Pubblichiamo alcuni passaggi di uno di questi articoli.

    I saccheggi dei musei iracheni



    Il saccheggio dei musei e della Biblioteca Nazionale irachena, con la conseguente distruzione di gran parte del patrimonio culturale iracheno, è un crimine storico di cui l'amministrazione Bush è responsabile.
    I funzionari governativi erano stati ripetutamente avvertiti del possibile danno a manufatti insostituibili, danno causato sia da bombe e missili statunitensi sia dall'instabilità postbellica dopo la rimozione del governo iracheno, ma non hanno fatto nulla per impedirlo. La loro inazione costituisce una massiccia violazione della Convenzione dell'UNESCO del 1954 sulla protezione dei tesori artistici in tempo di guerra, adottata in risposta al saccheggio nazista dell'Europa occupata durante la II° Guerra Mondiale.
    Almeno l'80% dei 170.000 singoli esemplari depositati al Museo Nazionale di Baghdad sono stati rubati o distrutti durante l'ondata di saccheggi che è seguita all'occupazione USA della città. Il Museo era il più grande luogo di deposito di materiali delle civiltà dell'antica Mesopotamia, come Sumer, Akkad, Babilonia, Assiria, Caldea. Conteneva anche manufatti da Persia, Grecia, Impero Romano e varie dinastie arabe.
    Il museo conteneva le tavolette in cuneiforme recanti il Codice di Hammurabi, il primo sistema legislativo del mondo, ed altri testi cuneiformi che rappresentano i più antichi esempi di scrittura - poemi epici, trattati matematici, resoconti storici. Un'intera raccolta di migliaia di tavolette d'argilla non ancora decifrate o analizzate, in parte a causa delle sanzioni imposte dagli Stati Uniti attraverso l'ONU che hanno limitato la possibilità di viaggio verso l'Iraq. Il Vaso di Uruk in alabastro, di 5000 anni fa, è la più antica rappresentazione dipinta di un rituale religioso. Il viso di donna in pietra, scolpito 5500 anni fa, è uno dei più antichi esempi sopravvissuti di scultura figurativa. La più antica fusione in rame del mondo, il busto di un re accadico, risale al 2300 a.c.
    Un'altra perdita significativa è venuta dall'incendio della vicina Biblioteca Nazionale, contenente decine di migliaia di antichi libri e manoscritti, e giornali dal periodo ottomano fino ad oggi. La sala di lettura e gli scaffali sono state ridotti ad un ammasso di rovine fumanti.
    Ironicamente, l'unica speranza per la sopravvivenza di qualcuno di questi tesori è che potrebbero essere stati tolti dal museo prima della guerra, per essere esposti in qualcuna delle residenze private di Saddam Hussein e della sua famiglia. Una vasta collezione di manufatti in oro era stata immagazzinata per salvaguardia alla Banca Centrale Irachena, ma anche quel servizio è stato ugualmente saccheggiato e incendiato.
    I funzionari USa hanno ignorato gli avvertimenti - Le affermazioni USA di essere stati presi di sorpresa dal sacco degli edifici culturali a Baghdad, Mosul e altre città, non è credibile. Una tale tragedia non solo era prevedibile, ma era stata specificamente preannunciata. Alla fine di gennaio di quest'anno, una delegazione di studiosi, direttori di musei e collezionisti ha visitato il Pentagono spiegando il significato del Museo Nazionale Iraqeno e di altri siti culturali. Uno dei partecipanti ha riferito al Washington Post "Abbiamo detto loro che il saccheggio era il pericolo più grosso, e credevo che avessero capito che il Museo era il più importante sito archeologico nell'intero paese. Conteneva tutte le cose provenienti dagli altri siti." L'AIA (Archaeology Institute of America) ha fatto appello a tutti i governi per la protezione dei siti, ma sembra che solo il governo iracheno abbia preso sul serio questo appello, non il governo USA nè quello inglese. Dopo i saccheggi del 1991 nelle rivolte che seguirono alla Prima Guerra del Golfo, il governo iracheno varò leggi che limitavano l'esportazione di oggetti storico-archeologici.
    C'è una lunga tradizione di cura e amore per la storia e il patrimonio culturale in Iraq. Non appena l'indipendenza fu proclamata, nel 1920, il governo iracheno richiese che tutti i rapporti di scavo venissero archiviati al Museo Nazionale. In tempi più recenti, tutti i reperti di scavo venivano consegnati al museo per la catalogazione, facendo di questa istituzione il database centrale per tutti i lavori di scavo e studio del paese.
    Allorchè cominciò a profilarsi all'orizzonte l'assalto statunitense, i funzionari del Museo Nazionale cominciarono i preparativi per mettere in salvo le preziosissime collezioni, riponendo alcuni esemplari in luoghi segreti e mettendo il grosso degli oggetti in stanze blindate sotto l'edificio, protette dalle esplosioni grazie a strati di mattoni e cemento. I pezzi troppo grossi per essere rimossi dalle sale sono stati accuratamente avvolti e coperti.
    I saccheggiatori hanno sottratto o distrutto tutto quanto nelle sale, poi hanno fatto irruzione nelle camere sotterranee e hanno razziato il contenuto. Hanno anche distrutto gli schedari e il sistema informatico del museo.
    Il Pentagono non solo conosceva in anticipo la potenziale minaccia al patrimonio culturale iracheno, ma i militari USA hanno ricevuto richieste esplicite a proteggere il Museo quando è iniziato il saccheggio. Un archeologo iracheno, Ra'id Abdul Ridha Muhammad, ha detto al New York Times di essere andato direttamente da un gruppo di marines su un carroarmato Abrams nella Piazza del Museo, meno di 400 metri dal museo, per chieder loro di fermare i vandali. I marines hanno cacciato via la prima ondata di saccheggiatori, poi dopo mezz'ora se ne sono andati. "Avevo chiesto loro di posizionare il tank sul piazzale del museo, ma hanno rifiutato e se ne sono andati". Prosegue, "Dopo mezz'ora i saccheggiatori sono tornati e hanno minacciato di uccidermi o di dire agli americani che ero una spia dei servizi di Saddam Hussein, così m'avrebbero ucciso. Ero spaventato, e me ne tornai a casa."
    L'archeologo ha aggiunto, "L'identità di un paese, il suo valore e la sua civiltà, risiedono nella sua storia. Se la civiltà di un paese viene saccheggiata, come lo è stata la nostra, la sua storia finisce. Ditelo al Presidente Bush, e ricordategli che ha promesso di liberare il popolo iracheno, ma questa non è liberazione, questa è umiliazione."
    Le politiche di distruzione culturale - Ci sono ragioni commerciali dirette nel fatto che l'amministrazione Bush abbia permesso la razzia dei tesori culturali iracheni. Secondo un articolo del 6 aprile di un giornale scozzese, il Sunday Herald, tra coloro che si sono incontrati al Pentagono prima della guerra c'erano rappresentanti dell'ACCP, una lobby di ricchi collezionisti e mercanti d'arte che aveva cercato di flessibilizzare il rigido divieto dell'Iraq all'esportazione degli oggetti d'arte. Il tesoriere del gruppo, W.Pearlstein, ha criticato la legislazione irachena come troppo protezionista, dicendo che avrebbe fatto in modo di spingere il governo postbellico a rendere più facile l'export dei manufatti verso gli Stati Uniti. Il gruppo ha tentato di far modificare la legge del Cultural Property Implementation Act, che regola il traffico internazionale di antichità.
    Secondo questo articolo "la notizia del meeting tra l'ACCP e il governo USA ha messo in allarme scienziati e archeologi, che temono gli scopi sottobanco della lobby, in base ai quali le autorità statunitensi faciliterebbero il movimento dei reperti iracheni dopo la vittoria in Iraq". Il Los Angeles Times ha riportato la notizia che un collezionista californiano di arte irachena sarebbe stato "surrettiziamente contattato prima della guerra, col messaggio che antichità irachene sarebbero state presto disponibili. Ha ipotizzato che i ladri abbiano agito secondo un piano, non ancora rivelato".
    Placare la sete di gruppi di miliardari con il gusto per le curiosità orientali è qualcosa di certamente congeniale al profilo dell'amministrazione Bush. Assai più fondamentale invece, è la valenza politica, per la classe dirigente USA, del consentire la distruzione di tali depositi di storia e cultura dell'Iraq.
    Lo scopo dell'occupazione militare statunitense è l'imposizione di una dominazione coloniale sull'Iraq e la presa di controllo delle sue vaste risorse petrolifere. E' funzionale agli interessi dell'imperialismo americano umiliare l'Iraq e indurre la sua popolazione a sottomettersi agli USA e al regime fantoccio che verrà instaurato a Baghdad. Colpire le risorse culturali che legano il popolo iracheno a 7000 anni di storia è parte del processo di distruzione sistematica della loro identità nazionale. Il tragico risultato è che i tesori che sono sopravvissuti persino al sacco dei Mongoli nel 13° secolo, non hanno resistito all'impatto della tecnologia del 21°secolo e alla barbarie imperialista. (Š)
    (da: http://www.wsws.org/articles/2003/ap...muse-a16.shtml)

  2. #2
    Nebbia
    Ospite

    Predefinito è vero, gli americani sono il nuovo imperialismo Napoleonico.

    Quello che abbiamo visto al museo archeologico di Baghdad, i terribili saccheggi e le devastanti distruzioni sono il parallelismo dell'imperialismo napoleonico, con l'aggravante però dei tempi moderni e di una sbandierata ed esportata democraticità laicoliberista quale quella a cui fa riferimento il Presidente Bush per scatenare le sue guerre ed espandere il suo colonialismo.
    Al Louvre ho sempre respirato la sensazione della predazione e del Saccheggio, centinaia se non migliaia sono le opere depredate da Napoleone a mezzo mondo. Oggi queste medesime sensazioni sono sempre più palpabili al Metropolitan Museum, non sono poche le statuette di epoca babilonese infatti individuate nelle teche di questo museo, specchio di un sogno espansionistico e pericoloso quale è quello della società americana: il Governo Universale. E ad ogni Governo Universale fa seguito anche uno Stato Universale ed un museo dell'Arte Universale, forse quello che oggi si chiama semplicemente "Metropolitan Museum".

    Saluti artistici.

    P.S. Grazie del pregevole ed interessantissimo thread amico Guelfo, e non dimenticarti dei "Misteri gaudiosi" promessi.

  3. #3
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    Predefinito

    CARISSIMO NEBBIA,

    TI RISPONDO SUBITO: CONCORDO, ED è OVVIO, CON IL TUO GIUDIZIO SULL'IMPERIALISMO AMERICANO, MOTIVATO CON ESEMPLIFICAZIONI TUTT'ALTRO CHE SCONTATE.
    SE COLLASSò L'IMPERO NAPOLEONICO, COLLASSERà ANCHE L'IMPERO (GIUDEO)AMERICANO: TI POTREI DIRE IN QUELLA VISIONE DI TEOLOGIA DELLA STORIA CHE è CARATTERISTICA ANCHE DEL NOSTRO FORUM.
    E CERTAMENTE IL CROLLO SARà ASSAI PIù FRAGOROSO DI QUELLO DEL BANDITO DELLA CORSICA (CHE IN FONDò DURò UN QUINDICENNIO).
    DOVE, COME E QUANDO: NESSUNO LO PUò DIRE, NESSUNO LO PUò PRONOSTICARE.
    è DESTINO DEI FALSI UNIVERSALISMI (SOCIETà DELLE NAZIONI, O.N.U., NUOVO ORDINE MONDIALE) QUELLO DI PRODURRE LE RIVINCITE (ANCHE ESTREME) DEI PARTICOLARISMI E DEI LOCALISMI.
    MI AUGURO QUESTE VITTORIE DELLE PICCOLE PATRIE E, SE NECESSARIO, ANCHE DEI PICCOLI CLAN MA SO BENE CHE L'UNICO ANTIDOTO DURATURO AD UN FALSO UNIVERSALISMO (QUELLO DEI FALSI DIRITTI, DELLE FALSE UGUAGLIANZE, DELLE FALSE LIBERTà) PUò ESSERE SOLO UN VERO UNIVERSALISMO: QUELLA DELLA VERITà.

    QUELLA VERITà CUI UN PAGANO DUEMILA ANNI FA, NON SO SE PIù SCETTICO O IMPAURITO, CHIESE: "CHE COS'è LA VERITà?"

    UN SALUTO FORTE FORTE
    E MOLTI AUGURI PER IL TUO FORUM

    GUELFO NERO

    P.S.: POSTO SUBITO I MISTERI GAUDIOSI


  4. #4
    Ludovico van
    Ospite

    Predefinito

    Originally posted by guelfo nero
    è DESTINO DEI FALSI UNIVERSALISMI (SOCIETà DELLE NAZIONI, O.N.U., NUOVO ORDINE MONDIALE) QUELLO DI PRODURRE LE RIVINCITE (ANCHE ESTREME) DEI PARTICOLARISMI E DEI LOCALISMI.
    MI AUGURO QUESTE VITTORIE DELLE PICCOLE PATRIE E, SE NECESSARIO, ANCHE DEI PICCOLI CLAN MA SO BENE CHE L'UNICO ANTIDOTO DURATURO AD UN FALSO UNIVERSALISMO (QUELLO DEI FALSI DIRITTI, DELLE FALSE UGUAGLIANZE, DELLE FALSE LIBERTà) PUò ESSERE SOLO UN VERO UNIVERSALISMO: QUELLA DELLA VERITà.
    La lotta soprannaturale per la Verità.



    The Fall of the Rebel Angels (Bruegel, Pieter the Elder)

  5. #5
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    Predefinito marines saccheggiano il museo di baghdad



    p.s. bel forum
    per risorgere bisogna insorgere

  6. #6
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    Thumbs up Ben detto Nebbia!

    Ben detto Nebbia!

    Padus 996 - Brescia

  7. #7
    Nebbia
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    Smile Grazie Padus!

    Colgo l'occasione per segnalare a tutti i forumisti il forum di Padus, che di Massoneria ne fa il suo pane.

    http://www.politicaonline.net/forum/...?s=&forumid=66

  8. #8
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    Predefinito

    Colgo l'occasione offerta dall'amico Guelfo Nero,
    per postare questo interessante articolo di Marco Albera, apparso su "Cristianità"e dal titolo:


    "I furti d’arte. Napoleone e la nascita del Louvre"



    Nell’immaginario collettivo all’idea di Rivoluzione francese non a caso si associa la visione truculenta della ghigliottina, così come a Napoleone Bonaparte (1769-1821) corrisponde con immediatezza il ricordo delle sue incessanti campagne di guerra, che sconvolsero l’Europa per oltre un ventennio, con cinque milioni di morti, travolgendo nazioni e regimi. Ma la rivoluzione d’oltralpe e il suo "fulmine di guerra" meriterebbero di essere associati anche a un’altra immagine, quella di rapinatori d’arte, dovuta alle sistematiche spoliazioni delle nazioni vinte che venivano deliberatamente umiliate nel loro patrimonio artistico-devozionale, strappato ai luoghi di culto profanati, e negli oggetti asportati dalle collezioni private delle famiglie nobili dell’Ancien Régime. Ne fornisce prova documentata l’opera — anche se datata e criticabile per la superficialità del giudizio politico — dello studioso tedesco Paul Wescher (1896-1974) pubblicata nel 1976 in Germania e in Italia nel 1988 con il titolo suggestivo I furti d’arte. Napoleone e la nascita del Louvre (1), che — unica nel suo genere — offre i termini, anche quantitativi, della più colossale trasmigrazione di patrimonio artistico verso l’unico centro di Parigi, secondo una pianificazione, quasi rituale, che ha il suo stratega nel barone Dominique Vivant Denon (1747-1825), consulente-ombra dell’imperatore per oltre un ventennio.

    La grande Rivoluzione, dopo le prime intemperanze e qualche inevitabile distruzione, si rende conto ben presto di poter sfruttare ideologicamente il patrimonio artistico della nazione, promuovendo da un lato la nascita di pubblici musei e dall’altra sviluppando un fiorente e redditizio mercato antiquario. Diviene presto celebre l’affermazione dell’abbè Henri Baptiste Grégoire (1750-1831): "I Barbari e gli schiavi devastano i monumenti artistici, mentre gli uomini liberi li amano e li conservano" (p. 29).

    La nazionalizzazione delle opere d’arte imponeva dunque la loro conservazione e disponibilità. Per questo motivo nel 1795 il Palazzo del Louvre viene destinato a sede del Musée des Monuments Français e le prime opere sono tratte dalle collezioni reali dei Borboni, da quelle del conte d’Angeviller, ultimo intendente reale, della ghigliottinata marchesa di Noailles, del duca di Richelieu e dell’emigrato duca di Penthièvre, oltreché da fondi ecclesiastici. Per comprendere l’operato della Rivoluzione francese nel settore del collezionismo d’arte merita di essere notato che "[...] tutte le collezioni principesche formatesi per lo più nel corso del ’700 [...] furono il risultato di una serie di acquisti. Nonostante le numerose guerre nessun principe pensava [...] ad arricchire le sue raccolte d’arte col bottino di guerra. Questo stato di cose durò immutato fino alla cacciata dei gesuiti e alla confisca dei loro beni, alla successiva chiusura dei conventi olandesi ordinata dall’imperatore Giuseppe II e all’inizio della Rivoluzione francese" (p. 19).

    Torno all’opera della Rivoluzione francese. Il patrimonio iniziale del Musée des Monuments Français si arricchisce straordinariamente grazie alla prima campagna di guerra nei Paesi Bassi, nel 1794-1795, con oltre 200 capolavori della pittura fiamminga, fra i quali ben 55 di Pieter Paul Rubens (1577-1640) e 18 di Rembrandt Harmenszoon van Rijn (1606-1669)! La svolta che consacra la pratica della spoliazione del patrimonio artistico fra gli scopi stessi della guerra rivoluzionaria avviene con Napoleone Bonaparte e la Campagna d’Italia del 1796: "[...] Napoleone capì subito quale valore, in termini di prestigio e di propaganda, potevano avere le arti e le scienze per un regime politico, e in particolare per un regime "illegittimo" in quanto rivoluzionario" (p. 56). "Le "conquiste" artistiche seguirono così di pari passo quelle militari. E per dare a questi espropri una parvenza di legalità, Napoleone escogitò [...] il sistema geniale di includere le opere d’arte tra le clausole dei trattati di pace e di farle rientrare addirittura tra i contributi di guerra.

    "Già il primo maggio 1796, dopo la firma dell’armistizio di Cherasco con il re di Sardegna e durante i preparativi per la successiva campagna contro gli austriaci, Napoleone scrisse dal suo quartier generale di Acqui al plenipotenziario Faypoult, di stanza a Genova, di procurargli un elenco dei principali gabinetti artistici e delle principali gallerie dell’Italia del Nord" (p. 57).

    Nell’agosto dello stesso anno Napoleone scriveva al Direttorio che 110 grandi capolavori erano sulla strada di Parigi, 25 da Milano, 15 da Parma, 30 da Modena e 40 da Bologna, cui seguivano un’infinità di altri oggetti di valore. Il solo risarcimento di guerra imposto alla cattedrale di Monza frutta, in fusione di oggetti e vasi liturgici, 11,300 kg d’oro e 184 kg d’argento. Il 22 febbraio successivo Napoleone imponeva allo Stato Pontificio, con il trattato di Tolentino, clausole che sarebbero servite da modello per le conquiste successive, stabilendo espressamente che la nazione francese diventava proprietaria a tutti gli effetti delle opere in questione.

    Napoleone così poteva vantarsi con il Direttorio: "La commissione degli esperti [ cioè la commissione per le opere d’arte] ha fatto un buon raccolto a Ravenna, Rimini, Pesaro, Ancona e Perugia. Queste opere verranno subito spedite a Parigi. Con queste, e con quelle che spediremo da Roma, tutto quello che c’è di bello in Italia sarà nostro, a eccezione di alcuni pezzi che si trovano a Torino e a Napoli" (p. 67).

    Le insorgenze antigiacobine del 1797 forniscono l’occasione di spietata ritorsione anche nel campo del patrimonio artistico. I rivoluzionari francesi, per vendicarsi delle Pasque Veronesi, abbattono la Serenissima Repubblica di Venezia, che subisce il sacco di moltissimi capolavori e viene specialmente umiliata con la rimozione del leone di bronzo — simbolo della città, che dal Medioevo dominava piazza San Marco — e dei quattro cavalli di bronzo che ornavano la facciata della basilica.

    Non a caso il ritorno di Bonaparte dalla Campagna d’Italia viene festeggiato con un solenne banchetto, con 700 invitati, nella Grand Galerie du Louvre ove, per l’occasione, vengono esposti per la prima volta al pubblico gran parte dei quadri fiamminghi e italiani "conquistati sul campo". I tesori di provenienza dallo Stato Pontificio, nel 1798, suscitano un’attesa tanto straordinaria al loro arrivo a Parigi che il regime sfrutta l’occasione per una perfetta operazione di propaganda. "[...] su suggerimento di Thouin [venne organizzata] [...] una grande festa popolare che ricordava insieme le feste rivoluzionarie e i trionfi romani. [...]



    "Nei giorni 27 e 28 luglio 1798 i parigini poterono così assistere, a bocca aperta, all’ingresso dei "Monuments des Sciences et Arts". Era un corteo interminabile: guidata dalle due statue colossali del Nilo e del Tevere, provenienti dal Vaticano, la processione si mosse dal Jardin des Plantes costeggiando la Senna fino al Champs de Mars e di qui al Louvre. Il contenuto delle casse era indicato da grosse scritte all’esterno, e tra le statue greche e quelle romane sfilava un manifesto con le parole: "la Grèce les céda, Rome les a perdu / leur sort changea deux fois / il ne changera plus". I quattro cavalli di bronzo di San Marco non erano imballati, ma, come si vede in una stampa dell’epoca, vennero trasportati con un sistema di piattaforme e di rulli. Con una scenografia decisamente incongrua, i cavalli erano scortati dalle giraffe, dai cammelli e dagli altri animali esotici destinati al giardino zoologico. Furono quindi collocati su piedistalli marmorei all’estremità orientale delle Tuileries e infine, nel 1808, sull’Arc de Triomphe del Caroussel insieme a un carro della vittoria e ad altri accessori moderni. Il leone di bronzo di San Marco fu sistemato su una fontana agli Invalides" (pp. 79-80).

    I casi del 1798, con l’esilio dei Savoia dal Piemonte e il ritorno del regime napoleonico dopo Marengo, offrono occasione per la definitiva spoliazione della penisola, completata nel 1801 con l’occupazione del Regno di Napoli e del neutrale Granducato di Toscana. Questa enorme massa di opere viene affidata — per lo studio, il riordinamento e l’esposizione — alle geniali cure del barone Denon, che fin dal 1795 ha l’incarico di ordinatore del Louvre, che più coerentemente cambia nome nel 1803 in Musée Napoléon. Paul Wescher segnala che, fin dal 1802, la miniaturista Maria Hadfield Cosway (2) viene incaricata di "[...] realizzare le incisioni per una grossa opera in-folio sulla Galleria del Louvre, il cui primo volume, dedicato a una parte dei quadri di scuola italiana, fu stampato nello stesso anno 1802. Su queste tavole — dichiara — possiamo farci un’idea di com’erano esposti i quadri nella Grande Galleria" (pp. 93-94). Il barone Denon lavora accanitamente per oltre un ventennio non solo in patria, ma anche al seguito dell’imperatore in sette campagne — a partire da quella d’Egitto fino al 1814 —, pianificando la raccolta del bottino contemporaneamente allo sviluppo delle azioni militari. Fin dal 1800 aveva provveduto al decentramento delle collezioni nazionali con la costituzione di 22 musei nelle città della provincia francese cui erano stati distribuiti, nel solo 1802, 846 dipinti di altissima qualità, che si aggiungono ai frutti delle locali spoliazioni ai danni degli enti ecclesiastici e dei nobili emigrati.

    Nel 1806 inizia il sacco dell’area germanica, cui seguono le requisizioni in Spagna — dal 1808 al 1814 — e quelle successive alla conquista di Vienna nel 1809. Infine il barone Denon compie una missione in Italia fra il 1811 e il 1812 con il precipuo scopo di colmare l’ultima lacuna del Musée Napoléon: la mancanza di opere dei primitivi toscani come Duccio di Boninsegna (1255-1318/1319), Cimabue (Cenni di Pepo, 1272-1302) e Giotto (1267?-1337). Va ricordato che tali capolavori erano allora considerati esclusivamente per il loro valore devozionale! Durante il suo rientro in patria gli provoca viva indignazione la resistenza di Andrea Appiani (1754-1817), responsabile della Pinacoteca di Brera a Milano, a cedere alcune opere, frutto anch’esse di rapina, tanto da fargli scrivere al sovrintendente imperiale: "Di che si tratta in realtà? L’imperatore prende dal suo museo di Brera cinque quadri per il suo museo di Parigi, dove cerca di completare la più straordinaria raccolta che sia mai esistita, e che deve in fondo la sua esistenza proprio alle vittorie dell’imperatore. Sua Maestà avrebbe potuto prendere questi quadri senza dover mandare in cambio quelle tre belle opere di scuola fiamminga" (p. 139).

    Con la definitiva caduta di Napoleone a seguito della battaglia di Waterloo del 18 giugno 1815, si ritrovano a Parigi, a partire dall’agosto dello stesso anno, i commissari artistici di tutte le nazioni che chiedevano la restituzione o il risarcimento del patrimonio loro sottratto. Le trattative — che vedono impegnato, fra gli altri, anche lo scultore Antonio Canova (1757-1822) per conto dello Stato Pontificio — sono lunghe e difficili e non sempre riescono a ottenere quanto di diritto: secondo i dati forniti da Marie-Louise Blumer, su 506 dipinti di provenienza italiana, ben 248, ossia circa la metà, rimangono in Francia, e buona parte di questi provenivano dagli Stati della Chiesa. "Dopo lunghi indugi le opere d’arte italiane furono finalmente pronte per il rientro, e il 24 ottobre un convoglio di 41 carri con 200 cavalli da tiro partì da Parigi per Milano con una scorta di soldati tedeschi. A Milano il carico fu distribuito e proseguì per le diverse località d’origine: 16 carri si diressero verso i vecchi Stati austriaci, 12 verso Roma, otto verso Torino e così via. [...]



    "Il 15 novembre il segretario generale Lavallée poté informare il ministro conte Pradel che le operazioni di restituzione erano ultimate, e trasmettergli i relativi inventari. Dei 5233 complessivi, almeno 2000 tra dipinti e sculture antiche potevano annoverarsi, secondo Lavallée, tra le opere di prima qualità" (p. 153).

    Fra le conseguenze di tali e tanti rivolgimenti, Paul Wescher osserva acutamente che "quasi vent’anni di ruberie, confische, svendite all’asta, avevano determinato un eccesso di offerta con effetti negativi sulle quotazioni di mercato, effetti destinati a protrarsi anche dopo la fine dell’età napoleonica. Nello stesso tempo, tuttavia, proprio il ribasso dei valori di mercato favorì un aumento della domanda, che grazie anche all’opera di abili mercanti d’arte come Lebrun, Buchanan, Nieuwenhuis, creò le condizioni per un nuovo tipo di collezionismo" (p. 130).

    Nasce così anche in Italia il moderno museo, frutto non solo del retaggio napoleonico, ma soprattutto delle sistematiche soppressioni degli enti ecclesiastici susseguitesi per tutto il periodo risorgimentale. Un museo, quello moderno, che è rivoluzionario proprio per la sua caratteristica di mostrare l’arte separata dal suo contesto architettonico, devozionale, celebrativo delle glorie delle antiche famiglie, per diventare esclusiva esibizione di tecnica e ridursi, in definitiva, solo ad arte per l’arte, un’arte il cui fine diventa sempre meno intelligibile. L’ambizione di creare con il Louvre-Musée Napoléon il materiale catalogo di quanto di meglio l’umanità abbia prodotto si risolve nel tentativo di erigere un’ennesima, moderna Torre di Babele. È il peccato d’orgoglio di un’arte che, non volendo più essere al servizio di Dio, finisce per confondere e per disorientare l’uomo. La spoliazione sistematica prodotta dalla Rivoluzione francese ha ragioni profondamente ideologiche, al fine di dimostrare la superiorità della sua pretesa civiltà illuminata dalla ragione, nella contemporanea umiliazione di ogni tradizione sacra e civile delle nazioni sottomesse con la forza.

    Marco Albera

    ***

    Tratto da:

    http://www.alleanzacattolica.org/ind...ram261_262.htm

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    Cominciati gli studi


    Firenze - E' affidato agli studi dell' Opificio delle Pietre Dure di Firenze il vaso di Warka, uno dei reperti più preziosi della civiltà assiro-babilonese andato distrutto in tanti pezzi durante le devastazioni al Museo Nazionale di Bagdad negli ultimi giorni di guerra. Il pezzo, dal valore inestimabile, risale ad un' epoca compresa tra il quarto ed il terzo millennio avanti Cristo. La sezione materiali lapidei dell' Opificio ha avuto il compito di fare una ricognizione sulle condizioni del vaso di Warka nell' ambito della visita della delegazione italiana, organizzata dal Ministero per i beni e le attività culturali, per il recupero del patrimonio storico-artistico iracheno rimasto danneggiato durante il conflitto. Tra le diverse attività svolte in Iraq, un tecnico dell' Opificio ha preso visione dell' opera e stilato una relazione che ne descrive lo stato e fornisce indicazioni su come procedere per il suo recupero. Il vaso, infatti, è fra le opere rotte o distrutte durante la devastazione nel Museo nazionale di Bagdad provocata da sbandati e trafugatori d' opere d' arte. Il vaso di Warka, alto un metro e in materiale simile all' alabastro, riporta sulla superficie scene che raffigurano sacrifici e rituali propiziatori legati al mondo agricolo. Viene considerato come uno dei due reperti archeologici più importanti della civiltà mesopotamica, insieme ad un' antica statua di rame del 2.250 avanti cristo. Dopo i vandalismi nel museo, i frammenti del vaso erano stati raccolti dai dipendenti e conservati in una cassa, dove sono stati ritrovati dalla missione internazionale, a cui partecipa anche l' Italia.

    Da: http://www.repubblicarts.repubblica....dCategory=1922

 

 

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