La sinistra si è compiaciuta dell’assoluzione di Andreotti, ha elogiato la magistratura, ha reso omaggio alla serenità dell’accusato. Si direbbe che i suoi portavoce abbiano tirato un sospiro di sollievo e considerino ciò che è accaduto una grande vittoria della democrazia italiana e dello Stato di diritto. Dopo essere stato amico di finanzieri corrotti, protettore e complice di boss e padrini, mandante di delitti e spregiudicato manipolatore della politica siciliana, il senatore dc è divenuto l’imputato modello, un esempio del modo in cui un politico dovrebbe comportarsi quando la vita lo costringe ad affrontare una situazione difficile di cui nessuno, apparentemente, può essere considerato responsabile. Insomma tutti sono stati bravi: i procuratori hanno fatto il loro dovere, l’imputato ha accettato senza esitare e con straordinaria eleganza le regole del gioco, i giudici hanno dato prova di straordinaria imparzialità. Come nel Candide di Voltaire, l’Italia del processo Andreotti è improvvisamente il migliore dei mondi possibili.
Mi chiedo se il lettore, leggendo queste reazioni, abbia ricordato certe dichiarazioni di Luciano Violante e, più generalmente, il coro che ha accompagnato con i suoi commenti, la vicenda giudiziaria di un uomo che fu sette volte presidente del Consiglio. Quando Andreotti fu assolto in prima istanza a Palermo e condannato in appello a Perugia, i toni e gli argomenti erano ancora quelli degli anni precedenti. Sostenere che questo coro aspettava allora la fine del processo senza pregiudizi ed era pronto ad accettare qualsiasi verdetto con spirito equanime, è palesemente assurdo. Per dieci anni la sinistra ha puntato sulla colpevolezza dell’imputato e ne ha atteso impazientemente la condanna. Qualcosa, evidentemente, è accaduto e la cosa si chiama Berlusconi. Dopo essere stato, come Talleyrand, il «diavolo zoppo» della politica italiana, Andreotti è stato riabilitato perché particolarmente adatto a rappresentare in questo momento la parte dell’anti-Berlusconi. Se conosco il vecchio leader democristiano, credo che si stia divertendo a ripercorrere mentalmente le diverse tappe del suo lungo e contrastato rapporto con la sinistra. Proviamo a farlo con lui. Capiremo meglio forse perché una stessa persona possa essere, a seconda delle circostanze, un avversario, un compagno di viaggio, un nemico del popolo e, infine, un modello di virtù politiche.
Nel maggio del 1947, quando Alcide De Gasperi estromise i comunisti dal governo e il sipario di ferro calò rumorosamente sulla politica italiana, il ventottenne Giulio Andreotti aveva tutte le caratteristiche necessarie per apparire, agli occhi del Pci, un nemico. Era romano e «papalino», era stato presidente della Fuci (l’organizzazione degli universitari cattolici) ed era considerato più democristiano di De Gasperi. Come sottosegretario alla presidenza aveva assunto in parte le funzioni che erano appartenute, durante il fascismo, al ministero della Cultura popolare e salvato dalla mannaia dell’epurazione alcuni funzionari del regime. Come «ministro della Cinematografia» (una carica che tenne di fatto per alcuni anni) esercitava una occhiuta vigilanza su Cinecittà e non nascondeva la sua diffidenza per il neorealismo. Faceva in altre parole ciò che Palmiro Togliatti aveva cominciato a fare sin dal suo ritorno in Italia. Mentre il leader comunista assolveva gli intellettuali ex-fascisti e ammetteva i penitenti nelle file del partito rivoluzionario, Andreotti recuperava una parte della tecnocrazia culturale del regime e la iscriveva benevolmente nei ruoli del grande partito moderato italiano. Comincia in quegli anni l’antipatia della sinistra italiana per questo giovane democristiano, magro, precocemente ingobbito, la testa coperta da un casco di capelli corvini, che accompagnava De Gasperi alla messa del mattino e approfittava dell’occasione, mentre il leader trentino parlava con Dio, per chiacchierare con i preti e coltivare la loro amicizia.
Eppure Andreotti cominciò presto a trattare i suoi avversari con rispettosa cortesia. Ne ebbi la conferma durante una serata a Parigi con Mario Melloni, nella casa di Italo Calvino, durante la prima metà degli anni Settanta. Direttore del quotidiano della Dc dopo la fine della guerra e transfuga nel Pci dopo un clamoroso divorzio dal partito cattolico nel 1954, Melloni firmava ogni giorno sulle colonne dell’ Unità , con lo pseudonimo di Fortebraccio, una micidiale «pasquinata» contro l’Italia democristiana e i suoi alleati laici. Ma non appena la conversazione cadde su Andreotti, Melloni ne riconobbe le qualità e lo stile. Mi disse che aveva rapporti di buon vicinato con alcuni leader comunisti, rendeva all’occasione qualche favore e intratteneva con tutti un fitto scambio di biglietti, scritti personalmente con una grafia sinuosa e tondeggiante (viste da lontano le lettere di Andreotti sembrano testi arabi) sui banchi di Montecitorio.
Le ragioni di questo rispetto erano concretamente politiche. Non appena la Chiesa di Giovanni XXIII lanciò segnali di disgelo e le circostanze della guerra fredda lo permisero, Andreotti divenne, nella vita politica italiana, uno degli uomini più attenti ai rapporti con l’Unione Sovietica. Era atlantico, ma tiepidamente, senza nessuna concessione ai furori verbali dei due campi. Era fedele alle grandi scelte fatte dalla diplomazia italiana dopo la fine della guerra, ma coltivava i rapporti con tutti coloro che potevano considerarsi nemici degli Stati Uniti: l’Urss, i Paesi satelliti, i regimi nazionalisti del mondo arabo e più tardi l’Olp (Organizzazione per la liberazione della Palestina) di Yasser Arafat. Negli anni in cui fu responsabile di vari ministeri, presidente del Consiglio, presidente della Commissione Affari esteri della Camera e ministro degli Esteri, quasi tutte le sue scelte furono «distensioniste» e quindi conformi al clima internazionale desiderato dal Pci. Vi fu un momento, negli anni della guerra fredda, in cui due uomini, da una parte e dall’altra del Tevere, facevano con diverse modulazioni una politica internazionale perfettamente sintonizzata e gradita a Mosca. Erano Giulio Andreotti e Agostino Casaroli, segretario del Consiglio per gli Affari pubblici della Santa Sede. Ma Casaroli dedicava tutte le sue cure all’Europa comunista, mentre Andreotti praticava la diplomazia del dialogo anche nel Mediterraneo e nel Terzo mondo. Fu lui che non cessò mai di cucire e ricucire i rapporti con il colonnello Gheddafi dopo il colpo di Stato libico del 1969, preparò i viaggi di Arafat a Roma, mantenne buone relazioni con i Paesi del Maghreb, coltivò quelle con i regimi Baath della Siria e dell’Iraq, evitò posizioni troppo rigide verso il regime khomeinista di Teheran.
Non è sorprendente che la Dc abbia affidato a Giulio Andreotti, all’epoca del «compromesso storico», la responsabilità dei governi di «solidarietà nazionale». Nessuno meglio di lui era in grado di conciliare l’inconciliabile. Tranquillizzava la Chiesa, calmava le preoccupazioni dei moderati e prometteva al Pci che non lo avrebbe mai messo in imbarazzo con dichiarazioni troppo atlantiche. Anche i molti comunisti che diffidavano di lui dovevano comunque constatare che pochi altri leader occidentali erano così graditi a Mosca e suscitavano altrettanta diffidenza a Washington. Se gli avessero dichiarato guerra, avrebbero danneggiato se stessi.
Ne ebbero una definitiva conferma durante gli ultimi anni della guerra fredda e dopo l’elezione di Gorbaciov alla segreteria generale del Pcus. Nel settembre 1984 Andreotti, allora ministro degli Esteri del governo Craxi, dichiarò al festival dell’ Unità che la riunificazione tedesca sarebbe stata «irta di pericoli». Nel 1985, durante la crisi dell’Achille Lauro e l’incidente di Sigonella, sostenne lealmente Craxi e non esitò a sfidare gli Stati Uniti. Negli anni seguenti, dopo l’elezione di Gorbaciov alla segreteria generale del Pcus, fu con Craxi tra i pochi uomini politici occidentali che dettero rapidamente fiducia al nuovo leader sovietico. Nel 1989 lo ricevette a Roma come presidente del Consiglio. Nel 1990 guardò all’unificazione tedesca con apprensione e sospetto. Nello stesso anno, mentre George Bush si preparava a liberare il Kuwait, lasciò capire più di una volta che la guerra gli sembrava inutile e pericolosa. Non è tutto. Alla fine degli anni Ottanta la Procura di Venezia cominciò a indagare sull’attività di Gladio, una formazione segreta costituita nell’ambito della Nato per organizzare la resistenza in territorio italiano nel caso di un’aggressione del Patto di Varsavia. Quando gli inquirenti chiesero di esaminare la documentazione del ministero della Difesa, Andreotti, allora presidente del Consiglio, dette l’autorizzazione e spiegò che aveva obbedito a un obbligo di ufficio. Forse. Ma nei mesi precedenti Bettino Craxi aveva cercato di accelerare la crisi comunista rievocando gli «assassini di classe» commessi dai partigiani del Pci nel «triangolo della morte», in Emilia, fra il 1945 e il 1947. Giunte in quel momento, le rivelazioni su Gladio furono per gli ex comunisti una manna dal cielo.
E’ a questo punto che nella storia dei rapporti fra Andreotti e la sinistra comunista si apre un apparente vuoto logico. Nel marzo del 1993 il presidente della Commissione antimafia Luciano Violante presentò ai suoi colleghi una relazione di 70 pagine in cui erano descritti e analizzati, alla luce dell’omicidio di Salvo Lima, i rapporti tra mafia e politica. «I collaboratori di giustizia hanno descritto una prassi e un sistema - disse Luciano Violante - Ma dell’una e dell’altro non poteva essere Lima l’unico esecutore. E’ necessario identificare gli altri politici». E ancora: «E’ stata chiesta dalla Procura di Palermo l’autorizzazione a procedere nei confronti del senatore Giulio Andreotti per il delitto di concorso in associazione per delinquere mafiosa. Sulla base dei documenti di cui dispone la Commissione, l’accertamento delle eventuali responsabilità penali di Andreotti è un atto dovuto». Con quelle parole un diessino particolarmente autorevole, ex magistrato e presidente di una commissione parlamentare conferiva ai procuratori di Palermo un clamoroso nihil obstat . Comincia da quel momento, per Giulio Andreotti, una lunga traversata del deserto, conclusa avant’ieri con la sentenza della Corte d’appello che lo assolve dalle accuse infamanti di alcuni collaboratori di giustizia.
Resta da capire perché il partner privilegiato di tanti dialoghi e reciproci ammiccamenti sia divenuto improvvisamente, fra il 1992 e il 1993, un «nemico del popolo». Chi scrive non ha mai creduto né all’esistenza di un «partito dei giudici» né a un patto segreto tra la sinistra ex comunista e una parte della magistratura. Ma non occorrono partiti e patti per constatare che nel grande marasma politico di Tangentopoli alcuni procuratori e una parte consistente della sinistra videro la possibilità di vincere una grande battaglia politica e morale. Il collasso della Dc e dei suoi alleati, l’incriminazione di una larga parte della classe dirigente moderata e il processo Andreotti avrebbero dimostrato l’esistenza, dal 1948 in poi, di due Stati: il primo visibile e apparentemente legale, il secondo invisibile, corrotto e criminale. Per una parte politica che stava uscendo dal purgatorio di una esperienza fallita e storicamente condannabile, i processi al corrotto Craxi e al mafioso Andreotti erano in quel momento una straordinaria ancora di salvezza. Per i procuratori erano la promessa di un grande ruolo istituzionale, corrispondente alle loro ambizioni e alla loro concezione della cosa pubblica.
I tempi della giustizia e quelli della politica sono molto diversi. La sentenza della Corte d’appello di Palermo arriva quando molte cose sono cambiate e molta acqua è passata sotto i ponti della vita italiana. Ma c’è qualcuno a sinistra che non dispera, dopo avere perduto una battaglia, di vincere l’altra. Rinuncia a sperare nella colpevolezza di Andreotti, ma si serve della sua assoluzione per lodare, in evidente polemica con le ultime dichiarazioni del presidente del Consiglio, l’indipendenza della magistratura. Inutile come mafioso, il senatore diventa un prezioso «anti-Berlusconi». Se fossi magistrato, le parole «indipendenza della magistratura» comincerebbero a preoccuparmi. Leggerei, tra le righe, la speranza di chi, lodandomi, desidera in realtà una sentenza conforme ai suoi desideri o, nella peggiore delle ipotesi, la adatta alle sue strategie.

di SERGIO ROMANO


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