La socialdemocrazia tedesca verso il disastro sociale
Elviro Dal Bosco
La decisione di Gerhard Schroeder, annunciata a metà marzo con il progetto Agenda 2010, di mettere le mani nello stato sociale tedesco per adeguarlo alle nuove esigenze dell'economia, ha creato grande disagio nel sindacato unitario tedesco, la Dgb, che da sempre nelle elezioni appoggia tacitamente la socialdemocrazia e nella base stessa della Spd, tanto da imporre la convocazione per il primo giugno di un Congresso straordinario, che dovrà approvare o meno la controriforma dello stato sociale.
Nelle elezioni politiche del settembre scorso il governo rosso-verde è stato confermato con una maggioranza risicata, ma in rimonta rispetto alle aspettative grazie al rifiuto della guerra preventiva e al forte sostegno finanziario delle regioni colpite da una rovinosa alluvione, pur avendo contro quasi tutti i mezzi di disinformazione di massa. Successivamente, è ripresa con ancora maggior vigore la campagna volta a delegittimare il governo con attacchi concentrici dell'opposizione democristiana e liberale, delle organizzazioni padronali e di larghissima parte della stampa e delle Tv, perché esso sarebbe incapace di rilanciare l'economia e modernizzare il paese, quando basterebbe adottare il "modello americano".
Gli ideologi neoliberisti sorvolano sulla brutta fine fatta dal modello con lo scoppio della bolla speculativa all'inizio del 2001 negli Stati Uniti, ma anche quando funzionava essi tralasciavano di discutere degli effetti collaterali. L'inefficienza economica è dimostrata dal disavanzo commerciale, aumentato di tre volte nell'arco di dieci anni per arrivare a 450 miliardi di dollari nel 2000. L'inequità è comprovata da una ridistribuzione enorme del reddito nazionale a favore dei ricchi, non temperata dallo stato sociale come avviene ancora in Europa; nel 1970 lo 0,01 per cento più ricco aveva un reddito superiore di 70 volte quello medio, ma nel 1998 questo divario è balzato a 300 volte!
Il pensiero unico annovera tra le inefficienze economiche dello stato sociale l'aumento della disoccupazione, la minor propensione al risparmio, la scarsa attitudine al rischio, ma soprattutto l'effetto negativo dello stato sociale sul processo di globalizzazione dell'economia. Un confronto empirico istituito per i principali paesi capitalistici nell'arco di circa vent'anni fra la spesa sociale e l'aliquota di disoccupazione non rileva una correlazione diretta fra le due variabili. Del resto, è noto che il paese dotato del più ampio stato sociale, la Svezia, è quello che registra il più elevato tasso di attività delle forze di lavoro femminili proprio per il grande impiego che esse trovano nei servizi sociali. Fa quasi tenerezza veder i neoliberisti rivangare una tesi neoclassica, ridicolizzata più tardi da Keynes, quando Pigou nel 1927 sosteneva che «in Gran Bretagna l'alta aliquota di disoccupazione prevalsa nel dopoguerra è dovuta in larga misura allo sviluppo dell'assicurazione contro la disoccupazione» (un primo embrione di stato sociale).
Anche la tesi di una scarsa attitudine al rischio indotta dallo stato sociale non convince affatto; una ricerca di qualche anno fa su un gruppo di sei paesi importanti dell'Europa occidentale e orientale, insieme agli Stati Uniti, ha mostrato che, pur restando cauta sul rapporto di causalità, esiste una correlazione positiva fra stato sociale e attitudine al rischio.
Quanto allo sbandierato effetto negativo dello stato sociale sul processo di globalizzazione economica, c'è un abisso fra mistificazione ideologica e risultati concreti. All'inizio degli anni '90, un'analisi sul rapporto fra globalizzazione e progresso sociale partiva dall'idea che questo avrebbe potuto essere positivo solo rafforzando lo stato sociale: «La prosperità di un'economia in via di globalizzazione può realizzarsi solo a partire da un'economia imperniata sull'innovazione in cui la ricerca tecnica e scientifica occupa un posto centrale, da un'economia attenta al rinnovamento continuo della gamma dei prodotti, dell'adattamento permanente dei suoi processi di produzione e organizzazione. Questa fuga in avanti può riuscire solo se le risorse umane sono stimolate costantemente nel senso della creatività e della responsabilità, nel senso della qualità e della flessibilità attraverso la formazione continua dentro e fuori l'impresa. Sarebbe tuttavia illusorio credere che tale fuga in avanti potrebbe essere ottenuta abbandonando armi e bagagli dello stato sociale. Che che se ne dica, sarà molto difficile riuscirvi in futuro senza lo stato sociale e senza il compromesso sociale su cui si fonda». (Jacques Delcourt, Globalisation de l'économie et progrès social, in "Futuribles", n. 164, 1992, p. 33v). Alla fine del secolo scorso, il World Labour Report dell'Ufficio internazionale del lavoro ha presentato uno studio statistico in cui si afferma che più è sviluppato lo stato sociale e più è aperta un'economia. Mettendo a confronto il grado di globalizzazione, si ottiene una graduatoria (Paesi Bassi, Danimarca, Germania, Stati Uniti e Giappone) che corrisponde esattamente a quella della spesa sociale.
In conclusione, mi pare che il senso profondo dello stato sociale sia stato descritto in maniera plastica non da economisti, sociologi o politologi, ma da un noto regista cinematografico e moderatore tv degli Stati Uniti, Michael Moore, in una recente intervista. Prendendo ad esempio il caso, accaduto nella sua città natale nel Michigan, di un bambino di sei anni che ha ucciso in classe una coetanea, egli sostiene che la domanda vera da porsi è che razza di società è questa che impone a una ragazza madre di lasciar solo il bambino, perché le è stato tolto il programma di assistenza ed è stata costretta ad accettare un lavoro sottopagato a oltre 100 chilometri di distanza. Poi, facendo riferimento all'Europa ("Die Zeit", n. 48, 21.11.2002, p. 43), egli si chiede: «Per voi europei i McDonald's e i film di Hollywood sono la quintessenza dell'americanizzazione! Ma voi non diventerete simili a noi per il consumo dei film di Spielberg e degli hamburger, lo diventerete se demolirete il vostro stato sociale o distruggerete il vostro sistema sanitario o sostituirete il vostro sistema fiscale, basato sulla solidarietà, con un altro che premia i ricchi. C'è una differenza enorme tra una società che abbandona i cittadini a se stessi e un'altra che offre a essi una rete di sicurezza sociale. Qui è in gioco la civiltà stessa: niente di più e niente di meno».
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