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    Predefinito Europa: un blocco continentale per l'Indipendenza

    http://www.rinascitanazionale.com/co...inentale.shtml

    Mercoledì 30 Aprile 2003 - 14:09 U. G.

    Europa: un blocco continentale per l'Indipendenza.
    Pochi giorni fa gli Stati Uniti, per voce del segretario di Stato Colin Powell (un aggressore criminale che i media e i “politici” occidentali continuano a definire “colomba”) hanno minacciato pesantemente la Francia, rea di "lesa maestà”, per non aver legittimato e approvato la delittuosa aggressione angloamericana all’Iraq, e nessun governo europeo ha avuto il coraggio di dire una sola parola in difesa di Parigi.
    Lunedì scorso, sia Blair che il guscio-vuoto Frattini hanno pesantemente criticato la riunione sull’eurodifesa convocata a Bruxelles dai quattro Paesi partners nell’Ue (Lussemburgo, Belgio, Germania, Francia: gli stessi critici per l’avvenuta invasione e occupazione di uno Stato indipendente).
    L’appiattimento italiano ai voleri della coppia Bush-Blair è tragico. Gli amici italiani di Blair
    — tutti: da D’Alema a Frattini, passando anche per quei “comunisti italiani” già complici della precedente aggressione alla Serbia, nel 1999 - farebbero bene a prendere atto di questo asse ormai consolidato che di fatto contrasta ogni ipotesi di reale autonomia europea per riproporre ad ogni nazione del nostro continente la prosecuzione di 58 anni da colonie.
    L’asse Parigi-Berlino, uno sviluppo di quell’ “asse carolingio” già proposto da Charles De Gaulle e che aveva ed ha come naturale conseguenza la costituzione di un “blocco continentale” europeo indipendente che comprenda la Russia, è l’unica strada per un’Europa finalmente liberata dall’occupazione militare (Nato), politica, economica e culturale atlantica.
    Questa iniziativa - che ribalterebbe il recente, squallido, compromesso-aborto di forza militare comune europea dipendente dalla NATO - è un contributo importante per battere il progetto di guerra preventiva e permanente angloamericana per assoggetare tutti i popoli del pianeta ad uno stesso Nuovo Ordine Mondiale.
    Occorre oggi, con pragmatico senso di real-politik, che ogni frazione geopolitica europea, ogni
    componente politica realmente determinata a tutelare il futuro d’Europa, della nostra più grande patria, si mobiliti in favore della nascita di un blocco continentale dei nostri popoli.
    Che, come è stato accertato, non può nascere certo sulla supina accettazione di un liberismo globalista sociale ed economico fondato su una “moneta” che soggiaccia perpetuamente al ricatto del Fmi, della Banca Mondiale e delle ondate speculative degli usurai di Wall Street e della City. Nè sotto una bandiera o un’aggregazione di Stati - la cosiddetta Unione Europea - che ricalca non a caso simboli e organizzazione delle originarie colonie di Sua Maestà britannica.

  2. #2
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    Predefinito L'Europa è uscita dalla storia ...

    EURO STAR
    Il Leviatano è emigrato in America

    La forza in campo DOPO LA CADUTA DELL'URSS, l'Europa si è costituita potenza economica e politica alternativa agli Stati uniti. Una verità che l'America non vuole accettare e che contrasta con l'uso della forza. Inferno anarchico di hobbesiana memoria cui Robert Kagan, nel suo ultimo libro, contrappone la pace perpetua di un paradiso kantiano ed europeo
    LUIGI CAVALLARO
    «È ora di smettere di far finta di credere che gli europei e gli americani vedano lo stesso mondo. Dirò di più: che vivano nello stesso mondo. Su una questione essenziale, quella del potere [...], le prospettive americane e quelle europee divergono. L'Europa [...] sta andando oltre il potere verso un mondo autonomo di leggi e regole, di negoziati e cooperazione transnazionale. Sta entrando in un mondo poststorico di pace e relativo benessere: la realizzazione della `pace perpetua' di Kant. Gli Stati Uniti invece restano impigliati nella storia a esercitare il potere in un mondo anarchico, hobbesiano, nel quale le leggi e le regole internazionali sono inaffidabili e la vera sicurezza, la difesa e l'affermazione dell'ordine liberale dipendono ancora dall'uso della forza». È l'incipit drastico e fulminante di Paradiso e potere (Mondadori, pp. 130, € 12) di Robert Kagan, senior associate presso un noto think-tank americano, il «Carnegie Endowment for International Peace», dove dirige - nomen omen - l'«U.S. Leadership Project». Libro smilzo eppure pesantissimo, imperdibile per chi voglia capire dove tira realmente il vento oltreoceano, ma anche - e soprattutto - per chi voglia avere una visione dello stato delle cose meno edulcorata (quando non illusoria) di quella restituitaci dall'irritante melassa degli «analisti» di casa nostra.

    La tesi di Kagan è semplice. Dal secondo dopoguerra a oggi, egli dice, in Europa si è costruito il miracolo di un tessuto di rapporti internazionali fatti di scambi commerciali, regole, procedure e organismi sovranazionali, che ha messo definitivamente al bando quella forza bruta che, fino ad appena cinquant'anni fa, aveva dettato legge nelle relazioni fra le varie nazioni europee, trascinandole periodicamente in guerre sanguinose che avevano finito con l'assumere dimensione planetaria.

    Senonché, nonostante un simile risultato sia da ascrivere indubbiamente a merito delle classi dirigenti europee, sovente - dice Kagan - si dimentica che la sua realizzazione è stata possibile perché esse hanno affidato agli Stati Uniti il monopolio della forza militare, sia in funzione preventiva (specie contro l'Unione Sovietica e, in generale, il «campo socialista»), sia in funzione repressiva.

    Ora, benché consapevoli del fatto che gli europei si comportavano come i più classici dei free-riders, dal momento che venivano a godere dei benefici della protezione militare americana senza, tuttavia, sobbarcarsene i costi, gli Stati Uniti hanno per lungo tempo ritenuto che l'esigenza di far fronte comune contro la minaccia comunista valesse lo sforzo di ergersi a gendarmi dell'intero Occidente. Ovviamente, sottolinea Kagan, ne avevano il loro bravo tornaconto. Ma è un fatto che «questo bisogno impellente, a un tempo strategico, psicologico e ideologico, di dimostrare l'esistenza di un Occidente unito e compatto è crollato insieme al Muro di Berlino e alle statue di Lenin a Mosca». E da allora, la percezione di quali fossero e come andassero risolti i problemi internazionali ha cominciato a differenziarsi fra le due sponde dell'Atlantico: gli Stati Uniti, che non erano mai usciti dal «mondo della storia» e, per di più, con la scomparsa dell'Unione Sovietica, si trovavano ad aver accresciuto enormemente la propria potenza relativa, hanno continuato a vederli come problemi risolvibili prevalentemente (se non solamente) con l'uso della forza militare, si trattasse dell'instabilità mediorientale o del terrorismo internazionale; gli europei, che non solo da quel mondo erano usciti ma - nonostante alcuni proclami inglesi e francesi - non avevano alcuna intenzione di rientrarvi, hanno invece pensato che il loro modello di cooperazione multilaterale fatto di diritto e denaro potesse essere esportabile anche al di là degli Urali e del Mediterraneo, verso popoli e nazioni ancora prigionieri della «logica hobbesiana».

    È evidente, incalza Kagan, che alla radice di una divergenza così marcata c'è l'enorme «divario di potenza» fra Europa e America: se è vero il detto secondo cui «a chi possiede un martello, tutti i problemi sembrano chiodi», è altrettanto vero - ironizza il nostro - che «a chi non possiede un martello, nessun problema sembra un chiodo». E il problema, a suo avviso, è proprio questo: che «la maggioranza degli europei non vede, o non vuol vedere, [...] che la loro uscita dalla storia è stata possibile dalla permanenza della storia degli Stati Uniti». E proprio per ciò l'Europa, non avendo «né la volontà, né la capacità di presidiare il suo paradiso per impedire che venga invaso non solo fisicamente ma anche spiritualmente da un mondo che non ha ancora accettato la regola della `coscienza morale'», si trova volente o nolente a «dipendere dalla disponibilità americana a usare la sua potenza militare per dissuadere o sconfiggere quanti nel mondo credono ancora nella politica della forza».

    Adattarsi all'egemonia dell'«iperpotenza» statunitense non è, tuttavia, senza costi. Gli Stati Uniti, che siano a guida repubblicana o democratica, non sono più disposti a esercitare il loro ruolo di sceriffo globale facendosi impacciare dai «lacci e lacciuoli» del diritto del multilateralismo internazionale: «devono a volte giocare secondo le regole del mondo hobbesiano, anche a costo di violare le norme del mondo postmoderno dell'Europa» e devono «rifiutare di sottomettersi ad alcune convenzioni internazionali che potrebbero ostacolarne la capacità di combattere con efficacia nella giungla» in cui si muovono «i Saddam e gli ayatollah, i Kim Jong Li e gli Jiang Zemin». Ciò rappresenta indubbiamente «un attacco all'essenza dell'Europa 'postmoderna', ai suoi nuovi ideali», giacché equivale a negare il principio «che tutte le nazioni, le forti non meno che le deboli, sono uguali di fronte alla legge e a questa soggette». E se questo principio basilare non viene rispettato «neppure da una superpotenza benevola come l'America, che cosa ne sarà dell'Unione Europea, la cui esistenza dipende dalla comune obbedienza alle leggi che si è data? Se il diritto internazionale non regnerà sovrano, l'Europa sarà condannata a tornare al passato?».

    La risposta di Kagan è chiara: se gli europei accetteranno il «doppio standard» (come raccomanda, ad esempio, Robert Cooper, ascoltato consigliere di Tony Blair), «la presenza di un'America forte, persino egemonica, [...] non sarebbe un prezzo troppo alto da pagare per il paradiso». Se invece continueranno a insistere sul «multilateralismo oltranzista» (non è un'espressione di Kagan, ma sono sicuro che la sottoscriverebbe), si condanneranno all'impotenza. «Dire che l'America non può `fare da sola' è un'affermazione superficiale», si sottolinea brutalmente nel libretto; «il problema oggi, se di problema si tratta, è che l'America può fare da sola» e «potrebbe arrivare il giorno, se non è già arrivato, in cui gli americani riserveranno ai proclami dell'Unione Europea la stessa attenzione che riservano a quelli dell'Asean o del Patto andino».

    Faranno bene i lettori a non farsi irritare dalla rozzezza di Kagan e, soprattutto, a non prenderlo sottogamba: la quarta di copertina del volume, che riporta gli entusiastici commenti al libro del New York Times e persino di un «moderato» come Henry Kissinger, suggerisce che egli esprime al momento il pensiero americano mainstream in materia di politica internazionale. E il motivo, in fondo, è semplice: ad onta dei toni baldanzosi da cowboy, questo libro è un eloquente manifesto della crisi di capacità egemonica dell'imperialismo americano; più esattamente, è l'«autocoscienza» di questa crisi, che viene espressa nella forma «mitica» di un contrasto fra il paradiso della pace perpetua kantiana e l'inferno dell'anarchia hobbesiana non certo perché Kagan anticipi tendenze ancora in germe, ma perché - come spiegarono Horkheimer e Adorno - la pretesa illuministica di «spiegare» si rovescia inevitabilmente in mitologia ogni qualvolta il pensiero è paralizzato dalla paura della verità.

    La verità che gli Stati Uniti non possono accettare è che la scomparsa dell'Unione Sovietica ha messo gli europei nella condizione di costituirsi in potenza economica alternativa ben prima della Cina, che non sarà in condizione di nuocere (se non con qualche polmonite anomala) prima dei prossimi quindici-vent'anni. Il punto, molto in sintesi, è il seguente: tramontato il sistema di Bretton Woods (e fuori dal regime di convertibilità essendo le valute del campo socialista), gli Stati Uniti, in cambio della protezione militare accordata ai paesi che si sono trovati sotto il loro ombrello, hanno goduto del privilegio incommensurabile di battere la moneta di riserva mondiale, ossia di un vero e proprio «signoraggio», che ha permesso loro di esportare altrove le contraddizioni del proprio modello d'accumulazione mediante la manovra del tasso di sconto e, soprattutto, di comprare merci (petrolio incluso) dal resto del mondo offrendo in cambio una moneta priva di valore intrinseco, in guisa da «tassare» gli altri paesi in misura pari al tasso di espansione della massa dei dollari in circolazione.

    Con la comparsa dell'euro, la praticabilità di questa strategia è entrata in crisi: per la prima volta da cinquant'anni, il dollaro si è trovato a dover competere sui mercati finanziari internazionali con una valuta che, almeno astrattamente, potrebbe scalzarlo dal ruolo privilegiato di «denaro mondiale» e consentire agli europei di impadronirsi (seppure in parte) dei privilegi del signoraggio, pur senza assumersi i costi legati all'egemonia militare. E di fronte a questo rischio, l'unica contromossa a disposizione degli Stati Uniti è quella di alimentare la conflittualità in Medio-Oriente e in quella vasta area compresa fra i Balcani, il Caucaso e l'Asia centrale, dove si va prefigurando una rete infrastrutturale di reti elettriche, gasdotti, oleodotti e terminali petroliferi che guarda ai «Tre Mari» (l'Adriatico, il Mar Nero e il Caspio): un'«economia della paura», secondo la felice espressione di Paul Krugman, è, infatti, l'unico stratagemma perché il dollaro possa mantenere quanto meno la funzione di «riserva di valore» e, per questa via, continuare ad alimentare il flusso di capitali in entrata di cui gli Usa abbisognano per finanziare il loro spaventoso disavanzo commerciale.

    Se così è, la ragione del successo di questo libro mediocre e cialtronesco sta nel fatto che, uno actu, esprime la coscienza della crisi dell'imperialismo americano e - proprio come un moderno Principe - indica senza infingimenti qual è la via per superarla. La predilezione per gli accostamenti mitici («gli americani vengono da Marte, gli europei da Venere»), unita alla rimasticatura delle più trite banalità dell'economia volgare, rende l'argomentazione di Kagan particolarmente seducente per un'intellettualità che è nuovamente pronta a trangugiare la versione reazionaria della nietzscheiana «volontà di potenza». Non c'è dunque da meravigliarsi se, fatte le debite differenze, in certi passi di Paradiso e potere si sente risuonare l'eco della Genealogia della morale, più esattamente il rammarico con cui Nietzsche constatava la vittoria del «ressentiment del gregge» sui «signori della terra» e la brutale chiarezza con cui egli esortava questi ultimi a recuperare la «libertà da ogni costrizione sociale» e a mostrarsi, «là dove comincia lo straniero, il mondo straniero, non molto migliori che belve scatenate»: il senso ultimo del libro di Kagan sta, infatti, nell'indicare all'America esattamente quel nuovo illuminismo che il «ribelle aristocratico» mostrò alla decadente borghesia europea agli albori del secolo breve («l'antico era l'uguagliamento di tutti, nel senso del gregge democratico. Il nuovo intende mostrare la via alle nature dominatrici; in quanto ad esse [...] è permesso tutto ciò che gli appartenenti al gregge non possono fare»).

    Hic Rhodus, hic salta, si potrebbe concludere. Questa è la situazione, e Kagan non è certo un antiamericano.

    il manifesto - 07 maggio 2003

 

 

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