Ernst Jünger “L’albero: quattro prose” Herrenhaus Edizioni, 2003, 10 Euro.

L’albero, le pietre, il novembre, il dicembre. Ovvero il regno vegetale e quello minerale, il cuore dell’autunno e la notte dell’inverno. Sono i motivi sviluppati nei quattro saggi poetici (o nelle saggistiche prose d’arte) che Ernst Jünger compose tra il 1959 e il 1966. Quattro divagazioni sui confini dei saperi che incrociando i territori della botanica, della mineralogia, della geografia e delle tradizioni poetiche, conducono l’autore alle rivelazioni che già si erano manifestate lungo filosofici percorsi. Epifanie del tempo, il Bios, il sogno, il simbolo, la morte.
Di Ernst Jünger (1895-1998) è apparso in Herrenhaus Edizioni “Tipo Nome Forma” (2002).

“In ogni lingua c’è un tesoro di parole che ne costituiscono la sostanza. Di tali parole vive la poesia. Come al rintocco di una campana, esse risvegliano nell’uomo un’aura di risonanze. La parola ‘albero’ è una di queste. L’albero è uno dei grandi simboli della vita, forse il più grande dei suoi simboli. Perciò in ogni tempo è stato ammirato, venerato e anche adorato da uomini e popoli. Venerabili apparivano l’altezza, la profondità, l’età plurisecolare, la figura maestosa, generosa di protezione.
I re persiani facevano adornare antichi platani di collane d’oro e nominavano guardiani al loro servizio. Nelle querce antichissime i Germani adoravano il padre dell’universo e nel frassino contemplavano il cosmo. Dalle fronde della quercia sempreverde i Druidi tagliavano il fogliame per il vischio con falci d’oro, per incoronarne le corna di tori bianchi; il tasso, l’albero dei morti, ombreggiava le tombe dei cimiteri celtici. Nello stormire dei boschi sacri a Dodona le sacerdotesse udivano la voce e il consiglio del supremo Zeus. E girando in tondo così lo lodavano:
Zeus fu, Zeus è, Zeus sarà, o tu potente Zeus!
Ancora oggi, in un mondo privo di dei, ci assale un trepido timore all’udire il vento che va e viene nel bosco, che ora increspa appena le foglie e poi risuona sugli alti fusti come sull’arpa celeste. Ecco che, toccato più profondamente che dagli accordi dell’organo, si risveglia in noi qualcosa di antico e da tempo dimenticato.”

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“Ma né costringere gli dei tra pareti né rappresentarli in forma umana credono sia degno della grandezza dei celesti. Hanno consacrato boschi e selve, e chiamano con nomi di dei quel segreto che vedono soltanto per virtù di reverenza.”
Tacito “La Germania” Ed. SE 1990,pag.23