Risultati da 1 a 2 di 2
  1. #1
    Qoelèt
    Ospite

    Predefinito Ecumenismo monastico : l'abominio della desolazione

    Un sito per riflettere dove porterà l'eresia ecumenista :

    http://www.monasticdialog.com

    senza parole...

  2. #2
    Qoelèt
    Ospite

    Thumbs down Un pò di sincretismo ascetico a edificazione delle anime...

    http://www.hinduism.it/ascesi.htm


    e per finire, una riflessione sullo spirito che muove il movimento ecumenico:


    Dal sito delle Missioni Consolata http://www.unimondo.org/MissCons/index.html

    RISPETTO E ASCOLTO

    Dal Concilio ecumenico Vaticano II, il dialogo costituisce la grande novità della missione: modifica i metodi e l'identità stessa del missionario; si traduce, a vari livelli, in ascolto, rispetto, conoscenza, collaborazione, scambio di valori ed esperienze religiose. Non è un lusso, ma una necessità, che scaturisce dalla storia d'amore che Dio ha intessuto
    con ogni individuo, popolo e religione.


    Il dialogo nasce dal comportamento di Dio stesso verso l'uomo. Egli entra in dialogo con ogni persona, per attuare la sua volontà di salvezza. Stabilisce una storia d'amore, non soltanto nei riguardi degli individui, ma anche dei popoli e delle religioni. A tale agire devono conformarsi la chiesa e ogni missionario, perché il protagonista della missione è lo Spirito (cfr. Redemptoris missio, 87).
    In tale prospettiva, l'enciclica di Paolo VI Ecclesiam suam (1964) considera vari livelli di dialogo: con gli stessi membri della chiesa, con tutti i cristiani, con i seguaci di altre religioni, con ogni uomo (inclusi l'ateo). Il dialogo scaturisce dal rispetto per l'altro e cerca non solo i valori in lui presenti, ma anche l'azione che lo Spirito vi esercita (cfr. Redemptoris missio, 28-29).
    Questo influenza tutta l'attività missionaria, che deve partire dalla situazione della gente, sia per ragioni metodologiche che teologiche. Infatti nessuna persona e nessun gruppo sono campi incolti, privi di cultura e grazia divina. Lo Spirito precede i missionari, facendo già fruttificare i suoi doni. Il missionario deve scoprire questa presenza di salvezza, per cooperare nel far crescere la novità del vangelo. Questo non indebolisce l'urgenza missionaria, ma la qualifica, esigendo discernimento nei confronti di persone e gruppi.
    Il metodo dialogico deve manifestarsi in ogni azione missionaria e pastorale. Con esso può emergere una chiesa evangelizzatrice, inculturata, sacramento di salvezza, strumento di unità. Questo ha ripercussioni anche sulla convivenza civile: rende il mondo più fraterno.
    In tale contesto globale si inserisce il dialogo ecumenico e quello interreligioso. Per "dialogo" non si intende solo il conversare, ma l'insieme dei rapporti fra persone e gruppi per conoscersi, apprezzarsi, collaborare, arricchirsi e, così, promuovere una maggiore unità tra popoli e religioni (cfr. Gaudium et spes, 92).

    DALLA CONCORRENZA ALL'ECUMENISMO

    La storia delle missioni ha conosciuto tensioni e lotte tra i missionari delle varie chiese. C'è stata una concorrenza, per arrivare primi in un posto e convertire le popolazioni. Una situazione paradossale.
    Se ne accorsero per primi i cristiani non cattolici. Da questa costatazione sorse il movimento ecumenico, che diede vita nella fine del secolo XIX alle conferenze missionarie, ai movimenti ecumenici pragmatici (come Vita e azione: 1937) o teologici (come Fede e costituzione: 1927), per arrivare nel 1948 al Consiglio ecumenico delle chiese (Cec). Questo organismo ha svolto molteplici attività positive. Ha conosciuto pure delle crisi, come quella del movimento evangelico, negli anni '70, che rimproverava al Cec di interessarsi più del sociale che dell'evangelizzazione.
    Tra i cattolici l'ecumenismo prese forme diverse, che vanno dalle chiese uniate (dal secolo XVI) fino ad attività che mirano all'unità delle chiese e non solo all'integrazione degli individui. Anche se non mancarono gli antesignani (come Paolo Manna), l'ecumenismo cattolico ebbe pieno riconoscimento con il decreto Unitatis redintegratio del Concilio Vaticano II e con l'istituzione del Segretariato per l'unità tra i cristiani (1960).
    Nel 1995 Giovanni Paolo II, con l'enciclica Ut unum sint, fece il punto sul cammino ecumenico percorso e su quello da fare. I successi più consistenti si sono registrati a livello teologico e bilatelare, cioè tra la chiesa cattolica e un'altra chiesa tradizionale. Oggi sta facendosi strada pure un ecumenismo di base, come nell'Assemblea ecumenica europea di Graz (1997).
    La presenza delle comunità è essenziale, anche se difficile, a causa di pregiudizi nazionalisti e storici. Condizione essenziale per fare ecumenismo è la fede nella divinità di Cristo salvatore e nella Trinità.

    LA MINACCIA DELLE SÈTTE

    Sul fronte missionario l'impegno ecumenico ha mutato tante cose: i rapporti fra le chiese sono migliorati, eliminando mutue concorrenze; si sono sviluppate numerose forme di collaborazione circa la promozione umana e la pace. Né sono mancate iniziative religiose, come le visite reciproche alle comunità: in Indonesia, ad esempio, il sacerdote o il pastore in visita alle comunità isolate incontra pure quelle dell'"altra parte". Si è sviluppato l'ecumenismo della preghiera e una conoscenza più vera degli altri credo.
    Nello stesso tempo, è sorto il proselitismo destabilizzante delle s&egravette e chiese evangelico-carismatiche. La Redemptoris missio riassume la situazione così: "L'attività ecumenica e la testimonianza concorde a Gesù Cristo dei fedeli appartenenti a differenti chiese e comunità ecclesiali hanno già recato abbondanti frutti. Ma è sempre più urgente che essi collaborino e testimonino insieme in questo tempo nel quale s&egravette cristiane e paracristiane seminano la confusione con la loro azione. L'espansione di queste s&egravette costituisce una minaccia per la chiesa cattolica e per tutte le comunità ecclesiali con le quali essa intrattiene un dialogo. Ovunque possibile e, secondo le circostanze locali, la risposta dei cristiani potrà essere anch'essa ecumenica" (n. 50).
    Il giudizio preoccupato e alquanto difensivo riflette l'esperienza dei missionari sul campo. D'altra parte, i proselitismi hanno favorito un ripensamento dell'azione pastorale, intensificando l'identità ecclesiale dei gruppi e promuovendo di più le piccole comunità, l'attenzione ai bisogni della gente e l'inculturazione.
    Questa difficile situazione mostra il legame tra missione ed ecumenismo. Mancando questo, la missione è bloccata.

    DIALOGO INTERRELIGIOSO

    Il dialogo con le religioni è quello che influisce maggiormente sulla missione: incide sull'intera metodologia, che deve partire dalla vita della gente; allarga anche le finalità della missione, che deve evangelizzare per convertire e fondare la chiesa, ma anche estendere i valori del vangelo oltre i confini ecclesiali ed essere per tutti forza trainante verso il regno finale.
    Il dialogo interreligioso può diventare, quindi, attività missionaria specifica: è complementare all'annuncio e alla formazione di comunità. In alcuni casi è la sola attività possibile (cfr. Redemptoris missio, 57). Questa visione del dialogo, come attività missionaria specifica, autonoma e completa, è nuova.
    Ricordo che il fondatore del mio istituto, sant'Eugenio de Mazenod, ritirò i suoi missionari dall'Algeria, perché era loro proibita l'evangelizzazione diretta dei musulmani. Oggi il dialogo consente una presenza missionaria diversa, aprendo le comunità cristiane al contesto culturale e religioso.
    In Asia, per esempio, i cristiani vivevano quasi in un ghetto, estraniati dalla loro cultura. In Africa si costituivano villaggi cristiani distinti da quelli tradizionali e, in particolare, il catecumenato era organizzato in luoghi separati. Ora il contatto con i credenti di altre religioni permette una testimonianza maggiormente permeabile e una progressiva inculturazione.
    Il dialogo ha avuto degli antesignani, specie in Asia. Ma è con il documento Nostra aetate che è stato ufficializzato dalla Santa Sede. Paolo VI e Giovanni Paolo II ne sono stati promotori convinti attraverso viaggi, incontri con delegazioni di altre religioni e l'insegnamento. Il magistero insiste su una duplice esigenza del dialogo: apertura agli altri e approfondimento della propria identità cristiana.
    Un ruolo importante di promozione ha avuto il Segretariato per i non cristiani (1964), oggi Consiglio pontificio per il dialogo interreligioso. Nei primi 20 anni ha organizzato incontri fra le varie tradizioni religiose, ha promosso tra i cattolici la conoscenza delle altre religioni e i fondamenti del dialogo stesso. Negli ultimi 15 anni ha realizzato incontri sul piano locale o coinvolgendo le singole chiese.
    Però la grande svolta si è avuta con la giornata di preghiera per la pace di Assisi (1986), che ha coinvolto le chiese locali sia nella preparazione sia nell'accompagnamento delle delegazioni delle varie religioni. I documenti chiarificatori, quali Dialogo e missione (1984) e Dialogo e annuncio (1990), hanno avuto un impatto teologico e pastorale che si riflette anche nel magistero più solenne, come l'enciclica Redemptoris missio.

    IL DIALOGO DELLA VITA E DELLA COLLABORAZIONE

    Gli incontri non sono l'unico dialogo possibile, né il più importante. L'esperienza ne mostra una grande varietà di espressioni.
    Il dialogo più comune è quello della gente nelle situazioni ordinarie dell'esistenza. È il "dialogo della vita". Si pratica nel rispetto, instaurando rapporti costruttivi, non malgrado la diversità religiosa, ma grazie ad essa. Si può così conoscere la profondità dell'esperienza altrui (quindi della sua religiosità), fino a diventare testimonianza reciproca.
    Il "dialogo della vita" (necessario nel pluralismo attuale) esige l'approfondimento della propria identità religiosa, per non cadere nel relativismo. In Laos, promuovendo il dialogo durante gli anni '70, cercavo non solo di sensibilizzare le comunità cristiane in forma teorica, ma di organizzare anche conversazioni tra cristiani e buddisti.
    Un'altra forma è il "dialogo della collaborazione" tra gente di varie fedi, per favorire progetti comuni di promozione umana, mutua comprensione, pace. Esso può realizzarsi tra gruppi alquanto specializzati nell'ambito scolastico, sanitario o agricolo; oppure tra persone comuni, per risolvere problemi contingenti. La collaborazione è più efficace quando le appartenenze religiose non sono "messe tra parentesi" o nascoste, ma sottolineate.
    Il dialogo della collaborazione integra la dimensione religiosa con i problemi della vita e apre le religioni al bene comune. Ho constatato, in Senegal, come la cooperazione in progetti agricoli e idrici abbia permesso a comunità cristiane minoritarie di essere riconosciute e rispettate dalla maggioranza musulmana. Tale forma di dialogo esige degli iniziatori o animatori. I cooperatori laici allo sviluppo possono avere un ruolo propulsore determinante.

    IL DIALOGO DELL'ESPERIENZA RELIGIOSA

    Questo dialogo si manifesta nello scambio delle proprie esperienze religiose. Può esprimersi in forme solenni (come, ad Assisi, nella preghiera per la pace) o in incontri di meditazione, come avviene in India e Giappone. Ma può manifestarsi anche in gesti semplici, in occasione di nascite, matrimoni e funerali... o in segni di rispetto per quanto è sacro. Al riguardo, riporto due fatti personali.
    In Laos, per conoscere il buddismo vissuto, mi misi alla scuola di un monaco-maestro e praticai un periodo di concentrazione-meditazione nel suo centro. Alla fine di una settimana, il monaco mi chiese di manifestare la mia reazione. Risposi che l'esperienza del "vuoto" mi aveva avvicinato a Dio, realtà completamente diversa da ciò che è limitato e creato. Il maestro rimase impressionato. Mi chiese di testimoniare l'esperienza alle centinaia di laici buddisti che si riunivano, la domenica, seguente per una meditazione.
    Da allora fui invitato ogni mese al ritiro dei laici buddisti, dando sempre una versione cristiana al tema svolto dal maestro. Questo durò due anni, finché il governo comunista espulse noi missionari dal Laos e confinò, dopo qualche tempo, il monaco in "un campo di rieducazione".
    In questo clima, nel 1974, organizzai un seminario di studio e pratica dei metodi di meditazione sia buddisti sia cristiani. Vi partecipò una cinquantina di persone di entrambe le religioni. Ne risultò un apprezzamento della preghiera meditativa nelle due tradizioni. Alcuni cristiani (e perfino missionari) adottarono tale forma di meditazione.
    Talvolta il dialogo della collaborazione e dell'esperienza favoriscono quello della vita.
    Nella diocesi senegalese di Kaolak, soprattutto negli anni '80, i progetti di sviluppo agricolo coinvolsero cristiani e musulmani. Si costituirono gruppi interreligiosi, ispirati alla metodologia della Gioc. Gli incontri formativi avevano sempre dei momenti centrati sull'esperienza di Dio; nella prima parte si condivideva la fede comune e, nella seconda, i partecipanti cristiani e musulmani si separavano per approfondire gli aspetti specifici.

    IL DIALOGO TEOLOGICO

    È importante per la mutua conoscenza. Può realizzarsi in incontri tra credenti che nutrono fiducia reciproca. È il dialogo più efficace, perché è discreto e non obbliga a "precauzioni sociali", talvolta pesanti fra i musulmani. È così che la vita si rivela in profondità. Ho avuto esperienze significative non solo con i buddisti, ma anche con i musulmani, che si sarebbero ben guardati di esprimere in pubblico certe verità.
    Il dialogo teologico avviene pure con incontri formali, più o meno pubblici, sia tra esperti sia tra autorità: ha anche influsso sociale. I contenuti sono generalmente in linea con quanto si professa ufficialmente e sono "politicamente corretti", soprattutto se vi sono tensioni. I musulmani sono i più attenti a questo dialogo, perché ha sempre valenze politiche.
    Il dialogo teologico è stato promosso dal Consiglio pontificio per il dialogo interreligioso e dal Consiglio ecumenico delle chiese, da università e gruppi spontanei di specialisti. Non sono mancate le esperienze negative, come è avvenuto nel 1974 durante la conferenza cristiano-islamica di Tripoli. Ma vi sono stati anche risultati positivi: le persone si conoscono; si favoriscono decisioni più aperte da parte delle autorità (è avvenuto in Libia e altrove); si approfondiscono aspetti di fede e prassi religiosa.
    Il "dialogo ufficiale tra autorità religiose" ha un valore simbolico e, di regola, ne promuove altre forme. Esso si compie, per esempio, nei viaggi del papa, raggiungendo talora forme spettacolari (come in Marocco nel 1986, allorché Giovanni Paolo II parlò a 80 mila giovani musulmani). Più spesso si attua sul piano locale, con visite reciproche tra capi e rappresentanti di varie religioni, specie durante feste o in occasioni speciali delle comunità.

    IL DIALOGO INTERIORE

    L'incontro riesce meglio, quando esiste il "dialogo interiore".
    Si sa che le persone e comunità sono influenzate dall'ambiente, anche nel vivere la loro fede, specialmente se sono gruppi minoritari o hanno abbracciato da poco una nuova religione.
    Circa i cristiani, bisogna ricordare che, se giapponesi, restano condizionati da un atavico buddismo-shintoismo. Il problema si presenta anche per i fedeli che provengono dalla religione tradizionale africana.
    Per questo è necessario il "dialogo interiore" di ogni persona con se stessa, con le sue radici culturali e religiose, per chiarire la propria identità cristiana. Questo può essere fatto più facilmente da chi ha maturità e capacità di valutazione.
    Il dialogo interiore può essere anche comunitario, cioè di un intero gruppo. Esso diventa una necessità per inculturare la fede in un dato contesto. Ma in tale campo siamo ancora agli inizi.
    Ogni dialogo ha "risvolti culturali". Non c'è religione che non sia influenzata dalla cultura, e viceversa. Non esiste, pertanto, un buddismo puro e universale, anche se ci sono verità accettate da tutti. Di fatto esiste un buddismo lao, cambogiano, srilankese, ecc. Ognuno è sintesi e simbiosi tra cultura locale e "via buddista". L'islam stesso, che cerca di diffondere con il corano una cultura unificante (araba), manifesta delle peculiarità. Si pensi all'islam africano, con le sue confraternite. Ciò vale maggiormente con le religioni tradizionali africane, che impregnano le culture etniche.
    Non esiste, quindi, dialogo interreligioso valido che non sia pure interculturale.

    LE SFIDE DEL DIALOGO

    Una delle tante sfide che il dialogo deve affrontare riguarda il suo mutare, secondo le situazioni. Due casi, ancora sotto i nostri occhi, chiariscono tale aspetto.
    In Algeria e nel sud delle Filippine i rapporti tra cristiani e musulmani erano ottimi fino alla metà degli anni '80. Poi la situazione si è rovinata... Ciò dimostra come l'evolversi del dialogo non sia lineare. Bisogna sempre attendersi delle variazioni, legate anche a situazioni sociopolitiche.
    Il dialogo può diventare un "atto ecumenico", cioè essere attuato in comune accordo con le altre chiese cristiane. Tale intesa avviene al livello più alto, tra le istanze della chiesa cattolica e del Consiglio ecumenico delle chiese, che s'incontrano annualmente. Da queste consultazioni sono nati documenti orientativi comuni circa la preghiera e i matrimoni misti; sono stati organizzati incontri interreligiosi. A livello continentale (per esempio in Asia), c'è collaborazione nella riflessione. A livello di base, forse, il rapporto è meno comune e più difficile.
    Il dialogo, tuttavia, non si fa con i "sistemi", ma tra "individui". Per questo si esige una costante formazione personale, per chiarire la propria identità e trovare vie di rispetto, ascolto e collaborazione con gli altri. Inoltre il dialogo esige una spiritualità progressiva, nutrita da valori e ascesi. Solo così i metodi porteranno frutti.

 

 

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