da L'Unita'

Reclusi senza legge, il girone dei suicidi nel limbo di Guantanamo.


Shah Muhammad ha appena vent’anni e quattro tentati suicidi alle spalle, per la disperazione di finire inghiottito in un buco nero senza ritorno. Diciotto mesi chiuso in gabbia, senza nessuno con cui poter parlare. Pochi minuti a settimana per sgranchirsi le gambe, meno ancora per farsi una doccia. E il sole, alto, cocente, che non dà tregua. Diciotto mesi a Guantanamo nel campo «X Ray», tra i 680 presunti superterroristi rastrellati in Afghanistan, gli uomini che secondo l’amministrazione Bush potrebbero svelare le trame di Al Qaeda, ma che per ora sono confinati un limbo giuridico dove non hanno né diritti né difesa. E, per assurdo, nemmeno un capo d’imputazione.

Muhammad martedì che è tornato a casa con una patente d’innocenza parla di quei mesi a Guantanamo (e il New York Times gli dedica un ampio reportage) un incubo che temeva dovesse durare per sempre. «Il suicidio non è ammesso dall’islam, ma era così difficile vivere lì - racconta -. Un sacco di persone ci hanno provato. Mi trattavano da colpevole, ma io ero innocente».

Un portavoce del campo di prigionia nella base cubana conferma che finora ci sono stati 28 tentati suicidi, commessi da 18 persone. Nessuno è morto, solo Mish al-Hahrbi, un insegnante saudita - disperato per l’assoluta incertezza sulla sua sorte - ha subito un grave danno cerebrale in seguito ad un tentativo di impiccagione.

L’incertezza, è questa la malattia che divora i detenuti di Guantanamo, uomini senza tutela e senza status: per lo più sono stati catturati nel corso di un conflitto, ma per l’amministrazione americana non sono prigionieri di guerra, non hanno diritto alla Convenzione di Ginevra. Sono su una base Usa extraterritoriale, dove non arriva la competenza della giustizia ordinaria. «Combattenti illegali», li chiamano, senza specificare sulla base di quale principio sia stata stabilita la loro presunta illegalità. Principi semplicemente non ce ne sono, se non quello della forza di chi li tiene in gabbia.

«La preoccupazione di tutti è su quanto potrà durare tutto ciò - racconta Suleiman Shah, 30 anni, un ex talebano catturato vicino a Kandahar e di recente rilasciato -. La gente diventa matta a forza di ripetersi: “Quando ci lasceranno andare? Ci dovrebbero portare davanti ad una Corte”. Molti hanno smesso di mangiare». Ogni giorno che passa cresce la paura che quel confine di filo spinato sarà l’ultimo su cui poseranno lo sguardo. E con la paura, cresce la disperazione.

Gli ufficiali sanitari del campo ammettono che il 5 per cento dei detenuti soffre di depressione e viene trattato con farmaci specifici. Ma anche gli psichiatri della base hanno difficoltà a collegare il malessere e i tentati suicidi al clima di incertezza e alle condizioni di vita dei detenuti.

Nessuno dei prigionieri liberati né le indagini sul campo della Croce rossa e di Human Rights Watch parlano di violenze fisiche. Il regime del campo è spartano, solo con lo sciopero della fame i detenuti hanno guadagnato il diritto settimanale a cinque minuti di doccia e a dieci minuti di passeggiata in un recinto lungo una decina di metri, così come hanno dovuto guadagnarsi il diritto alla preghiera. Dopo cinque mesi passati all’aperto, hanno avuto camerate con vere pareti e un letto, e acqua corrente, invece di un secchio. Ma quello che pesa davvero è l’«enorme stress psicologico» e i troppi punti interrogativi appesi al loro futuro.

Muhammad è pakistano, catturato sui monti dell’Afghanistan, nel gennaio 2002 è tra i primi ad inaugurare le gabbie per polli allestite nella base cubana. Per mesi è stato recluso con detenuti che parlavano solo arabo, una lingua che lui non conosce e che lo faceva sentire ancora più in gabbia nella sua solitudine. Ha tentato di uccidersi quattro volte, intrecciando lenzuola per appendersi al soffitto. L’hanno imbottito di psicofarmaci contro la sua volontà, ma è tornato ad infilare la testa in un cappio. Dopo l’ultima volta ha minacciato di tentare ancora se l’avessero sedato di nuovo. Ora Muhammad vuole chiedere i danni, gli americani - dice - gli hanno spiegato che se uno è innocente sarà risarcito. «Mi hanno tenuto per 18 mesi, dovrebbero darmi qualche compenso. Mi hanno detto che sono innocente, ma non mi hanno chiesto nemmeno scusa».