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    Predefinito Gli Indoeuropei:chi erano?

    "Sarà qualcun'altro a ballare, ma sono io che ho scritto la musica. Io avrò influenzato la storia del XXI secolo più di qualunque altro europeo".

    Der Wehrwolf

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    Predefinito

    Le religioni degli Indoeuropei, dei Celti e dei Germani
    Stefano Giuliano



    Introduzione
    La ricerca bibliografica riguarda le pubblicazioni apparse, a vario livello, nel panorama editoriale italiano, sugli Indoeuropei, sui Celti e sui Germani, a partire dagli anni ’50. A queste si sono volute aggiungere le pubblicazioni concernenti i Finni, i quali, pur essendo di altra etnia, si situano in un rapporto di scontro/incontro con la cultura antico-germanica.

    Con i termini Indoeuropei o Indogermanici si suole indicare una comunità di cultura, religione, etnia, lingua, che, tra il 4500 e il II-I millennio a.C., a ondate successive, avrebbe colonizzato gran parte dell’Asia centro-meridionale e dell’Europa. Da essa si sarebbero originati i c.d. “popoli storici”: Germani, Celti, Greci, Romani, Indiani vedici, Iraniani, ecc. Sebbene l’unità linguistica indoeuropea (Ursprache) sia stata ricostruita solo attraverso il lavoro degli studiosi e il problema della patria di provenienza (Urheimat) permanga aperto – sono state proposte con varia fortuna: l’India, l’Asia minore, i Balcani, le regioni baltiche, la Russia meridionale, ecc. –, gli elementi che permettono di giustificare tale assunto sono notevoli. Tra questi risaltano le parentele linguistiche, testimoniate dai numerosi vocaboli aventi l’etimo in comune e che investono diverse aree d’interesse (le istituzioni, la famiglia, l’agricoltura, ecc.), e l’ideologia tripartita, ossia la suddivisione della realtà esistente all’interno di tre funzioni specifiche: sacrale, guerriera, produttiva, e che si ritrova, consapevolmente come tale, soltanto presso i popoli di stirpe indoeuropea.

    I Celti, divisi in varie comunità, abitarono in una vasta area dell’Europa dalla penisola iberica alla Germania, all’Irlanda, all’Italia settentrionale, ai paesi danubiani. Costoro, conosciuti alle fonti classiche con i nomi di galati, galli e keltoi, ebbero la massima espansione culturale e militare a partire dai periodi detti di Hallstatt (I millennio-VII a.C.) e, soprattutto, La Tène (VI a.C.-II a.C.) – dal nome delle località dove sono stati rinvenute numerose tombe e reperti di squisita fattura. Essi, tra V e II sec. a.C., penetrarono, in Italia (dove fondarono le città di Torino e Milano e attaccarono Roma), in Grecia (dove saccheggiarono il santuario di Delfi), e in Asia minore (dove crearono un regno e dove si fecero conoscere soprattutto come mercenari), per poi declinare stretti tra la potenza romana e le bellicose tribù germaniche.

    I Germani, a loro volta, stanziati nei territori approssimativamente compresi tra la Svezia meridionale, la Norvegia meridionale, la Danimarca e la Germania fecero la loro comparsa intorno al I millennio a.C. Essi, sulla base di criteri linguistici e geografici – peraltro non più unanimemente accettati – sono generalmente distinti in Germani orientali (Cimbri, Teutoni, Goti, Burgundi, Gepidi, Vandali, ecc.), Germani occidentali (Angli, Sassoni, Juti, Alamanni, Bavari, Frisoni, Longobardi, Franchi, Svevi, ecc.), e Germani settentrionali (Danesi, Svedesi, Norvegesi) più tardi meglio noti come Vichinghi. Le popolazioni germaniche orientali e occidentali entrarono ben presto in contatto con le civiltà latina e celtica (il primo a descriverne usi e costumi fu il celebre navigatore greco Pitea nel IV sec. a.C.), subendone l’influsso. Costoro, inoltre, com’è noto, parteciparono a quel grande movimento di popoli originatosi nelle steppe asiatiche, conosciuto sotto il nome di Völkerwanderungen, che ebbe il suo massimo sviluppo tra III e VI sec. d.C. e che, tra i suoi esiti ultimi, condusse alla formazione dei c.d. regni romano-barbarici. I Germani settentrionali, residenti in aree periferiche, situate più a nord e, dunque, meno esposte all’incontro/scontro con altre culture, preservarono maggiormente a lungo i propri tratti distintivi, affacciandosi all’onore delle cronache solo verso l’VIII-XI sec. d.C.



    L’idea di una catalogazione delle opere pubblicate in Italia sugli Indoeuropei, sui Celti, sui Germani, è nata dall’osservazione del crescente interesse verso tali argomenti recentemente sviluppatosi nel nostro paese. Se tale fenomeno è abbastanza naturale nei luoghi d’origine (Regno Unito, Irlanda, Germania, Scandinavia, ecc.), legandosi a fenomeni di riscoperta della propria storia nazionale, per converso, esso appare di gran lunga più eclatante in Italia, paese notoriamente dominato dalla cultura classica. Da noi, infatti, in passato, le predette culture avevano ricevuto, generalmente, scarsa attenzione oppure erano state liquidate come secondarie rispetto alle civiltà mediterranee – tanto è vero che gli studi dedicati ai Celti e ai Germani o, in genere agli antichi nordici, risalenti alla prima metà del ‘900 sono davvero pochi.

    Scopo dichiarato della ricerca, dunque, è avviare, attraverso la disamina delle pubblicazioni italiane sull’argomento, una prima, seppure sommaria, stima dell’impatto che la riscoperta di queste culture sta avendo sulla nostra. Ovvero, in altre parole, valutarne, complessivamente, l’entità, i possibili risvolti, le implicazioni ultime.

    L’interesse maturato intorno ai popoli nordeuropei si riscontra a vari livelli. In primo luogo le fonti, cioè l’edizione critica dei poemi mitologici, delle saghe eroiche, delle leggende, nonché delle fiabe e dei racconti facenti parte il folklore popolare. In secondo, le pubblicazioni di carattere scientifico e le traduzioni di saggi di alcuni studiosi di fama. Tali studi vanno dall’interpretazione delle forme religiose, all’analisi di ritrovamenti archeologici, all’esposizione dei fatti storici, alla descrizione degli usi e dei costumi, ecc. Quindi, le pubblicazioni di tipo esoterico o “sapienziale”, che propongono sistemi di conoscenza astrologica, suggerimenti terapeutici, pratiche magiche, modelli di vita alternativa, ecc. Ancora, la diffusione di testi divulgativi per ragazzi, corredati di illustrazioni, mappe, ecc. Infine, la presenza nella rete Internet di numerosi siti di associazioni culturali, case editrici specializzate, riviste, gruppi neo-pagani, ma anche di semplici appassionati, che si richiamano esplicitamente ai Celti e/o ai Germani.

    Le motivazioni di una tale espansione sono molteplici e occorrerebbe un’analisi specifica per poterle adeguatamente sviscerare. Nondimeno, si possono segnalare, seppure sinteticamente, alcuni fattori che hanno di certo inciso nella espansione, in Italia, dell’interesse intorno a tali tematiche.

    Un primo fattore importante può essere individuato nel grande successo editoriale ottenuto da un testo di letteratura fantasy come Il Signore degli Anelli di J.R.R. Tolkien. Si tratta, com’è noto, di un libro che affonda le proprie radici proprio nei miti nordici, e che, nonostante la tardiva pubblicazione nel nostro paese (la prima pubblicazione inglese è del 1954, cui fecero seguito, in pochi anni, le traduzioni nelle principali lingue europee; quella americana che ne decretò il boom mondiale è del 1965; quella italiana solo del 1970), dovuta a motivazioni di carattere ideologico piuttosto strumentali, ha anche qui stimolato mode, proposto modelli di comportamento, suscitato attenzione verso quelle che erano le fonti primarie dell’ispirazione dello scrittore oxoniense, raggiungendo, nel 1999, la trentatreesima edizione. Sulla scorta di Tolkien, grazie all’opera di curatori e studiosi come G. de Turris, S. Fusco, A. Voglino, G. Pilo, ecc., sono apparsi in Italia, stampati da case editrici specializzate nel settore (Fanucci, Nord, Solfanelli) o in collane apposite (Urania Fantasy della Mondadori, Compagnia del Fantastico della Newton Compton, ecc.), una messe di libri, per lo più di autori di lingua inglese, nei quali si rielaboravano miti e leggende antiche e medievali e si reinterpretavano momenti ed eventi del passato. Molti di costoro, soprattutto nell’arco degli anni ’80, hanno conseguito un buon riscontro di vendite e ottenuto una certa notorietà. Basta pensare a M. Zimmer Bradley, a U. Le Guin, a D. Eddings, a T. Brooks, a H. Turtledove, a M. Stewart ma, soprattutto, a R. E. Howard, il creatore di Conan il barbaro, dal quale sono stati tratti film di cassetta, fumetti, cartoni animati, album di figurine e finanche bambolotti di plastica. Tra i narratori tradotti che hanno preso specifico riferimento al mondo dei Celti e dei Vichinghi, si possono ricordare P. Anderson (La spada spezzata, La guerra degli dei), H. Harrison (La via degli dei, Il trono di Asgard, ecc.), M. Llywelyn (Il leone d’Irlanda, L’epopea di Amergin, ecc.), nonché il celebre autore di best-seller M. Crichton (Mangiatori di morte). La letteratura fantasy è stata a lungo ritenuta di pura evasione o di scarsa qualità e, dunque, a torto, disdegnata dalla critica accademica. Eppure, come testimonia tuttora l’ampio consenso di pubblico, essa, attraverso la riformulazione di figure e temi mitici, ha saputo offrire una risposta alternativa ad esigenze collettive diffuse che vanno dal rifiuto dei valori o pseudo tali della società moderna, al desiderio di sfuggire la banalità del quotidiano, alla riscoperta del sacro, e così via, svolgendo, inoltre, un ruolo considerevole nell’incentivare la volontà di conoscenza e approfondimento del ricco patrimonio leggendario nordeuropeo[1].

    Un altro coefficiente significativo, anche se, ovviamente, ad uno stadio meno popolare rispetto a Tolkien, è sicuramente rappresentato dall’opera di G. Dumézil che ha profondamente rinnovato gli studi relativi agli Indoeuropei a livello internazionale. Tradotto in Italia presso i maggiori editori (“Gli dèi dei Germani”, Adelphi 1974; “Storia degli Sciti”, Rizzoli 1980; “Mito ed epopea”, Einaudi 1982; “Gli dei sovrani degli Indoeuropei”, Einaudi 1986; ecc.), Dumézil, nonostante le resistenze incontrate presso taluni studiosi di chiara fama come A. Momigliano e C. Ginzburg, ha segnato una ragguardevole svolta nel generale incremento d’interesse verso le tematiche storico-religiose. Egli, infatti, ha fornito un’efficace e raffinata interpretazione dei miti dei popoli in questione, miti che, come si è accennato in precedenza, erano stati per troppo tempo giudicati oscuri ed enigmatici se non, addirittura, il prodotto di culture inferiori.

    Un terzo possibile elemento può essere, poi, rintracciato nella celebre mostra di Palazzo Grassi a Venezia dal titolo: “I Celti: la prima Europa”. Questa si tenne dal 24 marzo all’8 dicembre 1991, presentando oltre 2000 preziosi reperti provenienti da 200 diversi musei di tutto il mondo. La mostra ottenne enorme successo di pubblico – circa 800.000 visitatori –, attirando i riflettori dei mass-media sull’argomento, e creando un notevole indotto (articoli dedicati ai Celti su quotidiani e magazine; servizi nei telegiornali nazionali e locali; documentari televisivi; pubblicazioni; ecc.).

    Infine, vale attirare l’attenzione su due aspetti tutt’altro che marginali. Il primo è rappresentato dallo spostamento degli itinerari turistici verso paesi che, almeno fino a pochi anni fa, erano poco frequentati dagli italiani quali la Norvegia, la Svezia, l’Irlanda. Effettivamente, i turisti nostrani si sono trovati a contatto con culture e tradizioni diverse e fortemente sentite, le quali hanno esercitato un notevole fascino e che, per molti, si è tradotto nel desiderio di migliorarne la conoscenza[2]. Il secondo dal favore ottenuto da artisti la cui produzione musicale si rifà esplicitamente, nelle tematiche e nelle sonorità, al mondo celtico, dalle folk-bands irlandesi storiche come i Chieftains e i Dubliners, ai musicisti di orientamento, più o meno vagamente, new age come Hevia e Loreena Mc Kennitt, o tradizionalista come Alan Stivell e Mary O’Regan. Nei loro suggestivi brani l’uso di strumenti peculiari, come l’arpa celtica, la cornamusa, il tin whistle, il bodhran, il flauto irlandese, ecc., il ricorrere di riferimenti alla mitologia, alle leggende, al folklore, al paesaggio nordico, nonché l’adozione di simboli arcani come il triskel, i caratteri ogamici, ecc., ha indotto i fans più sensibili ad approfondirne le fonti d’ispirazione.

    Naturalmente, la riscoperta della religione degli antichi popoli nordeuropei ha un significato complessivo che travalica fenomeni letterari clamorosi tipo Tolkien, scientifici tipo Dumézil, o di massa tipo la mostra di Palazzo Grassi, le nuove mete turistiche ed i successi discografici. In un paese dominato da sempre dalla cultura classica nelle sue varie forme e/o trasposizioni, l’emergere di queste culture altre, rappresenta un venire alla luce di istanze psicologiche latenti che, da un certo momento in poi, hanno cominciato ad affiorare in maniera sempre più insistente e prepotente. Tale affiorare rinvia a mutamenti psicologici, sociali e culturali ampiamente testimoniati dal diffondersi di pubblicazioni in cui, ad esempio, si rinvia alla sapienza degli antichi druidi o al potere magico delle rune oppure alle pratiche terapeutiche degli sciamani, e che paiono essere espressione di una religiosità paganeggiante, nella quale si mescolano insofferenza verso la liturgia e i dogmi delle chiese tradizionali, repulsione nei confronti dei ritmi di vita e della società contemporanea, rinnovata sensibilità verso la Natura, diffidenza per i princìpi e gli assunti della scienza, e così via.

    L’insieme delle indicazioni concerne sia testi di studiosi italiani sia traduzioni. In quest’ultimo caso si è cercato di raccogliere gli studi di carattere critico o divulgativo, compresi i libri per ragazzi, le fonti antiche (poemi, leggende, fiabe, saghe, ecc.), le rielaborazioni dei miti del passato ad opera di poeti e scrittori moderni. Sono state, invece, escluse le opere di carattere meramente linguistico e filologico in quanto esulano dalle finalità del presente lavoro di screening. Sebbene la ricerca si focalizzi sull’editoria italiana, si è tentato di fornire luoghi e date di prima pubblicazione in lingua originaria degli studi tradotti. In alcuni casi, purtroppo, si è stati nell’impossibilità di rintracciare taluni dati sicché qualche “voce” rimane scoperta. Inoltre, pure esistendo edizioni successive, a meno che non si trattasse di una ripubblicazione presso altra casa editrice, si è preferito indicare solo la prima edizione italiana allo scopo di rilevare quando il libro è entrato in circolazione nella nostra cultura. In ultimo, alle indicazioni bibliografiche si è voluto allegare una specifica sezione dedicata ai siti Web in italiano, nella persuasione che Internet, oggi, costituisca non solo un formidabile e riconosciuto strumento di diffusione di contenuti culturali, ma anche un sensibile termometro per valutare i fenomeni e le mode più indicativi del momento.



    Dall’elenco di testi emergono alcuni dati significativi. Il primo dato riguarda l’appariscente disparità tra gli studi dedicati agli Indoeuropei e ai Finni, pochi e, in gran parte, recenti, e quelli incentrati sui Celti e sui Germani, numerosi e diversificati (complessivamente 263 titoli su un totale di 283, ossia il 92,9% delle pubblicazioni). Nel caso degli Indoeuropei, ciò si spiega col fatto che, essendone gli studi, almeno in Italia, appannaggio pressoché esclusivo di linguisti e glottologi, essi sono destinati, per lo più, ad un pubblico altamente specializzato (ricercatori, studenti universitari, ecc.). Per i Finni, invece, evidentemente, occorre parlare di uno scarso interesse di fondo, in tutta probabilità dovuto anche alla loro marginalità storica.

    Un secondo elemento traspare dal confronto tra gli studi rivolti ai Celti e ai Germani. Se le opere di carattere storico, pur con una prevalenza di libri sui primi (75 titoli sui Celti contro 57 sui Germani), denotano una sostanziale equivalenza, i testi di tipo esoterico e spiritualismo, al contrario, rivelano un più marcato sbilanciamento a favore dei Keltoi (30 libri contro 4). Questo, verosimilmente, è dovuto all’attribuzione ai druidi di conoscenze di tipo occulto, credenza diffusa che risale all’interpretatio classica – Posidonio, Diodoro Siculo, Cesare, ecc. – e perpetuatasi nei secoli sia a livello colto che popolare. Curiosamente, tale situazione s’inverte nei libri il cui target dichiarato è il pubblico infantile e adolescenziale, con una netta preponderanza dei Germani, e, dettagliatamente, dei Vichinghi (con quasi il triplo di titoli di differenza, 17 contro appena 7). Forse la spiegazione deve ricercarsi nel fascino esercitato da sempre dai guerrieri nordici i quali colpiscono l’immaginario collettivo dei ragazzi – ma non solo –, per il valore delle loro imprese guerriere e marinare. Infine, tra le pubblicazioni di poemi mitologici, fiabe, racconti leggendari, e così via, quelle del mondo germanico sono più numerose (38 a 13) in forza delle tante saghe edite in questi ultimi anni. Tale rapporto muta relativamente alle fiabe e al folklore. Quivi, avendo naturalmente escluse dalla ricerca le celebri raccolte dei fratelli Grimm, le cui storie sono state fortemente contaminate nel corso dei secoli, non vi sono in Italia libri di favole dedicate al mondo germanico mentre sovrabbondano quelle di origine celtica e, segnatamente, irlandese. Vale rimarcare, inoltre, che esse hanno spesso per protagonisti il Piccolo Popolo (elfi, fate, leprecauni, ecc.) e sono destinate più a lettori adulti che a bambini, forse per le suggestioni ricavate dai personaggi dei libri di Tolkien [Tab. 2].

    Un altro dato che salta immediatamente all’attenzione è poi rappresentato dalla cospicua, presenza, tra i saggi sui Celti, di libri dedicati alle popolazioni di retaggio celtico che abitarono al di qua delle Alpi come i Boi, gli Insubri, i Cenomani, i Senoni. Questo sia per una certa rivalutazione delle tradizioni culturali locali, verificatasi soprattutto in determinate aree periferiche della penisola (Val d’Aosta, Tirolo italiano, ecc.), sia per la rinnovata importanza riconosciuta alla loro presenza, ancora fino a pochi anni fa ridotta entro il cliché delle bande di barbari razziatori e notevolmente sottovalutata in favore dei romani, degli etruschi, dei greci, ecc.

    Un quarto elemento degno di nota riguarda lo specifico andamento delle pubblicazioni nel corso degli anni. I libri sui Celti si moltiplicano piuttosto vistosamente negli anni Novanta – 96 titoli –, anche grazie all’attività di piccoli case editrici come Arcana, Keltia, Neri Pozza, RED, ecc., a fronte di una media presenza negli anni Ottanta – una trentina di titoli – e una scarsa presenza nei decenni precedenti – si sono potuti accertare solo dieci testi negli anni compresi tra i Sessanta e i Settanta. Quelli sui Germani sono una discreta presenza negli anni Sessanta – più di 10 titoli –, cui fa seguito un ulteriore aumento negli anni Settanta e Ottanta – oltre i 40 titoli – e una decisa escalation nei Novanta – abbondantemente sopra i 50 titoli. Infine, si possono notare il già ricordato sbilanciamento di volumi sui Celti aventi come argomento temi esoterici e magici – quasi una trentina di libri – che si concretizza negli anni Novanta, e le successive riedizioni di alcune fonti basilari come l’Edda (con due diverse edizioni della versione di Snorri Sturluson in prosa uscite lo stesso anno, il 1975, per i tipi di Rusconi e Adelphi, più una terza, che riprende quella Rusconi, da parte di TEA, nel 1997, e due edizioni di quella poetica, Sansoni e Garzanti, apparse però a distanza di trent’anni l’una dall’altra), o di poemi eroici come il Beowulf (tre edizioni integrali: Malipiero, Einaudi, il Cerchio; più una parziale: Herder) o di saghe germaniche come quella dei Völsunghi (due edizioni, una nel ’93, Edizioni dell’Orso, e una nel ’94, Pratiche) o irlandesi come il ciclo di Finn (alcune parti del quale contenute nelle varie raccolte pubblicate da Einaudi, Mondadori, Arcana, ecc.).

    In breve, il quadro d’insieme che appare dalla ricerca è il seguente. Su un totale di 283 opere rintracciate – comprese le ristampe di una stessa opera presso differenti case editrici –, apparse in Italia negli ultimi cinquant’anni: 15 volumi sono dedicati agli Indoeuropei (pari al 5.3 %), 144 ai Celti (pari al 50 %), 119 ai Germani (pari al 42 %) e 5 ai Finni (pari all’1.7%). Nel dettaglio: un testo sugli Indoeuropei è stato pubblicato negli anni ’60, tre negli anni Settanta, tre negli Ottanta, sette nei Novanta e, almeno per il momento, uno nel Duemila; un testo sui Celti è apparso negli anni Cinquanta, due negli anni Sessanta, sette negli anni Settanta, trentadue negli Ottanta, novantasei nei Novanta, cinque nel Duemila; un testo sui Germani risale agli anni ’40, quattro sono stati editi negli anni ‘50, dodici negli anni Sessanta, ventuno negli anni Settanta, ventitré negli Ottanta, cinquantacinque nei Novanta, due nel Duemila; infine, un testo sui Finni è dell’immediato dopoguerra, tre degli anni Ottanta [Tab. 1].

    Da sottolineare, infine, l’aumento complessivo di pubblicazioni dedicate a tali argomenti, proprio degli anni Novanta (159 volumi, pari al 56.1 %), rispetto al pur buon numero di edizioni degli anni Ottanta (61 testi, pari al 21.5 %), e alla bassa produzione dei decenni precedenti (rispettivamente: 2 volumi negli anni Quaranta, pari allo 0,7 %; 5 nei Cinquanta, pari all’1.7%; 15 nei Sessanta, pari al 5.3%; 31 nei Settanta, pari all’10.9%), rilievo che conferma ancor di più il predetto, crescente, interesse verso temi e motivi storico-religiosi caratterizzante questo fine millennio.



    La Tabella 1 riporta le pubblicazioni nel corso degli anni (dal novero complessivo della ripartizione per anni mancano due testi di cui non è stato possibile rintracciare la data di pubblicazione in Italia). La Tabella 2 le suddivide in base agli argomenti:

    TAB. 1
    1940-50
    1950-60
    1960-70
    1970-80
    1980-90
    1990-00
    2000

    Indoeur.


    1
    3
    3
    7
    1

    Celti

    1
    2
    7
    32
    96
    5

    Germani
    1
    4
    12
    21
    23
    56
    2

    Finni
    1



    3



    Totale
    2
    5
    15
    31
    61
    159
    8




    TAB. 2
    Fonti
    Storia
    Spiritual.
    Folklore
    Riscritt.
    Infanzia
    Totale

    Indoeur.

    15




    15

    Celti
    13
    75
    30
    13
    6
    7
    144

    Germani
    38
    57
    4

    3
    17
    119

    Finni
    2
    3




    5






    Per quanto riguarda i siti Internet, rapidamente, si può dire che tra i trentadue siti segnalati, ben diciannove sono specificamente ispirati al mondo celtico nei suoi vari aspetti (musicale, esoterico, storico-culturale, ecc.). Fra questi vi sono ben otto associazioni o circoli culturali dediti a varie attività (promozione di convegni, mostre, concerti, feste, viaggi, ecc.), per lo più localizzate in Italia settentrionale, oltre ad una casa editrice specializzata ed una rivista telematica. Al mondo dei vichinghi sono, invece, dedicati sei siti. Tra essi vi sono un’associazione culturale e un gruppo neo-pagano. Sette siti presentano argomenti intitolati ad entrambi i popoli. In molti casi nello stesso sito è possibile rintracciare sezioni specifiche dedicate alla letteratura Fantasy, confermando gli stretti legami tra riscoperta delle mitologie e del folklore celtico e germanico e narrativa fantastica. Infine, alcuni siti presentano una forte relazione tra spiritualità, ecologia, medicina alternativa e tradizioni terapeutiche celtiche o scandinave, a testimonianza della suddetta rinnovata considerazione verso tematiche di tipo religioso e, simultaneamente, di rifiuto di quegli aspetti ritenuti più alienanti della realtà moderna. Resta da rilevare che, nella rete, non vi sono siti italiani espressamente intitolati agli Indoeuropei, mentre si ritrovano alcuni articoli scritti da studiosi e appassionati.

    La ricerca sulle pubblicazioni edite in Italia sugli argomenti in questione mira ad essere quanto più possibile completa. A tal fine meritano di essere riportati anche i maggiori contributi apparsi in enciclopedie dedicate a temi storico-religiosi.



    Sugli Indoeuropei:

    E. Campanile, La religione degli indoeuropei, in «Storia delle religioni», a cura di G. Filoramo, Laterza, Roma-Bari 1994, Le religioni antiche, vol. 1, pp. 569-585; G. Devoto, La religione degli Indoeropei, in «Storia delle Religioni», a cura di G. Castellani, UTET, Torino 1970-71, vol. II, pp. 345-360; A.M. Di Nola, Religione indoeuropea, in «Enciclopedia delle religioni», Vallecchi, Firenze 1971, vol. 3, coll. 1020-1038; M. Eliade, La religione degli Indoeuropei. Gli dei vedici, in Idem, «Storia delle credenze e delle idee religiose», trad. it. di M.A. Massimello e G. Schiavoni, Sansoni, Firenze 1996 (Paris 1975), Dall’età della pietra ai misteri eleusini, vol. 1, pp. 207-236; J. Loicq, Religione degli Indoeuropei, in «Grande Dizionario delle Religioni», Piemme, Casale Monferrato 1988 (Paris 1984), vol. I, pp. 993-1014.



    Sui Celti:

    E. Campanile, La religione dei Celti, in «Storia delle religioni», a cura di G. Filoramo, Laterza, Roma-Bari 1994, Le religioni antiche, vol. I, pp. 605-633; A.M. Di Nola, Religione dei Celti, in «Enciclopedia delle religioni», Vallecchi, Firenze 1971, vol. I, coll. 1685-1734; M. Eliade, Celti, Germani, Traci e Geti, in Idem, «Storia delle credenze e delle idee religiose», trad. it. di M.A. Massimello e G. Schiavoni, Sansoni, Firenze 1996 (Paris 1978), Da Gautama Buddha al trionfo del Cristianesimo, vol. II, pp. 141-157; F. Le Roux, La religione dei Celti, in Le religioni dell’Europa centrale precristiana, a cura di Puech, trad. it. di M.N. Pierini, Laterza, Roma-Bari 1988 (Paris 1970-76), pp. 95-152; J. Loicq, Celti e Celto-Romani, in «Grande Dizionario delle Religioni», Piemme, Casale Monferrato 1988 (Paris 1984), vol. I, pp. 310-320; J. Ryan, La religione dei Celti, in AA.VV., Cristo e le religioni del mondo. Religione e cultura dei popoli antichi, trad. it., a cura di F. König, Marietti, Casale Monferrato 1962 (Wien 1951), vol. II, pp. 207-222; P. Scarpi, Celti e Germani, in AA.VV, «Manuale di storia delle religioni», Laterza, Roma-Bari, pp. 81-106.



    Sui Germani:

    E. Campanile, La religione dei Germani, in «Storia delle religioni», a cura di G. Filoramo, Laterza, Roma-Bari 1994, Le religioni antiche, vol. 1, pp. 635-665; A. Closs, La religione dei Germani sotto l’aspetto etnologico, in AA.VV., Cristo e le religioni del mondo. Religione e cultura dei popoli antichi, trad. it., a cura di F. König, Marietti, Casale Monferrato 1962 (Wien 1951), vol. II, pp. 224-307; J. de Vries, La religione dei Germani, in Le religioni dell’Europa centrale precristiana, a cura di Puech, trad. it. di M.N. Pierini, Laterza, Roma-Bari 1988 (Paris 1970-76), pp. 59-91; A.M. Di Nola, Religione dei Germani, in «Enciclopedia delle religioni», Vallecchi, Firenze 1971, vol. 2, coll. 1724-1794; M. Eliade, Celti, Germani, Traci e Geti, in Idem, «Storia delle credenze e delle idee religiose», trad. it. di M.A. Massimello e G. Schiavoni, Sansoni, Firenze 1996 (Paris 1978), Da Gautama Buddha al trionfo del Cristianesimo, vol. 2, pp. 157-173; C.A. Maestrelli, La religione degli antichi Germani, in «Storia delle Religioni», a cura di G. Castellani, UTET, Torino 1970-71, vol. II, pp. 463-535; J. Ries, La Religione dei Germani e degli Scandinavi, in «Grande Dizionario delle Religioni», Piemme, Casale Monferrato 1988 (Paris 1984), vol. I, pp. 760-776.



    In ultimo, restano da segnalare almeno i principali studi al riguardo non tradotti in lingua italiana*.



    Sugli Indoeuropei:

    Bosch-Gimpera P., Les Indo-européens, Paris 1961.

    Dumézil G., Mitra-Varuna. Essai sur deux représentations indo-européennes de la souveraineté, Paris 1940.

    Haudry J., La religion cosmique des Indo-Européens, Milano-Paris 1987.

    Höfler O., Kultische Heimbünde der Germanen, Frankfurt am Main. 1934.

    Lincoln B., Mith, Cosmos and Society. Indo-European Themes of Creation and Destruction, Cambridge (Mass.) 1986.



    Sui Celti:

    Chadwick N., The Celts, Harmondsworth 1966.

    Draak M., The Religion of the Celts, Leiden 1969.

    Duval P.-M., Les dieux de la Gaule, Paris 1957.

    Green M., The Gods of the Celts, Gloucester 1986.

    Hubert H., Les Celtes, 2 voll., Paris 1932.

    Mac Cana P., Celtic Mythology, Middlesex 1983.

    Rees A. e B., Celtic Heritage. Ancient Traditions in Ireland and Wales, London 1961.

    Ross A., Pagan Celtic Britain. Studies in Iconography and Tradition, London 1967.

    Sjoestedt, Dieux et héros des Celtes, Paris 1940.

    Vendryes J., La religion des Celtes, Paris 1948.

    Webster G., The British Celts and their Gods under Rome, London 1986.



    Sui Germani:

    Boyer R., La religion des anciens Scandinaves, Paris 1986.

    Boyer R., Le mythe Viking, Paris 1986.

    Boyer R. e Lot-Falck E., Les religions de l’Europe du Nord, Paris 1974.

    Clemen C., Altgermanische Religiongeschichte, Bonn 1934.

    Grimm J., Deutsche Mythologie, Gütersloh 1835.

    De Vries J., Altgermanische Religionsgeschichte, 2 voll., Berlin 1956-1957.

    Dumézil G., Loki, Paris 1959.

    Dumézil G., Mythe et épopée. L’ideologie des troi functions dans les épopées des peuples indoeuropéens, I-III, Paris 1948.

    Davidson Ellis H., Gods and Myths of Northern Europe, Harmondsworth 1964.

    Davidson Ellis H., Scandinavian Mythology, London 1969.

    Holtsmark A., Norrøn Mytologi, Oslo 1970.

    Höfler O., Germanisches Sakralkönigtum, I, Münster-Köln 1952.

    Ohlmarks A., Studien zur altgermanischen Religiongeschichte, Lipsia 1943.


    --------------------------------------------------------------------------------

    * L’inserimento dei testi di Dumézil nelle differenti sezioni è puramente di comodo dato che in essi, com’è noto, si trovano riferimenti tanto agli Indoeuropei che ai Celti che ai Germano-Scandinavi. Per una raccolta completa dell’opera del grande studioso francese cfr. A. de Benoist, Georges Dumézil: una bibliografia, in «Futuro Presente», n. 2, primavera 1993, pp. 54-65.


    --------------------------------------------------------------------------------

    [1] “(…) l’opera di Tolkien (…), offre a una società scettica e demitizzata, sotto forma di una grande saga fantastica ed eroica, quasi una epopea, un mito positivo, fondante, completo e verosimile in cui credere, anche se ci si rende ben conto che è soltanto «la favola più lunga del mondo».” (G. de Turris, Il «caso Tolkien», introduzione a H. Carpenter, La vita di J.R.R. Tolkien, trad. it. di F. Malagò e P. Pugni, Ares, Milano 1991, p. 21). Dello stesso avviso è pure G. Harvey, Credenti della nuova era. I pagani contemporanei, trad. it. di L. Piercecchi, Feltrinelli, Milano 2000 (s.l. 1997), pp. 222-226.

    [2] Si pensi al valore assunto dall’identità celtica per gli irlandesi nella loro lotta per l’autonomia dalla dominazione inglese e la grande diffusione che queste drammatiche vicende hanno assunto anche da noi, veicolate attraverso film di successo come “In nome del padre” di J. Sheridan, con Daniel Day-Lewis ed Emma Thompson, e “Michael Collins” di N. Jordan, con Liam Neeson, e la musica di gruppi rock di risonanza mondiale come gli U2 e i Cranberries.
    "Sarà qualcun'altro a ballare, ma sono io che ho scritto la musica. Io avrò influenzato la storia del XXI secolo più di qualunque altro europeo".

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    Predefinito La diffusione degli Indoeuropei

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    Gli Indoeuropei e le origini dell'Europa



    Questo denso saggio del prof. Villar, docente di linguistica indoeuropea dell’Università di Salamanca, espone in una grande visione d’insieme il quadro delle idee correnti tra gli studiosi in materia di studî indoeuropei, oltre a una storia del loro sviluppo.

    Il libro si apre tentando di dare una risposta alla vexata quaestio della localizzazione dell’Urheimat, la patria arcaica comune in cui si svilupparono (e fors’anche nacquero) le varie lingue indoeuropee diffusesi poi in Europa e in parte dell’Asia. L’autore prende in esame le diverse teorie, ma propende purtroppo per le assai discutibili tesi della Gimbutas, che vorrebbero vedere come "kurganica" la sede nativa degli Indoeuropei, ossia individuarla nelle steppe meridionali russe. Ora, pur non ignorando le più fondate teorie che situano – con alcune varianti – nell’Europa del Nord la sede dell’Urheimat (tra questi anche Giacomo Devoto), l’autore del saggio accetta poi una tesi estremamente fragile (che, detto in estrema sintesi, intende localizzare la terra del faggio, del salmone, del castoro, della lontra, dell’alce, della foresta – ossia l’Urheimat, secondo le ricostruzioni fondate sul vocabolario comune – nella steppa russa).

    Di là da questo discutibile presupposto, l’autore si "rimette in carreggiata" demolendo le inconsistenti moderne teorie "diffusioniste" degli archeologi, le quali, ridotte in poche parole, vorrebbero la diffusione delle lingue indoeuropee dovuta a semplici contatti (nella versione più estrema addirittura come una semplice "convenzione commerciale"). Villar ha dunque facile gioco nel dimostrare che le lingue indoeuropee, per la loro estrema ricchezza e complessità grammaticale e sintattica, non si prestano a un’appropriazione "utilitaristica", ma sono state quasi certamente imposte da élites di dominatori che hanno soggiogato altri popoli che parlavano precedentemente linguaggi diversi, dei quali rimangono tracce nei dialetti formatisi dopo la diaspora: si riafferma in tal modo il principio "migrazionista".

    Un altro limite, purtroppo non del solo Villar ma assai diffuso tra gli studiosi contemporanei, è dato dall’accettazione passiva del "tabù" ormai invalso di tacere sugli Indoeuropei dal punto di vista razziale (o quanto meno etnico): stando alle parole di Villar, "il concetto di indoeuropeo è meramente linguistico" (p. 76): così dicendo si potrebbe ben giungere a identificare come "indoeuropei" anche gli afroamericani, il che come risulta evidente costituisce un vero paradosso. Villar non giunge a tanto, ma si limita ad affermare che "un linguista non ha niente da dire su questo aspetto". Purtroppo però la ricerca è oggi molto più imbavagliata (o, meno prosasticamente, "specialistica" e "di settore") di quanto non possa sembrare ictu oculi.

    Un diverso giudizio, più nettamente positivo, va espresso nei confronti della seconda parte del libro, di carattere linguistico, che passa in rassegna le diverse popolazioni e civiltà indoeuropee anche nella loro avventura storica. Pur se l’impostazione, anche qui, risente della suaccennata premessa "kurganica", l’affresco è comunque grandioso, poiché il suo oggetto è la storia antica di tutti i nostri antenati.

    Alberto Lombardo

    Francisco Villar, Gli Indoeuropei e le origini dell’Europa , Il Mulino, Bologna 1998, pp. 684, £55000.




    "Sarà qualcun'altro a ballare, ma sono io che ho scritto la musica. Io avrò influenzato la storia del XXI secolo più di qualunque altro europeo".

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    Predefinito La invasione indoeuropea

    La composizione lessicale delle lingue indoeuropee è un buon strumento per studi comparativi ed è stato possibile apprendere molto sui primi Popoli Indoeuropei studiando i suoni dei vari vocaboli dei vari linguaggi appartenenti alla famiglia indoeuropea. Per spiegare meglio il concetto, si sono prese in considerazione vocaboli attinenti allo stesso concetto nelle varie lingue di derivazione indoeuropea. Facendo un esempio con linguaggi attuali si considerino i termini che identificano il concetto di uomo. In italiano abbiamo: umano, uomo, maschio, marito, virile e per il momento ci fermiamo. Di questi vocaboli prendiamo in considerazione gli equivalenti nelle altre lingue indoeuropee: troviamo ad esempio in inglese: human, man, male, husband, manly. Si nota subito che molti termini sono assonanti altri non lo sono per nulla, soffermiamoci su virile, che non ha collegamenti fonetici con l'inglese (il manly è facilmente deducibile da man). Virile deriva dal latino vir; vediamo che infatti i latini hanno due termini per definire uomo: homo (cioè essere umano) e vir (cioè tutto ciò che identifica l'ideale di uomo, capiamo meglio se pensiamo al vocabolo virile e virtù che spiegano che cosa intendevano i latini per vir). Se proviamo a vedere in Celtico abbiamo il termine viro, derivante dall'indoeuropeo wiro che ha proprio un significato simile al vir latino ed in sanscrito troviamo vi'ra con lo stesso significato e manu che significa più propramente essere umano. Altre deduzioni sono possibili analizzando quali vocaboli esistevano presso i vari popoli, considerando che se esisteva il vocabolo, doveva essere noto il suo significato. Un certo numero di termini indoeuropei comuni indica che l'allevamento del bestiame era la più importante delle occupazioni fra le popolazioni Proto-Indo-Europee, voci lessicali come: cavalli, bestiami, maiali, capre erano conosciuti ed usati. Altrettanto importanti e numerosi sono i termini che hanno a che fare con l'agricoltura. Gli studiosi ritengono che la terra d’origine degli Indoeuropei sia stata montagnosa, infatti, in tutte le lingue Indo-Europee vi è un considerevole numero di termini atti a definire le montagne e le colline. Fra i nomi delle piante, degli alberi e degli animali usati da queste popolazioni si trovano sia tipi propri europei che tipi che si possono trovare solo nel medio oriente. Troviamo citati fra gli alberi la betulla, la quercia, il faggio e fra gli animali il leone, l’orso, il lupo, lo scacallo, la volpe, l’alce, il serpente, il topo, il castoro, tra gli uccelli, l’aquila, l’oca e la gru. I Proto-Indo-Europei erano a conoscenza dell’esistenza del mare e di navi atte a navigarlo, sia a vela che a remi. Fra i primi Indoeuropei che penetrarono in Europa, sembra che i primi siano stati i Celti e gli Italici. Non siamo ancora in grado, a tutt’oggi di collegare i reperti archeologici con le relative tribù, ma, in perfetto accordo con le più autorevoli teorie, possiamo affermare che i Celti sono rappresentati dalla cultura cosiddetta delle stoviglie di corda. Nel lontano terzo millennio a.c. incominciarono a migrare verso occidente (Francia e Germania meridionale), essi provenivano dalle aree basso danubiane, dove vivevano assieme agli Italici ed agli Illirici, essendovi giunti nell’antichità dalla zona caucasica dell’Afghanistan. Il terzo millennio a.c. può essere considerato il momento in cui avvenne la separazione tra la lingua Celtica e quella Italica dal primitivo ceppo Indoeuropeo. I Greci identificavano il bue come bous, boos.
    I Latini usavano bos, bovis
    Gli antichi Umbri bum.
    I Volsci bim
    I Celti guhow
    Gli antichi Irlandesi bo, bai
    I Gallesi antichi buw
    Gli antichi Bretoni bou
    In Sanscrito gauh
    In antico Avestano gaus
    In antico Persiano gav
    In antico Germanico kow
    In antico Baltico gou
    In antico Slavo gove Abbiamo visto che i protoindoeuropei si dedicavano all'allevamento, sarà pertanto interessante iniziare la nostra analisi comparata dei vocaboli, partendo dal vocabolo che presso gli antichi proto indoeuropei stava ad indicare la mucca o il bue: gwou. Si vede come il segno gw si trasformi in b come eredità del suono w o in g o k come eredità del prevalente suono g, presso altri popoli. I Celti invertono la posizione della w e così pure i Gallesi ed i Germani e gli Slavi.
    Le assonanze comunque lasciano chiaramente vedere le derivazioni tra i vari linguaggi.
    In italiano abbiamo
    mucca ( dal suono g ) , bue, bufalo ( dal suono w) (il vocabolo latino mugire sicuramente onomatopeico ripropone la g).
    In inglese abbiamo
    cow (dal suono g e w) e beef (dal suono b).
    Il fatto interessante è che i due vocaboli inglesi non sono di derivazione latina, ma sassone. Il collegamento è a monte, con la lingua madre indoeuropea.
    I Greci chiamavano il cavallo ippos
    I Latini equus
    I Celti ekwos
    Gli antichi Irlandesi eqa
    Gli antichi Scozzesi each
    Gli antichi Gallesi ebol
    In Sanscrito acvah
    In antico Avestano asva
    In antico Persiano asa
    In antico Germanico eha
    In antico Baltico as'u Gli antichi indoeuropei indicavano il cavallo con il termine: ekwo . Non è anomalo che il suono indoeuropeo kw si trasformi in p presso i Greci.
    Il passaggio dall'indoeuropeo ekwo al Sanscrito acvah e di lì all'Avestano asva, quindi al Persiano asa
    è abbastanza intuitivo, così come è semplice notare la derivazione tra ekwo ed ekwos ed equus ed eqa e l'italiano equino, mentre più difficile è arrivare all'ebol Gallese o al cavallo italiano, che sembra più facile far provenire direttamente dal Sanscrito acvah o perlomeno dal Celtico ekwos.

    Nell'esame dei vari vocaboli è importante considerare che così come avviene oggi, anche nel lontano passato, i termini per definire qualcosa potevano essere più d'uno e, con il passare del tempo, alcuni aspetti di un vocabolo si possono essere rafforzati acquisendo una propria vita autonoma, conquistando un significato diverso, prima più specialistico, poi, piano piano, sempre più lontano dal senso iniziale del termine di partenza. Pensiamo al latino mulier (donna) che ha assunto il valore di moglie, mentre l'uxor (moglie) latino è rimasto solo in vocaboli come uxoricidio; oppure al latino domina (signora) che è diventato donna in italiano. Questo è quello che è avvenuto al termine che indicava semplicemente uomo, presso gli indoeuropei, che ha acquisito sempre più il significato di vero uomo, di uomo valoroso, di uomo virtuoso, di eroe ed oggi con quel termine si intende l'uomo per eccellenza e non più l'uomo e basta.
    Per dire madre:
    I Greci dicevanome'te'r
    I Latini mater
    I Celti ma'te'r
    Gli antichi Irlandesi ma'thir
    Gli antichi Scozzesi ma'thair
    Gli antichi Gallesi modryb
    In Sanscrito maata - matri
    In antico Avestano ma'tar
    In antico Persiano ma'dar
    In antico Germanico mo'the'r
    In antico Baltico mo'te' Un termine che difficilmente può dare adito ad equivoci o avere sinonimi è il vocabolo madre, ma anche sorella e fratello hanno caratteristiche simili. Gli antichi indoeuropei usavano il vocabolo ma'te'r per dire madre. Come era logico aspettarsi nelle varie lingue della struttura indoeuropea il vocabolo subisce ben poche variazioni. Nelle lingue moderne l'italiano e lo spagnolo madre, il tedesco mutter, l'inglese mother, il francese mere dimostrano come minime siano state le modificazioni che il vocabolo originale indoeuropeo abbia subito nei secoli.
    Per dire sorella:
    I Greci dicevano eor
    I Latini soror
    I Celti sveso'r
    Gli antichi Irlandesi siur
    In Sanscrito svasar
    In antico Germanico swiste'r
    In antico Baltico sestra Gli antichi Indoeuropei usavano il vocabolo sweso'r. Come si può notare anche per questo termine le assonanze sono evidenti; solo in greco la perdita delle esse complica un attimo le cose.
    Per dire fratello:
    I Greci dicevano phrate'r
    I Latini frater
    I Celti brate'r
    Gli antichi Irlandesi brathir
    In Sanscrito bhra'ta'
    In antico Germanico bro'der
    In antico Baltico brat Gli antichi Indoeuropei usavano il vocabolo bhra'te'r. La ph greca che corrisponde foneticamente alla f latina, è una comune derivazione dalla bh indoeuropea ( è evidente l'assonanza tra p e b).
    "Sarà qualcun'altro a ballare, ma sono io che ho scritto la musica. Io avrò influenzato la storia del XXI secolo più di qualunque altro europeo".

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    Predefinito La invasione indoeuropea

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    Le "tre morti" degli indoeuropei

    di Alberto Lombardo

    La scoperta fatta da Georges Dumézil di una "ideologia tripartita indoeuropea", come egli ha definito la sua tesi secondo cui le civiltà dei popoli indoeuropei sono caratterizzate da una tripartizione, a vari livelli, tra sacralità magico-giuridica, regalità guerriera, fecondità-produttività (o, in altri termini, tra sacerdoti, guerrieri e produttori), ha fornito gli studiosi di mitologia comparata e folklore di uno strumento analitico straordinariamente efficace. Già il Dumèzil in vita, la sua "scuola" successivamente, hanno posto in luce un importante aspetto del rito e del sacrificio comune ai vari popoli che dall’India all’Islanda e da Roma alla Scandinavia sono accomunati nel retaggio linguistico, etnico e spirituale. La tesi, in estrema sintesi, riconduce a ciascuna delle tre funzioni sovrane un peculiare tipo di morte, che si connette a sua volta a una particolare forma di sacrificio. Già il poeta romano Lucano, nel descrivere i costumi sacrificali dei Celti, afferma che questi avvenivano alla divinità Esus per impiccagione della vittima (prima funzione - sovranità), a Taranis per vivicombustione in un cesto di vimini (seconda funzione - guerra) e a Teutates per affogamento in una tinozza (terza funzione - fecondità). Sempre nell’ambito celtico, la tradizione gallese riportata dai Mabinogion intorno a Lleu Llaw Gyffes narra della triplice morte di quest’ultimo avvenuta a un tempo per affogamento, ferimento con un’arma (una lancia), impiccagione. Anche nella tradizione irlandese ritorna questo motivo nella triplice morte di Aedh il Nero, profetizzata da San Colombano, e in quella del santo Moling. Ricca di ulteriori esempi è l’area T nordico-germanica. Il Ward in particolare, tra i seguaci di Dumézil, ha portato numerosi esempi in tal senso. Tra le fonti di questi stanno Adamo di Brema, Saxo Grammaticus, la favolistica popolare; ruolo centrale, in tali vicende, riveste il dio Odino, incarnante essenzialmente la prima funzione, ma che in alcune versioni subisce una triplice morte. Infatti le diverse versioni del modello in questione si presentano essenzialmente sotto due aspetti: o le tre morti di tre diversi soggetti, o la triplice morte subita da un unico soggetto, incarnante l’insieme delle funzioni. Altro elemento che gioca un ruolo importante in tale ambito è quello connesso alle "tre colpe" indoeuropee, già esaminate dal Dumézil, e cui corrispondono altrettanti tipi di morti, legate inoltre, come detto, alle tre funzioni sovrane. Nel suo saggio Agamennone e il triplice indoeuropeo della morte (Centro Studi la Runa, Chiavari 1997), David Evans riscontra e analizza il modello in esame, oltre che nei luoghi letterari e tradizionali citati, anche come compare con alcune varianti nella favolistica e nelle leggende d’area greca, finlandese, baltica (a questi ambiti tradizionali si può forse inoltre aggiungere quello romano arcaico). Ne emerge un ampio quadro dell’estensione del modello in esame, che appare nella sua pressoché univoca presenza in tutta l’area coperta dalle civiltà indoeuropee. Successivamente a tale panoramica, l’autore rivela il riverberarsi di tale modello nella tragedia eschiliana Agamennone, il cui protagonista subisce tre morti, coincidenti con quelle proprie alle tre funzioni sovrane: per soffocamento; per tramite di un’arma; per annegamento. Tale scoperta si rivela di notevole importanza sia per lo storico delle religioni e il cultore degli studi tradizionali, soprattutto perché permette di inquadrare in una corretta prospettiva indoeuropeistica una vicenda che, come altre, mostra affondare le sue radici in trame più risalenti di quanto si creda comunemente.
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    Italia arcaica: le origini



    Quando la Grecia si avviava ormai alla denordizzazione, l'altro serbatoio accumulato dall'ondata indoeuropea del 1200 era appena intaccato, e l'Italia successe alla Grecia nella leadership della civiltà classica.
    Che le lingue italiche - e tra esse il latino - siano state diffuse da un tipo razziale relativamente «chiaro», appare verosimile, data la loro provenienza dall'area centroeuropea. Nonostante le proteste del buon Sergi alla fine del secolo («i veri Italici sono gli indigeni neolitici mediterranei»), la più recente antropologia ha riconosciuto la connessione tra i linguaggi italici e il tipo xantocroico (dal greco xanthòs = biondo e chròes = colorazione). Già il Livi, il medico militare che eseguì i primi rilievi antropologici in Italia sulle classi 1867-70, aveva notato due zone di biondismo, una nell'Italia settentrionale (in particolare nella Lombardia occidentale), che egli metteva in relazione con la migrazione longobarda, l'altra più tenue, lungo l'arco dell'Appennino, riconducibile alle più antiche migrazioni italiche.
    Scrive il Sera, nell'Enciclopedia Italiana: «Ma il fatto più singolare che le due grandi carte del Livi pongono in luce, ... è la presenza di una forte componente xantocroica in tutta l'Italia centrale e soprattutto orientale: Umbria, Toscana, Abruzzo e parte settentrionale e orientale dell'Italia meridionale, Molise, Beneventano, Puglia settentrionale, parte settentrionale e orientale della Lucania. Da questa zona si irradierebbero le propaggini disperse del tipo che si riscontrano nelle altre parti della penisola e nella Sicilia... La localizzazione della maggiore massa di questo tipo fa pensare a una provenienza dal Nord e dall'Oriente, cioè che esso sia disceso in Italia seguendo la costa adriatica, senza penetrare addentro nella pianura padana, ma - deduzione assai più importante - sembra che a mano a mano che si discende verso il Sud, esso abbia sede tra i monti. Si può pensare a una preferenza originalmente data a questo ambiente per una minore resistenza del tipo stesso al clima caldo del mezzogiorno italiano, o anche perché il tipo, un tempo esteso alla costa, sia ivi scomparso per fatti di selezione eliminativa. A ogni modo... è chiaro che detto tipo dovette respingere perifericamente una popolazione bruna e branchíoide, che si ha ragione credere fosse autoctona nella regione... E' probabile che questo tipo xantocroico sia disceso in Italia all'epoca del ferro, se non prima, e che sia stato il portatore del linguaggio ariano. La serie preistorica di Alfedena dovrebbe contenere abbondantemente tale tipo».
    Che i popoli italici - e tra essi i Romani - si distinguessero per una maggiore impronta nordica da quelle genti che affondavano le loro radici nella preistoria mediterranea, potrebbe mostrarlo lo stacco esistente tra il carattere nazionale latino-italico da una parte, e quello etrusco dall'altra, stacco tanto più considerevole se si tien conto della vicinanza reciproca e della comunanza di civiltà. Agli Etruschi, con la loro cultura piena di vivacità e di colore, con la loro intuizione sensuale del mondo, ora cupa ora gioiosa, si contrappone la severità rigida, scabra, quiritaria delle genti latine e sabelliche, prolificazioni di un ethnos differente.
    Così un grande interprete dell'antichità ha sintetizzato il carattere nazionale etrusco: «Etrusca era la gioia ai piaceri dell'esistenza, ai conviti, alle donne e ai begli adolescenti, ai giochi scenici, crudeli o comici, alla lotta dei gladiatori, al circo e alla farsa, all'indolenza, amabile e contemplativa... Ma etruschi erano anche l'eroe cavalleresco e il combattente individuale,che agognavano all'avventura e alla fama, profondamente diversi dagli ubbidienti e disciplinati soldati di formazione romana. E come la vita etrusca si svolgeva nell'opposta tensione di riso e crudeltà, di piacere sensuale ed avventura, di indolenza svagata ed affermazione eroica, non diversamente nell'opposizione di cavaliere e dama: la donna dominava sull'uomo e nella casa e prendeva parte anche alla vita pubblica. Una visione femminile del mondo s'esprime in Etruria dovunque ... ».
    E' l'elemento «dionisiaco», lo «schiumante entusiasmo, il piacere e la sfrenata crudeltà dell'antico Mediterraneo», da Schuchhardt contrapposti all'apollineo «alto sentire, accorto agire e misurato decidere del Nord»: come in Grecia l'orfismo, così in Italia gli Etruschi rappresentano il polo «anticlassico».
    Di fronte alla sensuale vivacità delle genti indigene, sta l'ethos dei popoli discesi dal Nord. Sono i duri Sabini (Properzio, 1, 1, 32, 47) con le rigidae Sabinae (Ovidio, Amores, 11, 4, 15), fortissimi viri, severissimi homines (Cicerone, pro Ligario 32; in P. Vattinium 15, 36), avi di forti generazioni di soldati e contadini (rusticorum militum). Sono i Romani con la loro tenuta asciutta, severa, impersonale, le generazioni latine d'età repubblicana che presero le armi contro Annibale prima ancora che la «bionda peluria - flava lanugo - imbiondisse loro le gote» (Silio Italico, Punica, 11, 319), i militi romani dalle «teste bionde» (xanthà kàrena), di cui l'eco è negli "Oracoli Sibillini" (XIV, 346): «Nel senato dell'epoca repubblicana e del quinto fino al primo secolo l'essenza nordica ha sempre dimostrato di essere la forza preponderante e deterrninante: audacia illuminata, attitudine dominata, parola concisa e composta, risoluzione ben meditata, audace senso di dominio. Nelle famiglie senatoriali, anzitutto nel patriziato, e poi nella nobilitas, sorse e cercò di realizzarsi l'idea del vero romano, come una particolare incarnazione romana della natura nordica. In tale modello umano valsero le virtù etiche di impronta nordica: la virilità, virtus, il coraggio, fortitudo, la saggia riflessione, sapientia, la formazione di sé, disciplina, la dignità, gravitas, e il rispetto, pietas... in più quella misurata solennità, solemnitas, che le famiglie senatoriali consideravano come qualcosa di specificamente romano».
    Che questi caratteri spirituali fossero sostenuti da una ben precisa sostanza razziale, è stato affermato dal Sieglin e dal Günther. L'onomastica latina attesta una certa frequenza di caratteri nordici. «Ex habitu corporis Rufos Longosque fecerunt», «dal fisico chiamavano Rufo uno coi capelli rossi, e Longo uno di alta statura»: così Quintiliano ricorda della origine dei nomi propri. Il Sieglin dà una lunga serie di Flavii, Flaviani, Rubii, Rufi, Rufini e Rutilii. Questi nomi sembrano esser stati tradizionali nelle genti Giulia, Licinia, Lucrezia, Sergia, Virginia, Cornelia, Junia, Pompeia, Sempronia: ossia nella più gran parte della classe dirigente romana. La famiglia degli Ahenobarbi (barba di rame) faceva risalire la sua denominazione a una leggenda secondo la quale due giovinetti, messaggeri d'una divinità, avevano toccato la barba d'un guerriero romano che era diventata rossa. L. Gabriel de Mortillet suppone che rutilus, col significato d'un biondo infuocato, sia stato usato soprattutto pel sesso maschile, flavus, un biondo più mite, per le donne. Per l'azzurro degli occhi l'aggettivo comune è caesius donde nomi come Caeso, Caesar, Caesulla, Caesilla, Caesennius e Caesonius.
    Ancora la Historia Augusta (Aelius Verus, 2, 4) spiega Cesare con caesius. Per gli occhi grigi l'aggettivo era ravus o ravidus, donde nomi come Ravilia o Ravilla:

    Raviliae a ravis oculis, quemadmodum a caesiis Caesullae.

    Ad alte stature si riferiscono ì nomi Longus, Longinus, Magnus, Maximus, e anche Macer, Scipio (bastone). Albus, Albinus, Albius indicano colorito chiaro. In appendice all'Incerti auctoris liber de praenominibus, d'epoca tiberiana, si legge che nomi di fanciulla come Rutilia, Caesella, Rodocilia, Murcula e Burra designano capelli e compressioni chiare. Murcula viene da murex, porpora, Rodacilla dal greco rhodax, rosellina, Burra - come anche Burrus - dal greco pyrròs: tutte a colore ductae.
    Che il tipo fisico dei Romani, almeno in epoca repubblicana, dovesse essere abbastanza settentrionale, può mostrarlo anche quel detto tramandato da Orazio:

    hic niger est, hunc tu, Romane, caveto!

    «quello è nero, guardati da lui, Romano!», che esprime una diffidenza spontanea verso l'individuo troppo scuro di pelle che non ha perduto neppure oggi la sua attualità. D'altra parte, la credenza che al momento della morte Proserpina staccasse al moribondo il capello biondo che ognuno doveva portare sul capo (Eneide, IV, 698: nondum illi Ilavom Proserpina vertíce crinem abstulerat), non può che esser sorta in un'epoca in cui i capelli biondi erano comuni tra i Romani.
    Il Sieglin, che ha passato in rassegna le fonti sui caratteri fisici degli antichi Italici, scrive che accanto a 63 biondi sono menzionati solo 17 bruni. Ancora nelle pitture dì Pompei il 75% delle immagini ritrae individui chiari. Sempre secondo il Sieglin, 27 divinità romane sono descritte come bionde, e solo 9 come scure. In particolare, Giove, Marte, Mercurio, Minerva, Proserpina, Cerere, Venere, e anche divinità allegoriche come Pietas, Victoria, Bellona, vengono spesso ritratte come bionde. 10 personaggi delle antiche leggende sono biondi, nessuno bruno. Così delle personalità poetiche: 17 bionde e due brune.
    Caratteri nordici ci sono tramandati di diversi personaggi della storia romana. Rosso di capelli e con gli occhi azzurri era Catone il Censore, questa personalità in cui parvero incarnarsi tutte le più antiche virtù del romano. Biondo e occhiceruleo era Silla, il restauratore. Coi capelli biondi e lisci, occhi chiari, flemmatico e composto nella persona, ci appare Augusto, il fondatore dell'Impero. Cesare aveva occhi e capelli neri, ma complessione bianchissima e alta statura.
    L'ideale fisico d'un popolo s'esprime nell'ideale dei suoi poeti. Tibullo canta una Delia bionda, Ovidio una bionda Corinna e Properzio una bionda Cinzia. Una fanciulla troppo nera non doveva essere molto pregiata se Ovidio (Ars Amandi, 11, 657) suggeriva si nigra est, fusca vocetur. Le lodi maggiori van sempre alla candida puella. Giovenale ci parla della flava puella Ogulnia di nobile stirpe.
    Importante è l'Eneide, per quel suo carattere celebrativo delle origini che fa di Virgilio un poeta «archeologo»,in una specie di passione per lo stile degli antichi Romani, in una esaltazione della latinità. Nell'Eneide tutti i personaggi sono biondi. Così Lavinia (Eneide, XII, 605: filia prima manu flavos Lavinia crinis et roseas laniata genas: flavos è preferibile a floros); Enea, spirante nobiltà nel volto e nelle chiome come avorio cinto d'oro (En. I, 592: quale manus addunt ebori decus, aut ubi flavo - argentum Pariusque lapis circundatur auro); il giovinetto Iulo; Mercurio nella sua apparizione (Eri. IV, 559: et crinis Ilavos et membra decora iuventa), mentre tra i guerrieri è un fulvus Camers di nazione ausonia (X, 562), tanto più notevole in quanto di nessuno dei guerrieri o degli altri personaggi dell'Eneide si dice che abbiano capelli neri. Persino la cartaginese Didone è bionda (IV, 590: flaventisque abscissa comas), così forte è l'inclinazione a vedere antichi eroi ed eroine circonfusi in una nube di biondezza originaria. Anche nei Fasti d'Ovidio, composti con uno stesso intento archeologico e celebrativo, eroi ed eroine dell'antichità romana ci appaiono biondi. Bionda è Lucrezia quando piacque a Tarquinio (forma placet, niveusque color flavique capilli, 11, 763), biondi Romolo e Remo, marzia prole:

    Martia ter senos proles adoleverat annos et suberat flavae iam nova barba comae
    (III, 60).

    Ha scritto il Sieglin: «Gli invasori elleni e italici erano, secondo le non poche testimonianze che possediamo, biondi. Bionda è la maggioranza delle persone di cui ci viene descritto l'aspetto fisico; in particolare erano gli appartenenti alle famiglie nobili che si distinguevano per il colore chiaro della loro pelle e dei loro capelli. In tutte le epoche dell'antichità classica, biondo ebbe il significato di distinto».
    L'epoca aurea della romanità «nordica» va dalle origini alla fine delle guerre puniche. E' l'epoca della repubblica aristocratica, sorta dal patriziato e dai migliori elementi della plebe. E' l'epoca in cui Ennio poté scrivere moribus antiquis res stat romana virisque, in cui i valori romani poggiavano ancora su di un'adeguata base razziale. L'ideale della probitas, dell'integritas, quello del vir frugi, del vir ingenuus, in cui simplex suonava ancora come una lode, è difficilmente riducibile a uno standard meridionale: «L'essenza del "vero romano", del vir ingenuus non si spiega alla luce dell'anima "meridionale", delle popolazioni preitaliche di razza mediterranea, che dovettero invece formare la maggioranza dell'antica plebe, o almeno la plebe della capitale (plebs urbana)» .
    Questo prisco ideale repubblicano d'una severità di contegno derivante non da astratti precetti, ma da una nobile natura di sangue nordico, l'ha espresso Properzio nella figura di Cornelia figlia dell'Africano:

    Mihi natura dedit leges a sanguina ductas
    (IV, 11)

    Già nel Il secolo a.C. son visibili tracce di decadenza. E' lo spopolamento delle campagne, in seguito alla speculazione e al tasso di sangue troppo alto estorto dalle continue guerre. Di qui, le lotte per la riforma agraria, i Gracchi, e le difficoltà sempre crescenti in spedizioni militari di second'ordine, come a Numanzia, o in Numidia. All'epoca di Pirro, e anche a quella d'Annibale, i Romani avevano potuto mettere in campo quante truppe avevano voluto: «I Romani, scrive Plutarco, colmavano senza fatica e senza indugio i vuoti nelle loro truppe come attingendo da una fonte inesauribile». Nel II secolo già il contadinato italico dava segni d'esaurimento. Ma con la scomparsa del contadinato italico, delle forti generazioni contadine che avevano fatto argine contro Annibale «prima ancora che la bionda peluria vestisse le loro guance», incominciava la denordizzazione della romanità.
    Contemporaneamente, i contatti con la grecità decaduta, con l'Oriente levantino, portavano i primi germi di disfacimento in Roma. Syria prima nos victa corrupit, rìconosceva Floro (Epitome, 1, 47). Già alla metà del II secolo il numero degli schiavi eguagliava quello degli Italici, con conseguenze incalcolabili pel tralignamento del carattere nazionale romano. Il tipo del levantino portato schiavo e emancipato, del liberto di razza ignobile ma ricco e potente, diventa sempre più frequente sulla scena romana per dominarvi incontrastato nei secoli dell'Impero. Siri, greculi, ebrei - nationes natae servituti - secondo il severo giudizio romano, diventavano sempre più numerosi, con l'influsso dissolvente della brillante civilizzazione ellenistica. «I nostri cittadini sembrano schiavi della Siria - diceva il nonno di Cicerone - tanto meglio parlano il greco, e tanto più sono corrotti». «Tacciano codesti, cui l'Italia non fu madre, ma matrigna», aveva detto Scipione Nasica di fronte alla turba tumultuante nel foro, una turba d'importazione.
    Al tipo del romano di ceppo italico succedeva una massa anonima sempre più mediterranea e levantina. Anche la ritrattistica permette di osservare l'avvento di tipi sempre più nettamente levantini - specialmente banchieri e uomini d'affari - che si contrappongono al romano nobile d'impronta nordica o nordico-dinarica. Il tipo fortemente scuro e così scarsamente europeo che caratterizza ancora oggi tanta parte della popolazione dell'Italia - color iste servilis, diceva Cicerone - si può far risalire all'invasione di schiavi orientali, Asiatici Graeci, dell'ultima età repubblicana e di quella imperiale. Che questa massa non potesse offrire sostegno alle vecchie istituzioni aristocratiche repubblicane, e avesse bisogno d'un padrone, spiega il trapasso dalla repubblica all'Impero.
    L'ordine imperiale romano era destinato a reggere ancora alcuni secoli - anche perché la Roma repubblicana aveva già sgombrato il campo da tutti i possibili competitori - in un quadro di splendore ma anche nella coscienza d'una crescente putrefazione della società. I confini di Augusto non dovevano più essere ampliati o quasi in quattro secoli d'Impero. Una fioritura culturale non si ebbe più dopo la fine del I secolo d.C. e si perpetuò un accademismo alessandrino. La filosofia dell'epoca è lo stoicismo, l'individualismo orgoglioso e disperato d'un'anima nordica che si chiude in sé stessa di fronte a una società orinai snordizzata che non le può offrire sostegno.
    Malos homines nunc terra educat atque pusillos, lamentava Giovenale (XV, 70). In effetti, la statura minima dell'esercito imperiale era scesa fino a 1,48 e sempre più la Romanorum brevitas contrastava con la Germanorum proceritas (Vigezio, 1, 1). Nonostante che le ultime genti che potevano far risalire le loro origini ai Latini dei Colli Albani, tra cui i Giulii, si fossero estinte agli albori del principato una certa impronta nordica doveva continuare a tralucere tra i membri della classe dirigente dell'Impero. Si potrebbe fare una lunga lista di Cesari biondi: da Augusto a Tiberio, da Caligola a Nerone, da Tito a Traiano, da Claudio a Probo, da Costantino a Valentiniano. I capelli biondi erano sempre pregiati nella bellezza femminile - Poppea era bionda - e le donne romane se li tingevano (summa cum diligente capillos cinere rutilarunt, Valerio Massimo, 11, 1, 5) o mettevano parrucche di capelli tagliati alle prigioniere germaniche. Ma la sostanza era che l'Impero Romano andava lentamente soggiacendo a una totale orientalizzazione.
    La capacità dell'impero di reggersi nei secoli si dovette alla forza della forma politico-spirituale creata da Roma. Una forma spirituale è creata da un certo tipo razziale, ma almeno in parte gli sopravvive, almeno finché trova una materia umana segnata anche da una minima parte di quel sangue. Ma una volta che anche l'ultima parte del sangue originario è perduta, non resta che una forma vuota, incapace di influenzare una materia umana totalmente recidiva. L'arco della romanità è compreso tra le due affermazioni - moribus antiquis res stat romana virisque - in cui l'età repubblicana aveva orgogliosamente affermato la disponibilìtà d'un'adeguata sostanza razziale, e quell'altra - mores enim ipsi interierunt virorum penuria - con cui la romanità ammetteva l'incapacità di perpetuarsi in un ambiente umano ormai levantino.
    Al vecchio contadinato italico d'impronta nordica, quasi estinto (la desolazione e lo spopolarnento dell'Italia, la vastatio Italiae, è un tema comune della pubblicistica d'età imperiale) poté surrogare, fino al II secolo d.C., la romanità dei coloni delle provincie, delle guarnigioni periferiche. Poi, estinto anche questo flusso d'italicità provinciale da cui erano usciti Traiano, Adriano, Marc'Aurelio, l'orientalizzazione procedette inarrestabile con una rapidità di cui testimoniano il diffondersi dei nomi greci e i successi del cristianesimo. Il cristianesimo, uscito dalle viscere della nazione ebraica - multitudo iudaeorum flagrans nonnunquam in contionibus, civitas tam suspiciosa et malefica - viene dall'Oriente, si afferma nelle province orientali, e incontra resistenza nella parte europea dell'Impero, tranne nelle regioni marittime conquistate dal cosmopolitismo orientalizzante. Col cristianesimo si diffonde anche un nuovo ideale fisico orientale, presto visibile nei mosaici e negli ipogei. Il cristianesimo nell'Impero Romano, una fede di individui politicamente, economicamente e spiritualmente poveri, era la religione dello strato più basso della popolazione, di immigrati d'origine orientale e africana, i quali non erano sensibili né allo spirito ellenico né all'arte politica di Roma.
    L'ultima resistenza nordica ed europea contro l'orientalizzazione del mondo classico - la penetrazione eccessiva di elementi estranei nell'impero Romano mediante la diffusione della concezione della vita e della religiosità dell'Oriente - viene da parte degli Illirici, questa gente di soldati bionda e grande, che darà a Roma Aureliano, Decio, Diocleziano. E', sotto il segno del Sole Invitto, la reazione dei provinciali, degli europei, dei legionari, contro la levantinizzazione dell'Impero e la civiltà cristiano-cosmopolitica. E' l'estremo baluardo del paganesimo contro i demagoghi dell'Oriente e, insieme, la difesa del danarium romano e della piccola borghesia italica contro l'oro dell'Oriente. La svalutazione, e il trasferimento della capitale a Costantinopoli, nel cuore dell'Oriente cristiano e antiromano, segnano la fine della romanità europea di ceppo nordico. Invano il poeta Prudenzio doveva mettere in versi la speranza che l'Impero si rinnovasse e che i capelli della Dea Roma «divenissero di nuovo biondi» (rursus flavescere): la Roma indoeuropea non era più.
    Paradossalmente, l'Impero dovette ancora un secolo di vita ai suoi più acerrimi avversari, i Germani. Come alla romanità italica d'epoca repubblicana era succeduta la romanità italico-provinciale del principato, come a essa era succeduta, alla metà del II secolo, la romanità illirica dei legionari e delle guarnigioni, così nell'ultimo secolo di Roma prese forma una romanità-germanica la cui eco giunge fino a Teodorico.
    L'esercito romano del IV secolo è già completamente germanizzato, germanici i suoi generali, da Stilicone a Ezio, mentre sui vessilli delle legioni conservatici dalla Notitia Dignitatum stanno le rune del sole, del cervo: i primordiali simboli della Valcamonica ritornano, per un attimo ancora, nella luce morente dello splendore romano. E' significativo come per questi Germani la parola «romano» abbia acquistato il significato di «imbelle», «malfido». Il «romano» è ormai, nell'accezione corrente, un tipo umano piccolo, nero, gesticolante, accorto e abile, ma anche vile e falso, esattamente come era apparso il graeculus ai Romani d'età repubblicana, e come Platone, a sua volta in una Grecia non ancora snordizzata - aveva descritto Siri ed Egiziani. Questo trapasso di significati può illustrare meglio di ogni altro esempio la parabola discendente della civiltà classica. I popoli parlanti greco e latino nel secolo V d.C., serbavano l'eredità linguistica (Sprachenerbe) degli Elleni e degli Italici indoeuropei, non quella del sangue (Blutserbe).
    I Germani si stanziarono dapprima entro la cinta dell'Impero come coloni e federati. Presero possesso delle campagne ormai spopolate e schiave dei pochi centri urbani e marittimi dipendenti dall'Oriente (Roma, Ravenna). Si fecero accogliere come soldati, coloni, contadini, poi quando l'esaurimento biologico e spirituale della romanità fu troppo grande per restar loro velato dal residuo mito di Roma - si imposero come condottieri, difensori, padroni. Ma con i Germani tornava a penetrare nel bacino mediterraneo quello stesso elemento nordico che già nella preistoria aveva indirizzato in senso «europeo» l'Europa del Sud. La Scandinavia è di nuovo madre di popoli - Scandia insula quasi vagina populorum velut officina gentium: Goti del Vástergótland, Burgundi di Bornholm (Burgundholmr), Vandali del Vendsyssel. Di nuovo la Germania è madre di bionde nazioni: ai biondi Indiani, Persiani, Elleni, Italici, succedono i biondi Franchi, Lombardi, Goti, che vanno a rinsanguare l'esausta Romània.
    Nasce un nuovo cielo di civiltà, la civiltà romanica-germanica dell'Occidente: romanica, non più romana, perché anche i popoli latini sono trasformati nella loro sostanza dall'apporto germanico. Una nuova élite nordica rinsangua l'Europa col suo «sangue azzurro» - sangre azul, come apparve alle popolazioni scure della Spagna la pelle rosea e mostrante le vene dei loro signori visigoti. Sono i «figli dei biondi» - i beni asfar, come apparvero agli Arabi quei crociati che, paradossalmente, rovesciavano il movimento Oriente-Occidente invertito da Costantino ottocento anni prima, e colpivano nell'Islam quella cultura arabomagica che proprio col cristianesimo era mossa alla conquista dell'Europa . Sono i cavalieri tedeschi - decor flavae Germaniae - che col Sacro Romano Impero di nazione germanica rialzano il simbolo imperiale dell'Occidente.


    Adriano Romualdi


    articolo tratto dal libro Gli Indoeuropei. Origini e migrazioni, Edizioni di Ar, Padova 1978.
    "Sarà qualcun'altro a ballare, ma sono io che ho scritto la musica. Io avrò influenzato la storia del XXI secolo più di qualunque altro europeo".

    Der Wehrwolf

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    La religione degli antichi Germani

    Stefano Giuliano, in "Margini" n. 28, ottobre 1999

    Le principali fonti delle nostre conoscenze relative alla religione dei Germani sono: le cronache degli autori latini (soprattutto la "Germania" di Tacito, scritta nel 98 d.C.); le "Vitae" dei missionari, redatte a cavallo tra l'epoca del Basso Impero e l'Alto Medioevo; le composizioni islandesi denominate "Edda poetica" (raccolta anonima di carmi risalenti, probabilmente, al IV-V secolo, ma compilata nella seconda metà 88 del XIII secolo d.C.) e "Edda in prosa" (composta da Snorri Sturluson verso il 1220 circa); le poesie degli scaldi, basate sul patrimonio comune germanico e caratterizzate dall'uso delle così dette "kenningar" (1) (IX-XIV sec.); e, infine, le celebri saghe norrene (scritte nei secoli XII-XIII), racconti eroici, unici nel loro genere, che si pongono alla base del romanzo moderno. A questo elenco si può aggiungere le "Gesta Danorum" di Sassone Grammatico, opera stilata tra il XII e il XIII secolo, ma si tratta di materiale fortemente rielaborato e razionalizzato. Altre fonti sono le genealogie dei re norvegesi; le cronache degli insediamenti vichinghi in Islanda e Groenlandia; i reso conti di viaggiatori non scandinavi, come l'arabo Ibn Fadlan; gli autori cristiani, come Adamo di Brema; nonché i toponimi, la numismatica, le ballate popolari, l'iconografia.
    Le fonti classiche costituiscono un primo determinante approccio per lo studio della religione antico-germanica. Autori come Cesare, Plinio, Tacito si occuparono delle popolazioni abitanti al di là del Reno, che premevano sul limes imperiale. Nondimeno, tali fonti, quando elencano le divinità germaniche lo fanno per il tramite della così detta "interpretatio romana" , ossia sovrapponendo i nomi degli dei di Roma a quelli locali. Si genera, in tal modo, il problema dell'individuazione delle divinità locali "nascoste" sotto tale strato e che, spesso, è tutt'altro che certa. Il processo di identificazione si fonda sul confronto delle funzioni ascritte agli dei in questione, del materiale iconografico, nonché delle corrispondenze nella scelta dei nomi dei giorni della settimana(2).
    In un celebre passo, Tacito ("Germania", 9) indica quattro principali divinità: Mercurio, Ercole, Marte, Iside. Mercurio, scrive Tacito, è sopra tutti gli dei e a questi si immolano vittime umane. Egli, dunque, è identificabile con *"Wodanaz" (antico nordico Odhinn, antico inglese Woden, antico tedesco Wuotan). L'associazione tra Mercurio, che non è certo il più importante degli dei greco-romani, e Wodanaz nasce dal fatto che entrambi presentano un aspetto decisamente oltretombale. E' nota, infatti, la funzione di accompagnatore dei morti riservata a Mercurio, così come è altrettanto noto che a Wodanaz era affidata la cura dei guerrieri caduti in combattimento. Altre motivazioni per associare i due dei poggiano sull'iconografia: nelle raffigurazioni, a Wodanaz sono attribuiti la lancia e il cappellaccio, e a Mercurio il pètaso (cappello a falda larga) e il caduceo (bastone alato con due serpenti attorcigliati). Un'altra conferma si trova nella struttura dei giorni della settimana, cioè nella corrispondenza del "dies Mercurii" con il giorno di Wodanaz (inglese Wednesday, olandese Woensdag, antico scandinavo Odhinsdagr). I Germani, continua Tacito, placano Ercole e Marte immolando animali. Marte è, generalmente, identificato con il dio *"Teiwaz" (antico nordico Tyr), come prova la corrispondenza tra il giorno di Marte e il giorno di Teiwaz (inglese Tuesday, antico frisone Tiesdei, ecc.). Ercole, a sua volta, in un primo tempo, fu identificato con *"Thuranaz" (antico nordico Thórr, antico sassone Thunar) in forza delle armi, la clava e il martello, con le quali sono sempre raffigurati entrambi. Tuttavia, in seguito, Ercole sarà sostituito da Giove, in quanto il martello di Thuranaz simboleggia la folgore e, dunque, è più vicino all'arma per eccellenza del dio supremo dei greci e dei romani. La nuova relazione sarà ribadita dal collegamento tra il giovedì, giorno di Giove e il giorno di Thuranaz (inglese Thursday, tedesco Donnerstag, ecc.). L'ultima divinità citata dal grande storico romano è Iside la quale, ovviamente, non è una dea romana, (tanto è vero che lo stesso Tacito suppone che i Germani potessero averne appreso il culto da contatti con altri popoli). Essa potrebbe essere identificata con Nerthus, dea della fecondità, di cui Tacito parla in seguito ("Germania", 40), e alla quale, nella settimana germanica, era consacrato il venerdì (Friday in inglese, Freitag in tedesco), e, cioè il giorno di Venere appunto. Ma l'effettivo ruolo e la giusta collocazione di questa dea sono molto vaghe. I dati relativi alla religione germanica più antica si riducono a poche altre affermazioni: il mito delle origini dei Germani dal dio Tuistone, nato dalla terra, e di suo figlio Manno, dal quale sarebbero nate le stirpi degli Ingevoni, degli Erminioni e degli Istevoni ("Germania" , 2), mito in genere spiegato tramite la comparazione con modelli dell'India vedica(3); l'esistenza di una classe sacerdotale dedita all'esecuzione dei rituali, all'interpretazione dei presagi, alla persecuzione dei rei ("Germania" , 7), ma non avente di certo lo stesso peso che avevano, per esempio, i druidi in Gallia; il culto delle Madri, divinità femminili, concepite a gruppi di tre e mai separate, la cui funzione è di protezione e tutela, e le cui tracce si possono ancora scorgere nel folklore popolare (si pensi alle fate delle fiabe).
    Appare evidente che il quadro di riferimento della religione germanica arcaica sia piuttosto scarso. Occorre arrivare all'epoca medievale, e, specificamente, ad un ambito geografico più propriamente nordico (ma etnicamente affine) per avere testimonianze più sicure e più sostanziose, e cioè alla Scandinavia dei secoli XI-XII.

    Gli dei principali nordico-germanici
    I maggiori dei sono suddivisi in due grandi gruppi: gli Asi e i Vani, dove la distinzione segnala una differenza di carattere funzionale, essendo i primi associati alla sovranità, al diritto, alla guerra, i secondi alla fecondità , alla pace. Gli Asi sono gli dei sovrani. Essi dimorano in Asgard (recinto degli Asi), una fortezza celeste situata al centro del mondo cui si accede attraverso il ponte dell'arcobaleno, "Bifröst" , perennemente sotto la minaccia dell'assalto dei giganti, i nemici mortali degli dei, rappresentanti delle forze del male, del caos, dell'oscurità.
    Odino è il dio più importante fra gli Asi. Il suo nome è connesso alla radice indouropea *Wat, nella quale è espresso il concetto di ispirazione e furore e che si ritrova nel latino vates , nell'antico irlandese faith (veggente), nel gotico *wots (furente, posseduto). L'ispirazione si lega al suo rapporto specifico con l'arte poetica, la parola ispirata e la saggezza, mentre il furore si pone in relazione con la guerra. Egli è, contemporaneamente il dio dei vivi e dei morti e può essere benigno o malevolo, positivo o negativo. Nei miti della creazione è detto che Odino conferì agli uomini "spirito e vita", egli è pertanto il padre degli uomini e degli dei. Egli, in particolare, è il padre di tutti coloro che cadono in battaglia. Costoro vengono accolti nella Walhalla , la sala degli eroi, sono chiamati Einherjar (prescelti), e lo accompagneranno nella battaglia cosmica finale che porrà termine al mondo, dopo la quale ricomincerà un nuovo ciclo.
    Tyr appartiene anch'egli alla stirpe degli Asi. Si tratta di un dio di grande importanza del quale però si sa pochissimo. Il suo nome deriva dall'indoeuropeo *Déiwos , "dio", e, probabilmente, era identificato come la divinità suprema del cielo. Nell'"interpretatio" romana egli viene inteso come Mars . Suoi attributi sono il coraggio e la saggezza che lo mettono in relazione, rispettivamente con la guerra e con la pace di cui è garante. Egli, infatti era la divinità che presiedeva l'assemblea, il Thing . Tyr è monco, suoi paralleli indoeuropei sono, come ha dimostrato Dumézil, il celta Nuada e il romano Muzio Scevola.
    Heimdallr è il guardiano degli dei. Egli siede ai limiti del cielo, presso il ponte Bifröst. Heimdallr 6 dotato di vista e udito finissimi per poter scorgere gli attacchi dei giganti. Egli è il garante dell'equilibrio cosmico, tanto è vero che il suo avversario diretto è Loki, figura che, viceversa, incarna la costante minaccia all'ordine del mondo. Heimdallr sorveglia l'ordinato svolgersi del ciclo cosmico e conosce con esattezza quando verrà la fine del mondo. In quel drammatico frangente, egli si ergeràe soffierà nel corno "Giallarhorn", il cui suono si sente in tutti e nove i mondi della cosmologia nordica, chiamando gli dei alla battaglia.
    Thor è il dio del tuono e come tale antichissimo. La sua figura trova confronti indoeuropei in Indra per gli indiani, Taranis per i celti e Jupiter per i romani. La sua presenza si fa sentire attraverso il tuono e il lampo, rappresentando quest'ultimo sia il potere sovrano, creatore, legato alla fertilità, che il potere distruttore. Thor svolge una funzione di tutela degli dei e degli uomini.
    Baldr, figlio di Odino e di Frigg, sposo di Nanna. Snorri lo descrive come il migliore degli dei, bello e luminoso, saggio ed eloquente. La sua essenza è quella di un principio della luce. Baldr è destinato a morire in circostanze tragiche a causa della malizia di Loki, ma rinascerà per presiedere alla nuova era che seguirà il Ragnarokk .
    Loki è una figura singolare tra gli dei ed è dotato di una grande ambivalenza. Egli, in taluni miti è il compagno di Odino e Thor, e spesso gli dei si traggono d'impaccio grazie alla sua astuzia e alla sua abilit\à. In altri, invece, Loki è colui che attenta all'ordine cosmico, un ingannatore maligno e temibile. Sebbene appartenga agli Asi, egli genera creature mostruose. Dalla sua unione con la gigantessa Angrboda nascono tre figli: Hel, guardiana del regno dei morti, Fenrir, il grande lupo, e il serpente che giace nell'oceano, le cui spire avvolgono tutta la terra. Egli è presente nei miti più antichi per sottolineare come il male abbia origine al principio stesso del mondo. Il suo atto più efferato è aver provocato la morte di Baldr. Per tale colpa è catturato dagli dei e incatenato a tre massi mentre un serpe velenoso è legato sopra di lui, così che il veleno gli gocciola sul volto. Loki si libererà solo alla fine del mondo allorché capeggerà le forze del male nel Ragnarokk.
    Njordr fa parte dei Vani edè il padre di Freyr e di Freya. Egli governa il vento, il mare e il fuoco, ed è il protettore dei viaggi di mare e della pesca. Il suo nome risale alla radice *Nertu - che contiene l'idea della forza vivificante e procreatrice. Nell'"interpretatio" sarebbe dunque da intendere come la dea Nerthus ponendo il problema, che rimane tuttora aperto, dell'identità sessuale di questa divinità.
    Freyr è il dio della fecondità e ha potere sulla pioggia e sul sole. Inoltre governa le ricchezze degli uomini (tra i suoi appellativi vi sono: "dio dell'abbondanza" e "dispensatore di ricchezza"). Il suo nome significa "signore". Egli dimora in "Alfheimr", il paese degli elfi, uno dei nove mondi della geografia nordica. Freyr èstato identificato con Yngvi, il progenitore, secondo Tacito, della tribù degli "Ingaevones" da cui deriva, per Snorri, la grande stirpe dei re norvegesi degli "Ynglingar".
    Freya è la dea dell'amore, della fertilità e della lussuria. Ella è anche in relazione con la guerra e le spettano la metà di caduti in battaglia (l'altra metà tocca ad Odino). E' maestra di magia, arte che si lega a pratiche sessuali, e, per la sua bellezza, è oggetto del desiderio dei giganti.

    Il Ragnarokk (fato degli dei)
    Nella concezione germanico-nordica il tempo ha un carattere ciclico. Il presente si regge sul difficile bilanciamento di forze contrapposte (gli dei contro le forze del caos, cioè i Giganti e i mostri), destinate a scontrarsi in una lotta finale che darà anche origine a un nuovo ciclo di vita.
    La fine del mondo annuncia anche, inesorabile, il fato degli dei. Il mito racconta che dapprima vi sarà un inverno aspro e terribile. Faranno seguito altre tre lunghe stagioni fredde senza soluzione di continuità, durante le quali vi saranno guerre, assassinii, sacrilegi. Nel cielo si vedranno eventi inequivocabili: il lupo Sköll ingoierà il sole, il lupo Hati la luna, le stelle scompariranno, ecc. I mostri saranno liberi: Fenrir uscirà dalla sua tana con le fauci spalancate, sbuffando fiamme dalle narici e dagli occhi, e il serpente di Midgardr si leverà dall'oceano, provocando alluvioni e maremoti. Il cielo si spaccheràe le potenze del male daranno l'assalto alla dimora degli dei. Davanti a tutti vi sarà Surtr, il demone di fuoco, quindi Loki, i giganti di ghiaccio e i demoni infernali. Costoro oltrepasseranno Biföst , che si frantumerà al loro passaggio. Heimdallr soffierà il suo corno e gli dei indosseranno l'armatura, accingendosi alla battaglia, seguiti dagli "Einherjar". Un destino di morte attende gli dei; nondimeno essi, risolutamente, vi marceranno incontro ("fatalismo attivo"). Odino sarà davanti a tutti. Egli si scontrerà col lupo Fenrir che lo ingoierà, prima di soccombere a sua volta, ucciso da uno dei figli di Odino, Vi\darr, il quale gli conficcherà la spada in gola fino al cuore. Thor combatterà col serpente e riuscirà ad ucciderlo, ma morrà subito dopo a causa del veleno di questi. Freyr lotterà con Surtr e cadrà anch'egli. Il cane infernale, Garmr, affronterà il dio T yr e moriranno entrambi, così come Loki e Heimdallr. Quindi, Surtr appiccherà il fuoco, distruggendo tutto eccetto taluni luoghi dove saranno radunati i morti (da una parte i buoni e da un'altra i malvagi, secondo una concezione che ha, probabilmente, subito degli influssi cristiani). Quando il fuoco avrà arso ogni cosa, vi sarà un nuovo inizio. La terra riemergerà dalle acque, nuovamente verde e fiorente. Un nuovo sole splenderà nel cielo. Gli dei sopravvissuti, i figli di Odino Vidarr e Vali, i figli di Thor, Baldr tornato dagli inferi, daranno inizio ad una nuova stirpe divina e, da un uomo e una donna, avrà inizio una nuova generazione umana. Tuttavia il tenebroso drago Nidhöggr solcherà i cieli, segno che la rigenerazione del mondo non significa la rottura dell'equilibrio tra forze opposte né la definitiva scomparsa del male.

    Note:
    L'asterisco che accompagna alcune parole contenute nel testo indica i termini ricostruiti secondo le regole della filologia. (N.d.R).

    (1) Si tratta di metafore piuttosto elaborate, composte di due termini per cui, ad esempio, la nave è il "cavallo dell'onda", la battaglia è "la voce della spada" , il guerriero è "albero della battaglia", ecc.
    (2) La suddivisione dei giorni della settimana venne adottata in queste regioni nel IV secolo d.C. e si basava sulla ripartizione romana.
    (3) Tuistone contiene, etimologicamente, il numerale 2, \è interpretato come il Gemello e confrontato con il dio vedico Yama, che significa appunto "gemello", mentre Manno, che significa "Uomo", è equiparato a Purusa ("Uomo"), l'uomo primordiale da cui nacque l'umanità.

    L'Autore collabora con la cattedra di Storia delle Religioni dell'Istituto Universitario Orientale di Napoli. Ha pubblicato saggi e recensioni su riviste specializzate.
    "Sarà qualcun'altro a ballare, ma sono io che ho scritto la musica. Io avrò influenzato la storia del XXI secolo più di qualunque altro europeo".

    Der Wehrwolf

 

 
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