Il presidente dell’Autorità nazionale continua a ricevere i suoi 97 milioni di dollari l’anno, ma non può più disporre del flusso di denaro che alimentava un enorme fondo nero

Il ministro delle Finanze Fayyad ha ripreso il controllo dei soldi pubblici, sottraendo potere al raìs


Però la cerimonia che più ha eccitato docenti e studenti si è svolta separatamente da quella di laurea. Ha avuto per protagonisti un cattedratico, il pacato Mahmoud al-Atshan, e un neo-diplomato, l'intrepida Areej al-Asaly. Hanno ricevuto dai rispettivi colleghi, fra applausi e grida di giubilo, l'Oscar della perseveranza assegnato a chi, ogni giorno, per oltre un anno, ha superato con dignità il maggior numero di posti di blocco (ce ne sono almeno 80, in Cisgiordania) per raggiungere l'università, inghiottendo con fierezza i controlli e le umiliazioni imposte dai soldati israeliani. La studentessa Nadine non ha dubbi: «Per ora il ritorno alla vita è più importante della conquista della pace e dei nostri diritti nazionali». Nell'operosa Ramallah, tornata alla vita, oggi si pensa molto alle necessità quotidiane e poco a un'ideologia di violenza che ha prodotto inutili lutti, crescente povertà e disoccupazione, e soprattutto una severa sconfitta. Mancano i soldi, è vero, ma i negozi sono affollati da gente che vuole soddisfare, senza timori di rappresaglie, i bisogni essenziali, o appagare almeno la vista. La linda palazzina che ospita gli uffici del primo ministro Mahmoud Abbas (Abu Mazen) si staglia come un monumento al nuovo corso, dove la retorica e la critica delle armi sono state riposte in cantina. A testimoniare la tragedia di oltre 1000 giorni di rivolta sanguinosa, c'è soltanto la desolazione della Mukata, il quartiere degli spettri. Dietro una montagna di carcasse metalliche che un tempo erano le Mercedes scure di servizio e le jeep blindate del capo dell'Autorità palestinese, sventola malinconica la bandiera che segnala un minuscolo angolo di vita e di dignità nazionale in un deserto di distruzione.
Laggiù si consuma il dramma politico dell'assediato più illustre, Yasser Arafat, che giorno dopo giorno vede cadere i tasselli di quello che un tempo era il suo impero. La tregua che tiene, più forte del generale scetticismo, per il vecchio rais è la conferma della sua sostanziale sconfitta. Tutti ne sono convinti: nulla tornerà come prima.
I 140.000 dipendenti pubblici, che ricevono lo stipendio (circa 300 euro) dall'Autorità palestinese, hanno cambiato padrone. Non sono più l'esercito del consenso creato da Arafat, sempre pronto a promuovere i pretoriani e a comprare i nemici con le mille lusinghe della corruzione e del patronage. La verità è che la hudna (tregua), parola araba che assieme a intifada (rivolta) e shahid (martire) appartiene ormai al lessico internazionale, si sta consolidando grazie al denaro che i nuovi dirigenti hanno sottratto al controllo di Arafat. Il quale continua a ricevere l'assegno presidenziale di 97 milioni di dollari all'anno, ma non può più disporre del flusso di contante che entrava disinvoltamente in un gigantesco fondo nero, gestito soltanto dal capo. La vera spallata al potere di Arafat non l'ha assestata dunque il felpato e taciturno Abu Mazen, ma il potente ministro delle Finanze, il riformista Salam Fayyad, paladino della moralizzazione. Fayyad è riuscito a portare nelle casse dell'Autorità le ingenti tasse sul petrolio, sulle sigarette nazionali (le Imperial e le Alia, fabbricate ad Abu Dis), su quelle di importazione, oltre ai proventi di una società tuttofare dal budget misterioso, che formalmente era pubblica, sostanzialmente schiacciava quasi tutte le iniziative private e autonome, e alla fine contribuiva ad ingrassare il meccanismo della corruzione e i gruppi estremisti.
Le radicali riforme pretese dagli israeliani, invocate da gran parte della popolazione palestinese, e imposte dai mediatori americani, erano legate soprattutto al controllo della cassa. Oggi il timido Abu Mazen, che non ha mai creduto alla forza della violenza, delle pietre, dei mitra, degli attentati suicidi, ma all'efficacia persuasiva del dialogo, degli impegni e della necessità di negoziare sempre e comunque, può esibire le chiavi del forziere ai suoi ministri. Eliminato il ricatto del denaro, non è stato difficile, almeno nella prima fase, portare 3 dei 9 apparati di sicurezza sotto l'autorità del ministro dell'Interno (che è sempre Abu Mazen) e del fido coordinatore, Mohammad Dahlan. Un po' meno agevole strappare ad Arafat il controllo degli altri 6 apparati, compresa l'intelligence. Ma al raìs è giunto il ruvido ed eloquente messaggio dell'inviato egiziano Omar Suleyman, che gli ha detto: «Se Abu Mazen vince, ne avrai grandi vantaggi; se perde, ne pagherai il prezzo».
Arafat, messo alle strette, sa trasformarsi da leone in agnello. Però, nelle ultime settimane, seguendo un personalissimo corso di sopravvivenza politica, ha cercato ostinatamente di aggirare i divieti del nuovo governo, elevando decine di fedeli notabili al rango di ministri paralleli (con tutti i benefit previsti).
Come risposta, ha avuto la bocciatura del ministro delle Finanze, perché «non c'è denaro per spese straordinarie», quindi (indirettamente) del premier, e si è dovuto adattare ad un ruolo ridotto. Con l'obiettivo di proteggere il potere formale della sua presidenza, l'immagine di simbolo della riscossa palestinese e, probabilmente, per strappare la promessa della sua libertà di movimento, con diritto al ritorno.
Il denaro ha dunque piegato Arafat, come ha piegato Hamas. Durante l'Intifada, gli islamici conquistavano posizioni e consensi grazie ad un capillare lavoro sociale (leggi: aiuti e stipendi), finanziato soprattutto dall'esterno. Esemplare, come racconta Nabil Khatib, 40 anni, fratello di uno dei ministri di Abu Mazen, direttore per la Palestina della Tv Mbc, intellettuale moderato, cresciuto con il gusto dell'analisi e ostile alla retorica, il caso saudita. «Una tv del regno, all'inizio della seconda intifada, promosse una Telethon araba. Sessanta milioni di dollari furono raccolti in una settimana dal Comitato popolare a sostegno del popolo palestinese. Solo che il denaro, sotto il controllo del ministro degli Interni saudita, fu destinato a organizzazioni sociali islamiche». Alla fine è arrivato ad Hamas, e sicuramente alla sua ala militare. Così si comprende l'impegno dei Paesi della regione (Arabia in testa), strappato da Bush al vertice di Sharm el Sheikh, per interrompere ogni finanziamento agli estremisti. Così si comprende perché, realisticamente, Hamas e la Jihad siano state convinte ad accettare la tregua per prime.
La forza di Abu Mazen, che non ama le folle, il contatto fisico, la televisione, i tappeti rossi e le suggestioni della retorica populista, può però diventare la sua debolezza. Per migliorare le condizioni di vita dei palestinesi ha bisogno del discreto aiuto israeliano: discreto perché, se fosse palese, lo indebolirebbe. I palestinesi, per ora, hanno messo da parte i grandi obiettivi. Chiedono lavoro, sicurezza, e domandano due risultati immediati: il rilascio dei prigionieri (che sono circa 10.000) e la fine dell'assedio, a cominciare da quello subito da Arafat.
La decisione del governo Sharon di procedere alla liberazione dei primi 350 detenuti, accusati di reati amministrativi (per esempio: essere entrati illegalmente in Israele), è un passo significativo. Segno che la hudna non è soltanto una promessa, e che il percorso verso la pace non è più una chimera. Ma sarà vero? Fermiamoci qui, perché in Medio Oriente è pericoloso negare spazio ai dubbi.

Antonio Ferrari


© Corriere della Sera

97 milioni di dollari???? Why? Non ci saranno mica fondi UE???

Cordiali Saluti