Ecco la lettura dei dati dell'autoinchiesta svolta l'anno scorso al campeggio GC.


Chi sono e cosa fanno

Quasi i 3/4 di coloro che hanno compilato il questionario sono maschi. La composizione per genere trova un fedele riscontro nella microcomposizione del laboratorio di conricerca, dove i maschi erano circa il 70%.

L’età è decisamente bassa, con una media che si attesta intorno ai 22 anni. I dati disaggregati confermano l’impressione di una forte presenza di ragazzi e ragazze molto giovani: il 70% è tra i 15 e i 23 anni, mentre solo il 20% va dai 25 ai 30 (età massima per l’iscrizione ai G.C.). Va da sé che prevalgano ampiamente gli studenti: 20% i medi, 55% gli universitari (di cui un 20% lavora anche). I lavoratori a tempo pieno sono l’11%, i disoccupati quasi il 10%.

Che circa il 70% viva con i genitori sembra più essere un riflesso della giovane età che non del fatto che i giovani tendano ad uscire sempre più tardi di casa. E’ vero tuttavia che, tra gli universitari, meno del 30% è fuorisede: prevale quindi la scelta di iscrizione a facoltà che non comportino un allontanamento dal proprio luogo di residenza.

Infine, la provenienza geografica: il 57% circa proviene dal Centro-Sud (con forti concentrazioni in Sicilia e in Campania), il restante dal Nord (la regione più presente è decisamente la Toscana). Anche qui viene confermata la geografia politica dei G.C., che trovano soprattutto nel Sud le maggiori risorse soggettive e riscontri quantitativi. Per spiegare ciò, potrebbero essere formulate almeno due ipotesi da verificare e approfondire. La prima riguarda il contesto politico del Sud, dove la presenza di realtà dell’area antagonista e della sinistra radicale è molto meno densa rispetto al Centro-Nord, il che lascia degli spazi vuoti occupabili da esperienze come quella dei G.C. La seconda ipotesi si riferisce alla struttura di Rifondazione, che al Sud ha maglie organizzative più larghe, lasciando quindi campo libero alle sperimentazioni territoriali dei giovani del partito. Su questo punto sarebbe tuttavia interessante andare oltre, e inchiestare anche le possibili componenti e caratteristiche soggettive che portano i G.C. ad essere forza fresca e vivace soprattutto nelle regioni meridionali.

Presenza politica e vissuti nello studio/lavoro

E’ da tempo tema comune di discussione all’interno del movimento la difficoltà di radicare negli ambiti sociali e nella quotidianità le istanze conflittuali e di trasformazione che si materializzano nei grandi eventi e nelle sempre più grosse manifestazioni di piazza. Tralasciando di entrare più nel dettaglio, problematizzando tale analisi (bisognerebbe infatti discutere anche di che cosa sono oggi gli ambiti sociali a fronte del processo di lavorizzazione dell’intero agire umano e una conseguente rispazializzazione e differente temporalizzazione del lavoro stesso), possiamo qui limitarci a mettere in evidenza un’effettiva corrispondenza di tali difficoltà con i risultati dell’inchiesta. Infatti, benché si tratti di militanti, solo il 58% degli studenti dice di fare attività politica all’interno della scuola/università. La percentuale scende al 35% per chi lavora (sommando studenti-lavoratori e lavoratori tout court).
Eppure, la possibilità di costruire percorsi politici è una delle risposte più gettonate (37,5%) alla domanda sugli aspetti più importanti del lavoro (presente o futuro). Nell’occupazione professionale, la cosa più importante è la stabilità e la sicurezza (42,5%). Questo è un aspetto da approfondire. Tra coloro che lavorano, il 20,7% ha contratti a tempo indeterminato, il 7% circa a tempo determinato (di cui la metà con CFL o apprendistato), mentre la grande maggioranza fa lavori cosiddetti atipici (che in realtà sono oggi, soprattutto tra i giovani, i più tipici): soprattutto in nero (41,4%), o come collaboratore (10,3% occasionale, 6,9% co.co.co). Il quadro è completato da un 10,3% che è socio di cooperativa e da un 3,4% che lavora in proprio senza dipendenti. Si tratta di capire meglio se la forte richiesta di stabilità che emerge corrisponda ad una proposizione politica – ossia la legittima rivendicazione di nuovi diritti che si oppongano agli interessi di parte padronale –, oppure ad un’aspirazione a reintrodurre le classiche forme di dipendenza che hanno contrassegnato l’epoca del taylorismo-fordismo. Del resto, nell’analizzare la precarietà evidente nello spettro delle forme di occupazione oggi, va anche considerata l’altra faccia della medaglia, ossia l’uso di parte della flessibilità. I contratti a tempo indeterminato sono indubbiamente diminuiti negli ultimi vent’anni, ma spesso i giovani e gli studenti scelgono di non essere assunti per gestire meglio i propri tempi e renderli compatibili con lo studio e con i propri interessi. Andrebbe quindi problematizzata la differenza tra flessibilità e precarietà, e l’ambivalente incontro/scontro tra interessi e forze, inchiestando più approfonditamente scelte, esigenze e prospettive dal lato soggettivo di chi le fa o le subisce, o meglio le fa e le subisce, nella dinamicità del rapporto.

Se il 35% opta per la possibilità di imparare cose nuove ed esprimere le proprie capacità, per il 30% sono importanti anche le condizioni di lavoro, mentre solo l’8,8% nutre fiducia in un’occupazione che sia coerente con il percorso formativo. Esiste quindi un evidente divario tra le aspettative e le concrete valutazioni sulla realtà; tutto sommato, uno degli aspetti più importanti del lavoro è il reddito (41,3%). Come a dire: (possibilmente non) pochi, maledetti e subito!

Giovani Comunisti e agire politico

Di fronte al fatto che il 70% degli intervistati ha iniziato a fare attività politica dopo il ’97, pur tenendo in debito conto la giovane età degli stessi, non si può non sottolineare come ciò rappresenti un dato politico rilevante: si conferma infatti che l’emergere sulla scena globale del movimento dei movimenti ha creato uno spartiacque cronologico rispetto al passato. Tanto è vero che il 13,4% ha cominciato a fare politica dopo le giornate del luglio genovese, evento attorno a cui è precipitata tutta la capacità simbolicamente e materialmente periodizzante del movimento.
La media di iscrizione ai G.C. si attesta sui 4 anni; molto rilevante (30%) è il numero di coloro che si sono iscritti negli ultimi due anni e mezzo, quindi dopo Seattle per avere un riferimento politico temporale. Da notare che quasi il 25% di coloro che hanno compilato il questionario non sono iscritti ai G.C., partecipazione certo non irrilevante ad un campeggio di un’organizzazione politica.

Tra gli iscritti , è interessante notare la provenienza socio-politica, ossia la partecipazione ad altre attività più o meno organizzate prima dell’approdo ai G.C. Molti vengono da collettivi, ancor più vi partecipano ancora (oltre il 43% di chi ha risposto): prova tangibile della connotazione di movimento assunta dall’agire dei G.C. anche a livello territoriale. Stessa considerazione si può trarre dalla partecipazione alle attività dei centri sociali: per il 26% è tuttora elemento della propria militanza, il 30% ne ha fatto parte in passato. Quasi il 15% fa anche volontariato, il doppio lo ha fatto in passato. 1 su 6 viene da organizzazioni religiose ed ha partecipato o partecipa tuttora alle attività di ONG. Un po’ meno nel loro passato sono stati interni a gruppi di tifosi organizzati.

Il giudizio sul percorso dei G.C. varia tra la valutazione a livello territoriale e quella a livello nazionale. Non tanto rispetto ai giudizi positivi, che sono simili con gradazioni diverse: il percorso è ottimo a livello territoriale per il 20,9% di chi ha risposto, per il 9,8% a livello nazionale, mentre è buono rispettivamente per il 25,8% e per il 37,7%. A mutare con una certa rilevanza sono gli insoddisfatti: il 37% giudica insufficiente o comunque non è soddisfatto del percorso dei G.C. sul piano territoriale, meno (23%) a livello nazionale. I punti deboli maggiormente messi in rilievo sono le carenze organizzative e una rete di militanti non adeguata. I punti di forza sono invece indicati nella capacità di stare dentro i movimenti e in un progetto che aggrega. Motivi di insoddisfazione o comunque di spinta a fare di più soprattutto a livello territoriale sono per alcuni rintracciabili nel radicamento: da tutti riconosciuto come fondamentale per un progetto politico, da diversi è ritenuto insufficiente.

Nel complesso, comunque, emerge una valutazione positiva dei percorsi e dell’azione dei G.C. negli ultimi anni, segnati da importanti e coraggiose scelte politiche che hanno portato la federazione giovanile di un partito ad essere pienamente interna alle dinamiche di movimento. Quasi 9 persone su 10 ritengono giusta la linea di azione intrapresa dai G.C. all’interno del movimento dei movimenti. Tutto sommato, i giovani militanti sembrano sentire un senso di appartenenza innanzitutto ai G.C. Così, se l’85% ritiene di essere molto o comunque abbastanza valorizzato dal gruppo di cui fa parte, la condizione dei giovani all’interno del partito viene valutata con molto moderata soddisfazione: alla richiesta di attribuire ad essa un voto, i giudizi oscillano dallo 0 all’8, attestandosi su una media di 6,25. La valutazione non entusiastica è confermata dal quasi 30% di chi ha risposto che – con diverse gradazioni – ritiene insoddisfacente la condizione giovanile nelle strutture di partito.

La militanza

Negli ultimi anni si sono sviluppate svariate riflessioni sull’attualità o meno della categoria di militanza e di militante. Come spesso avviene, sono stati i movimenti reali a portare una critica materiale ai modelli tradizionalmente incarnati nelle figure di militanti politici e rivoluzionari (“ufficiali” o “eretici”) scolpite nell’immaginario del secolo appena trascorso. Non è un caso, quindi, che un’esperienza come quella dei G.C., che abbiamo prima definito di frontiera, viva con particolare attenzione critica questo nodo. Quasi nessuno vuole abbandonare una categoria che ha così profondamente innervato di senso l’agire politico e l’eredità che si fa propria: tuttavia, oltre 1/3 di chi ha risposto sottolinea che è un concetto che va ripensato, non può oggi essere vissuto e inteso come lo era in passato. Per molti il sacrificio rimane ineludibile, ma ciò non esclude il piacere o il vivere un cambiamento di vita. Ma soprattutto, la militanza è impegno concreto per trasformare l’esistente. E’ la voglia di trasformazione a riempire i vissuti, le azioni e i desideri di chi fa politica. Le tradizionali motivazioni legate alla difesa dei diritti o al senso di giustizia cedono oggi il posto alla voglia di trasformare la società, addirittura al desiderio forte di sfidare e rovesciare un mondo che non piace. E non certo irrilevante è la spinta data dalla voglia di costruire insieme ad altri una grande esperienza. Anche questo è un segno tangibile di come l’irrompere dei movimenti abbia cambiato contemporaneamente la percezione di sé e degli spazi del possibile.

Ciò è visibile anche dal punto di vista del lessico politico. La categoria di egemonia, di cui è intrisa la secolare storia dei partiti marxisti, non è più così basilare. Per la maggior parte è complementare alla categoria di contaminazione, forgiata dall’agire plurale e sincretico che alimenta il movimento dei movimenti. Ma, a fronte di un 10% che ritiene il concetto di egemonia ancora fondamentale e attuale, il 27% non esita a disfarsene, sostenendo che è più importante ragionare dentro percorsi di contaminazione.

Quasi tutti sottolineano come l’attività politica abbia cambiato la propria vita. E non si tratta di un impegno sporadico o occasionale, concentrato solo sui grandi eventi, se è vero che quasi 9 persone su 10 affermano di dedicare tutti o più giorni alla settimana all’attività politica. Chi ha risposto al questionario afferma di avere responsabilità importanti nell’ambito dell’organizzazione: poco meno del 60% si definisce un dirigente o comunque tra quelli che prendono le decisioni, poco più del 20% un militante di base, il 15% circa percepisce il proprio impegno come limitato.

La voglia di partecipare a percorsi collettivi, comunitari potremmo dire, è confermata dal fatto che, al di fuori dei tempi della militanza strettamente intesi, quasi tutti continuano a frequentare i compagni e le compagne del proprio gruppo. Il senso di appartenenza non si traduce certo in una dichiarazione di fedeltà eterna: i più sono decisi e sicuri nell’affermare che continueranno il proprio impegno politico, ma diversi non escludono di poterlo fare all’interno di un altro gruppo o realtà politica.

Identità comunista e movimento reale

Non è certo facile dire nelle quattro righe di un questionario che cos’è l’identità comunista o la rivoluzione, né era questo l’obiettivo della domanda. Più interessante è carpire dei flash, finanche delle associazioni mentali che possano aprire squarci di ragionamento più ampi. Le risposte preconfezionate o “romantiche” non sono certo mancate, e non poteva essere diversamente; tuttavia, sotto il velo dell’ideologia emergono anche indicazioni nient’affatto scontate. C’è chi sostiene, e sono parecchi, che l’identità comunista non può essere un dogma, un ideale eterno scolpito nella pietra che sopravvive ai movimenti che l’hanno alimentata e ai desideri di chi l’ha vissuta: prevale un’immagine di fluidità, di necessità di adeguamento ai tempi e reinvenzione nel tempo, pena diventare un vuoto contenitore e un’atrofizzante ipostasi. O addirittura di essere, come non manca di sottolineare qualcuno, irrimediabilmente troppo legata al passato. La rivoluzione, così, non è un percorso lineare, una necessità della storia, come sta scritto nei sacri testi dell’ortodossia marxista: è un desiderio di liberazione, una spinta alla trasformazione radicale, la concretizzazione del rovesciamento del mondo, la ricerca di felicità rintracciabile non solo nel lontano sole dell’avvenire, ma qui e ora. Insomma, “tutto quello che prima non era possibile ed ora lo è”.

E lo spazio del possibile non può certo essere rinchiuso negli angusti confini della legalità costituita. Solo una piccola minoranza è contraria ad azioni al di fuori della legalità, anche se prontamente sottolinea che vi si può ricorrere se non ci sono altre strade disponibili. L’85% non ha dubbi: la legalità non è un valore. I più sostengono che bisogna valutare di volta in volta se è utile violarla. Molti – il 35% – vanno oltre: non credono a questa legalità, quindi non hanno problemi ad andare contro di essa se è il caso. La costituzione smette di essere una vincolante carta formale per essere affidata alla scrittura delle dinamiche materiali di conflitto e di costruzione di nuove forme di vita comune. I girotondi sono molto lontani da qui: i Giovani Comunisti non sono proprio i figli di Nanni Moretti!

Interessi, letture e nuove tecnologie

A confronto con la bassa affezione a libri e giornali della popolazione italiana, non si può certo dire che i giovani militanti in questione leggano poco, o almeno così dicono. 7 su 10 leggono i quotidiani tutti i giorni o quasi. Oltre la metà afferma di aver letto più di 5 libri nei precedenti 6 mesi, al di fuori di quelli imposti dallo studio/lavoro; il 23% ne ha letti da 3 a 5, un po’ meno quelli che si sono limitati ad uno o due testi. A prevalere nelle preferenze sono i saggi politici e storici (ovviamente va tenuto conto anche delle esplicite finalità del questionario, che possono avere in una certa misura condizionato la risposta); molto interesse riscuotono i romanzi e la narrativa in generale, con particolare attenzione ai classici della letteratura; tra i gusti c’è un po’ di fantascienza, scarso entusiasmo per gialli e fumetti. Una percentuale non irrisoria si dichiara onnivora, pronta a leggere di tutto.

I titoli dei libri preferiti rispecchiano con ancora più chiarezza l’eterogeneità dei gusti. I classici del pensiero comunista e rivoluzionario sono molto presenti: su tutti dominano Marx ed Engels (Manifesto del partito comunista innanzitutto, ma non mancano Il capitale e L’ideologia tedesca; nessuno cita i Grundrisse) e Lenin (Stato e rivoluzione è in cima alle preferenze, molto interesse desta L’estremismo malattia infantile del comunismo, meno il Che fare?: anche questo forse è segno dei tempi, il Lenin dell’estinzione dello Stato prevale su quello del progetto e dell’organizzazione). Pochi citano Trotzki e Gramsci, qualcuno legge Stalin o Bakunin, mentre fanno capolino nelle librerie Reich, Marcuse e Adorno, tra i testi di riferimento del ‘68. Qualche citazione la guadagna anche John Reed con I dieci giorni che sconvolsero il mondo.

Sicuramente molto letto è George Orwell, che con La fattoria degli animali e 1984 ha espresso la delusione di una generazione per gli esiti rivoluzionari, profetizzando il tragico avvento di una società del controllo senza nessuna via di scampo. Grande entusiasmo suscita la letteratura latino-americana, a cominciare dall’amatissimo Cent’anni di solitudine di Gabriel Garcia Màrquez, senza dimenticare autori come Saramago e Sepulveda. Se qualcuno si avventura tra Nietzsche, Celine e Deleuze, non mancano certo nomi classici della letteratura, quali quelli di Dostoevskij o Hemingway; molti citano Il piccolo principe di Saint Expury, un classico della narrativa fantastica. Tra gli italiani il più letto è Calvino, qualche preferenza va a Benni, mentre poca attenzione sembra essere dedicata allo sperimentalismo letterario di Nanni Balestrini o al romanzo storico ottimamente interpretato dal nome collettivo di Wu Ming (ex Luther Blisset) con Q e successivamente Asce di guerra. Insomma, pare prevalere un certo orientamento tradizionale nella composizione delle proprie biblioteche.

Tra i testi politici degli ultimi anni, non può certo mancare chi mette No Logo di Naomi Klein tra i libri da cui non ci si può separare. Da diversi è citato Impero di Negri ed Hardt, testo capace di suscitare e aprire un grande dibattito a livello internazionale, la cui eco non è evidentemente estranea ai giovani militanti. E di Toni Negri – il “cattivo maestro” un tempo maledetto dalla miope sinistra italica – c’è chi arriva a segnalare L’anomalia selvaggia, impegnativo testo su Baruch Spinoza.
Le nuove generazioni di movimento sono spesso state definite – con intenti scioccamente spregiativi o di svuotamento dei contenuti propriamente politici – figlie di Pulp fiction e di Matrix. Non dovrebbe quindi sorprendere che film come quelli di Quentin Tarantino e dei fratelli Wachowski siano nella “top ten” delle preferenze dei giovani militanti. Ciò che alcuni non capiscono, vittime di un vecchio pregiudizio di malinteso culturalismo e di un’austera etica sacrificista, è che film come Matrix o romanzi quali il vibrante cyberpunk di un Bruce Sterling – invero poco letto, al pari del profetico Philip K. Dick – aiutano spesso a comprendere di più i processi reali in cui siamo immersi che non voluminosi tomi di tradizioni che vengono lasciate alle spalle. Detto questo, va anche sottolineato che i gusti cinematografici dei nuovi attivisti politici sono in realtà più complessi. L’impegno politico in cassetta o su grande schermo è riversato – soprattutto dai giovani siciliani – nell’amatissimo I cento passi, che racconta la storia di Peppino Impastato; oppure nel politicamente romantico Terra e libertà di Ken Loach, nell’italiano Novecento di Bertolucci, nel classico del ’68 pacifista americano Fragole e sangue, nel film di denuncia sui desaparecidos argentini Garage Olimpo, nel recente America history X. Molto guardati sono classici della fantascienza come 2001 Odissea nello spazio, Blade runner e l’immancabile saga di Guerre stellari. I cult sono rispettati: dai tradizionali Apocalipse now ad Arancia meccanica, fino a quelli di nuova generazione come L’odio. Non manca uno dei principali frutti del neorealismo italiano qual è Roma città aperta, mentre di Kubrick – oltre ad Arancia meccanica – si preferisce il “vecchio” Dottor Stranamore piuttosto che le ultime fatiche. Piacciono molto le commedie italiane: Non ci resta che piangere, Mediterraneo, L’armata Brancaleone così come Totò hanno un posto privilegiato nelle videoteche ideali dei G.C. I quali non dimenticano il western atipico e dissacrante di Sergio Leone de Il buono, il brutto, il cattivo, film cult nella generazione di movimento degli anni ’70. Infine, visto il periodo, non potevano certo mancare le recenti produzioni sulle giornate di Genova, da Bella ciao a Carlo Giuliani ragazzo, risultato innanzitutto dell’incalcolabile quantità di immagini autoprodotte dal movimento.

E proprio le nuove tecnologie – che hanno permesso anche quella produzione di immagini e filmati – sono giudicate importanti per l’attività politica, ed è questo il principale utilizzo che ne viene fatto da parte di chi ha risposto al questionario. Tuttavia, va anche detto che non esce un quadro di tecnofilia verso i nuovi mezzi di comunicazione e informazione: se la maggior parte afferma di usare Internet tutti i giorni o comunque spesso, oltre 1 su 3 dice di farne un uso occasionale, o addirittura di non usarlo per niente. Quindi: cogliere le potenzialità dei nuovi mezzi, ma senza illusori feticismi.

Uno sguardo di genere

Al questionario hanno risposto sia ragazze che ragazzi, per essere più precisi su un totale di 104 intervistati il 26,8% sono donne. Da subito è importante tenere conto del fatto che le ragazze sono solo 22 rispetto al totale dei questionari raccolti; come già si diceva inizialmente, questa composizione rispecchia anche quella del laboratorio di conricerca. Nel paragrafo che segue proviamo ad analizzare i dati raccolti per evidenziare, se esistono, specificità di genere maschili o femminili; tenteremo di fare emergere alcuni elementi di riflessione e possibili indicazioni di inchiesta da affrontare e approfondire nella costruzione della fase successiva della conricerca.

Occorre, inoltre, premettere che ciascuna analisi elaborata in questa sede andrebbe a sua volta approfondita utilizzando strumenti differenti: per esempio attraverso interviste qualitative che indaghino più a fondo le differenze di genere che nella materialità delle lotte e dei percorsi si dispiegano.
Solo il 52,9% delle ragazze che hanno risposto al questionario affermano di svolgere attività politica all’interno della propria scuola o università, contro il 60,9% degli uomini. Questo divario aumenta moltissimo quando si chiede se si svolge attività politica o sindacale sul proprio luogo di lavoro: il 40% degli uomini rispondono in modo affermativo contro il 16,7% delle donne. Tenuto conto della giovane età delle intervistate, è una differenza percentuale abbastanza significativa: sembrerebbe, infatti, maggiore per le ragazze la difficoltà di radicamento nei luoghi dove si trascorre gran parte della propria quotidianità di quelle istanze di trasformazione che si materializzano nelle grandi manifestazioni o nei contro-vertici. Questa considerazione potrebbe essere messa a confronto con chi ha evidenziato tra gli aspetti più importanti della propria occupazione le condizioni di lavoro: 32,8% gli uomini e 22,7% le donne. Si può dunque affermare che le ragazze sono meno attente alle condizioni di lavoro? Sono complessivamente più accettanti in questo senso rispetto degli uomini? Non crediamo si possa rispondere con i dati a disposizione a queste domande, ma è importante segnalare tali discrepanze e in una fase successiva della conricerca provare ad indagarle in modo più approfondito. In ogni caso se si tiene anche presente la differenza percentuale che intercorre (13,6% contro il 22,4% degli uomini) tra chi ha segnalato come aspetto rilevante sul lavoro la coerenza con il proprio percorso politico, sembrerebbe che le ragazze separino maggiormente l’ambito della politica dall’ambito lavorativo.
Per le donne nell’ambito professionale è particolarmente importante l’indipendenza e l’autonomia (40,9% versus 22,4%): il processo di femminilizzazione del lavoro, da tante evocato come un terreno in cui si possono aprire nuovi spazi di legittimazione e protagonismo, sembra essere in un certo senso confermato dato che le giovani generazioni desiderano non solo contare, ma anche garantirsi spazi di indipendenza e autonomia. Ma quali margini di ambivalenza si aprono in questo senso? Accettazione e gioia per poter solcare ambiti una volta preclusi o potenziale desiderio di trasformazione, forti di esperienze prima negate, per un altro mondo da costruire?
Un’altra differenza di genere significativa è quella che si riscontra tra chi ha scelto tra gli aspetti più importanti del lavoro la stabilità e la sicurezza: il 54,5% delle ragazze contro il 37,9% dei ragazzi. Questo è un dato in controtendenza con quelli statistici che indicano una maggioranza di donne impiegate in occupazioni flessibili, tanto da far dire “la flessibilità è donna”. Precedentemente abbiamo cercato di problematizzare questo nodo, provando a non confondere precarietà con flessibilità, rivendicazione di nuovi diritti e desiderio di gestione del proprio tempo di lavoro. Forse si potrebbe supporre che nella scelta delle ragazze possa in qualche modo influire il pensiero della costruzione di una famiglia, o meglio la possibilità di fare dei figli (che richiede una stabilità e una sicurezza maggiore se pur precarie!), ma sono appunto solo ipotesi da approfondire e indagare.
Tra gli aspetti più importanti sul lavoro il doppio delle ragazze rispetto ai ragazzi ha segnalato la coerenza con la formazione ricevuta. Questo dato va forse messo in relazione con il fatto che statisticamente le donne sono coloro che vanno meglio a scuola: sono quelle che in numero maggiore portano a termine il proprio percorso di studio, prendono voti migliori e rispettano i tempi imposti. Probabilmente, più degli uomini, le donne riconoscono nella “formazione ricevuta” un canale di emancipazione, una possibilità per costruirsi uno spazio di visibilità e di azione, una sorta di “rassicurazione” sulle loro competenze.
Dal questionario risulta che gli uomini partecipano continuativamente ad attività politiche da più tempo rispetto alle donne: il 12,3% fa politica da oltre dieci anni contro il 4,8%. Certamente bisogna tenere in considerazione anche l’età anagrafica degli intervistati (l’età media dei maschi è 22 anni, quella delle donne 21); in ogni caso, si può dire che i ragazzi iniziano prima a fare attività politica, magari dai primissimi anni delle scuole superiori, rispetto alle ragazze.
Una significativa differenza di genere si verifica nella percezione del proprio ruolo all’interno del gruppo: il 45,7% degli uomini si definiscono dirigente versus il 18,2% delle donne, le quali in grande maggioranza (36,4% contro il 17,4%) si riconoscono come militanti di base. Nonostante le lotte dei movimenti femministi e le profonde trasformazioni del paradigma culturale nella nostra società e ancora di più all’interno degli ambiti di movimento, probabilmente retaggi di una educazione patriarcale e maschilista sono tuttora presenti e radicati. Ancora oggi è più difficile per le donne farsi spazio e, a parità di capacità e intuizione, ricoprire un ruolo di dirigente. Ma se tutto ciò è vero da una parte, dall’altra, però, si potrebbe ipotizzare che le donne scelgano di non rivestire quel ruolo per motivi politici, per esempio perché contrarie ad una gerarchia dell’organizzazione; o ancora si potrebbe anche aggiungere che molto spesso si preferisce delegare questo ruolo, perché si pensa di non essere in grado di farlo, perché richiede energia, attenzione pressoché totali, perché si ha paura di sbagliare. Anche qui conricercare…
Le motivazioni che spingono a fare politica sono diverse tra i ragazzi e le ragazze intervistate: contro ogni scontata previsione rispondono in maggioranza uomini “perché mi fa sta bene”, “per stare insieme ad altre persone”, “per partecipare ad una grande esperienza collettiva” (rispettivamente 18,8% versus 14,3% e 29,2% versus 7,1%, il 31,3% versus il 21,4%). Da tali dati si potrebbe dire che la socialità, la creazione di legami e relazioni che si instaurano praticando azioni di lotta collettive non sono tra le motivazioni prevalenti che spingono una donna a fare attività politica. Una forte prevalenza di genere si riscontra alla risposta “per alimentare la mia curiosità” (21,4% contro l’8,3%): le ragazze, pertanto, scelgono di svolgere pratiche di militanza forse perché intravedono in essa un proprio percorso di crescita e formazione.
Sul nodo della militanza le risposte tra i due generi divergono sotto molti aspetti: da una parte il 35,7% delle donne contro il 22,4% degli uomini identificano la militanza con il piacere, ma dall’altra, quasi in contrapposizione, il 28,7% delle intervistate contro il 22,4% risponde il sacrificio. Si potrebbe ipotizzare quindi che per le donne il concetto di militanza è associato a quello di piacere, ma nella pratica forse si rivela spesso un sacrificio. L’85,7% dei maschi, invece, contro il 64,7% delle donne, identificano la militanza con l’impegno per trasformare l’esistente. Su questo nodo centrale ci sarebbe da indagare in modo più approfondito anche per scoprire se nella materialità dei fatti la militanza venga immaginata, teorizzata ed esercitata in forme differenti.
Su un altro aspetto della pratica politica le ragazze si differenziano dai ragazzi: sull’utilizzo, cioè, di azioni fuori della legalità costituita. Per il 66,7% (contro il 46,7%) dipende di volta in volta dalle situazioni: le ragazze non sono contrarie, quindi, a valicare i confini della legge perché credono sia un valore da rispettare in ogni caso, ma probabilmente con un ragionamento più tattico valutano caso per caso quando azioni illegali possono servire ad incidere e a radicalizzare il proprio percorso. Il 40% dei maschi, invece, contro solo un 16,7% delle donne risponde di non credere a questa legalità e pertanto di non aver alcun problema ad utilizzare pratiche illegali se è il caso. Questa differenza può essere valutata in modi diversi: si potrebbe dire che gli uomini hanno risposto in modo più radicale e meno riconoscono valore alle istituzioni che regolano e controllano il rispetto della legalità costituita, ma si potrebbe anche suggerire che le donne hanno risposto in modo meno ideologico, più pragmatico.
Un’ultima differenza di genere registrata è quella relativa alla percezione della propria valorizzazione all’interno del gruppo di cui si fa parte. Il 19% delle ragazze risponde poco contro il 13,5% dei ragazzi: una differenza che sembrerebbe riportare indietro di molti anni la situazione del rapporto tra i sessi rievocando il famoso “angelo del ciclostile”, se non materialmente almeno in senso figurato o quanto meno come percezione di sé. E’ però un’affermazione azzardata, potrebbe anche darsi che le aspettative di valorizzazione del proprio lavoro politico siano differenti tra gli uomini e le donne e che queste ultime si sentano per questo poco apprezzate.
Non ci resta che immaginare, progettare e costruire collettivamente una nuova fase di con ricerca che sappia fecondamene inchiestate quali pratiche, azioni e desideri le militanti e i militanti inventano e concretizzano tutti i giorni. E se le differenze tra uomini e donne ci sono gli daremo parola…