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    Predefinito Giacinto De Sivo ed il revisionismo antirisorgimentale



    LXXV Conferenza di formazione militante

    Martedì 6 ottobre
    Università Cattolica del Sacro Cuore
    Aula "Alberto da Giussano"
    Ammezzato Scala G
    Largo Agostino Gemelli 1
    Milano


    Tema

    "Giacinto de Sivo ed il revisionismo antirisorgimentale"


    Relatore
    Piergiorgio Seveso


    Ultima modifica di Guelfo Nero; 01-10-09 alle 01:17

  2. #2
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    Predefinito Rif: Giacinto De Sivo ed il revisionismo antirisorgimentale

    Ultima modifica di Luca; 13-08-14 alle 12:34

  3. #3
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    Predefinito Rif: Giacinto De Sivo ed il revisionismo antirisorgimentale

    Ultima modifica di Luca; 13-08-14 alle 12:35

  4. #4
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    Predefinito Rif: Giacinto De Sivo ed il revisionismo antirisorgimentale

    Ferdinando Russo (1866-1927)
    'O surdato 'e Gaeta

    [...]

    E 'a Riggina! Signò!... Quant'era bella!
    E che core teneva! E che maniere!
    Mo na bona parola 'a sentinella,
    mo na striguata 'e mana a l'artigliere...
    Steve sempre cu nui!... Muntava nsella
    currenno e ncuraggianno, juorne e sere,
    mo ccà, mo llà... V' 'o giuro nnanz' 'e sante!
    Nn'èramo nnamurate tuttequante!

    Cu chillo cappellino 'a cacciatora
    vui qua' Riggina! Chella era na Fata!
    E t'era buonaùrio e t'era sora,
    quanno cchiù scassiava 'a cannunata!...
    Era capace 'e se fermà pe n'ora,
    e dispensava buglie 'e ciucculata...
    Ire ferito? E t'asciuttava 'a faccia...
    Cadive muorto? Te teneva mbraccia...

    'E ppalle le fiscavano pe nnanza,
    ma che ssa'... le parevano cunfiette!
    Teneva nu curaggio e na baldanza,
    ca uno le zumpava 'o core 'a piette!
    Te purtava 'e ferite all'ambulanza,
    stava sempre presente a capo 'e liette...
    E tutte, chi 'a chiammava e chi mureva,
    'a stevano a guardà cu ll'uocchie 'e freva...

    Murì p'Essa! Era 'o suonno 'e tuttuquante!
    Desiderà nu vaso nfronte 'a chella,
    segnificava: "Mettimmoce nnante
    pe fa na morte ca se chiamma bella!
    "
    Npietto, p'avé n'acchiata 'a sta Rignante,
    te facive arapì na furnacella!...
    Propio accussì, signore mio!... Vedite?...
    V' 'o sto cuntando e chiagno... e vui redite...!

    [...]

  5. #5
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    Predefinito Rif: Giacinto De Sivo ed il revisionismo antirisorgimentale

    Piergiorgio Seveso, nell’ottica di una formazione politica e culturale che presenti ai militanti (“soldati”) politici della Comunità Antagonista Padana dell’Università Cattolica, figure esemplari di intellettuali e studiosi, calati con coraggio e passione nel vortice della battaglia della Storia, ha portato questa volta la sua attenzione sulla figura di Giacinto De Sivo (1814-1867), letterato e storico controrivoluzionario di Maddaloni (Terra del Lavoro). Di famiglia con ascendenze sanfediste e devotamente fedele alla Dinastia, severamente antiromantico, alternerà l’impegno nella pubblica amministrazione alla composizione di tragedie di ispirazione storica e biblica. Incarcerato più volte per la fedeltà alla Monarchia all’arrivo dei “liberatori”, dovrà lasciare per sempre il regno per andare esule nella Roma pontificia dove morirà nel 1867, poco dopo la vittoria pontificia a Mentana.Si dedicherà alla pubblicazione di opuscoli e corposi saggi storici tesi a smascherare le mene e gli intrighi della Setta massonica all’interno dell’eterodiretto “processo unitario”. Il relatore ha letto alcuni passaggi significativi de “I napolitani al cospetto delle nazioni civili”, de “La storia delle Due Sicilie dal 1847 al 1861” e del “Discorso pe’ morti del Volturno”, con alcuni accenni al brigantaggio come fenomeno di reazione legittima all’occupazione sabauda. Vero cripto polemologo, vero “Tacito della tirannide settaria”, il De Sivo percepirà, mantenendo pieno equilibrio nella sua analisi dei fatti e degli uomini, che l’origine delle Rivoluzioni, ben lungi dall’essere economica o meramente “politica”, sta nel un conflitto secolare tra Religione e Irreligione, tra Luce e Tenebra. Sulla cattedra del relatore, facevano bella mostra di sé i ritratti di Francesco II e Maria Sofia di Baviera, ultimi reali di Napoli.

  6. #6
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    Predefinito Rif: Giacinto De Sivo ed il revisionismo antirisorgimentale

    Citazione Originariamente Scritto da Luca Visualizza Messaggio
    Piergiorgio Seveso, nell’ottica di una formazione politica e culturale che presenti ai militanti (“soldati”) politici della Comunità Antagonista Padana dell’Università Cattolica, figure esemplari di intellettuali e studiosi, calati con coraggio e passione nel vortice della battaglia della Storia, ha portato questa volta la sua attenzione sulla figura di Giacinto De Sivo (1814-1867), letterato e storico controrivoluzionario di Maddaloni (Terra del Lavoro). Di famiglia con ascendenze sanfediste e devotamente fedele alla Dinastia, severamente antiromantico, alternerà l’impegno nella pubblica amministrazione alla composizione di tragedie di ispirazione storica e biblica. Incarcerato più volte per la fedeltà alla Monarchia all’arrivo dei “liberatori”, dovrà lasciare per sempre il regno per andare esule nella Roma pontificia dove morirà nel 1867, poco dopo la vittoria pontificia a Mentana.Si dedicherà alla pubblicazione di opuscoli e corposi saggi storici tesi a smascherare le mene e gli intrighi della Setta massonica all’interno dell’eterodiretto “processo unitario”. Il relatore ha letto alcuni passaggi significativi de “I napolitani al cospetto delle nazioni civili”, de “La storia delle Due Sicilie dal 1847 al 1861” e del “Discorso pe’ morti del Volturno”, con alcuni accenni al brigantaggio come fenomeno di reazione legittima all’occupazione sabauda. Vero cripto polemologo, vero “Tacito della tirannide settaria”, il De Sivo percepirà, mantenendo pieno equilibrio nella sua analisi dei fatti e degli uomini, che l’origine delle Rivoluzioni, ben lungi dall’essere economica o meramente “politica”, sta nel un conflitto secolare tra Religione e Irreligione, tra Luce e Tenebra. Sulla cattedra del relatore, facevano bella mostra di sé i ritratti di Francesco II e Maria Sofia di Baviera, ultimi reali di Napoli.
    a proposito di Francesco II e di Maria Sofia, mi permetto di segnalare l'importante biografia "Francesco II Re di Napoli", di Angelo Insogna, ripubblicata qualche anno fa da Grimaldi, ordinabile presso l'Editoriale Il Giglio: Editoriale Il Giglio - La biblioteca - 1 - Storia delle Due Sicilie

  7. #7
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    Predefinito Rif: Giacinto De Sivo ed il revisionismo antirisorgimentale

    Grazie di cuore per i sempre puntuali suggerimenti.

  8. #8
    In memoriam F. Spadafora
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    Predefinito Rif: Giacinto De Sivo ed il revisionismo antirisorgimentale

    Per approfondire l’argomento, visita:

    www.adsc.it
    il portale del sud
    www.brigantaggio.net
    Perilsud.net - Benvenuto nel sito ufficiale del Partito Politico "per il Sud"
    La voce di Megaride
    Home page: Eleaml - FORA... Rivista elettronica diretta da Nicola Zitara

    www.terraelibertaperilsud.it

    Giacinto dè Sivo nacque nel 1814 a Maddaloni ( Caserta ). Il padre era un ufficiale
    dell'esercito napoletano. A Napoli frequentò la scuola di lingua ed elocuzione italiana di
    Basilio Puoti. Nel 1848 fu nominato consigliere d'intendenza della provincia di Terra di
    Lavoro. Il 14 settembre 1860 dè Sivo rifiutò di rendere omaggio a Garibaldi e fu
    arrestato. La sua villa, occupata da Bixio e da altri capi garibaldini, fu saccheggiata. Il 1
    gennaio 1861 fu arrestato per la seconda volta ed imprigionato per due mesi. Scarcerato,
    cominciò a pubblicare il giornale "La Tragicommedia". Dovette rifugiarsi a Roma. Nel
    1861 pubblicò " L'Italia e il suo dramma politico e I Napolitani al cospetto delle nazioni
    civili. Tra il 1862 e il 1867, vincendo enormi difficoltà, pubblicò la Storia delle Due
    Sicilie dal 1847 al 1861. Morì in esilio a Roma nel 1867. E' stato lo storico più lucido ed
    intransigente dell'Antirisorgimento ma fu anche insigne poeta, grande letterato e
    indiscusso patriota Duosiciliano.


    I NAPOLITANI AL COSPETTO
    DELLE NAZIONI CIVILI

    Giacinto dè Sivo

    Capitolo primo

    La setta mondiale

    I Settari straziano l’Italia

    Le nazioni civili che mirano lo svolgimento di questo gran dramma italiano,
    iniziato a nome delle civiltà e del progresso, saran per fermo stupefatte al mirar la rea
    lotta che specialmente nel reame delle Sicilie procede cruenta ed atrocissima fra Italiani
    ed Italiani. Dopo tante lamentazioni contro lo straniero, non è già contro lo straniero che
    aguzza e brandisce le arme, quella fazione che vuol parere d’esser la italica nazione.
    Pervenuta ad abbrancare la podestà, ella non assale già il Tedesco, ne il Franco, né
    l’Anglo, che tengono soggetta tanta parte d’Italia; ma versa torrenti di sangue dal seno
    stesso della patria, per farla povera e serva. Ella grida l’unità e la forza; e frattanto ogni
    possibilità di unione fa svanire, con la creazione di odii civili inestinguibili; e distrugge
    la sua stessa forza in cotesta guerra fratricida e nefanda, che la parte più viva e generosa
    della italiana famiglia va sperperando ed estinguendo. L’Italia combatte l’Italia. Gli
    stranieri potentissimi e formidabili sogghignano e preparano le arme, in mentre le
    persone, le industrie, il commercio, le arti italiane e ogni forza va in fondo, fra gli
    spogli, le fucilazioni, gli incendi e le ruine. L’Italia subissa l’Italia. Né solo nella parte
    materiale subissa: il dileggio ch’ella fa del dritto, della morale e della religione, sono
    mali più gravi; perocché accennano a corrompere il popolo, ne degradano agli occhi
    dello straniero, e ne svergognano quivi appunto dove volevano sovrastare a tutte le
    genti. Dopo tanti sterminati vanti del nostro primato civile, ora diamo spettacolo
    d’avidità da pirati, di barbarie esecrande, e di cinismo e d’ateismo vestiti di stucchevoli
    ipocrisie. Primi ne proclamavamo, e mostriamo esser ultimi. Una immoderata baldanza
    di forza materiale; ed ora quando poniamo mano a stringer la forza, e sperimentiamo
    non esser d’altro capaci di suicidio, e perdiamo bensì la forza morale. Si anelava prima
    al compianto, poscia all’ammirazione della terra; invece riusciamo a meritarne il
    disprezzo.
    Disegno della provvidenza
    Non pertanto non è indarno che la Provvidenza permette tante catastrofi. Il fuoco
    purifica l’oro, e le sventure purificano la società; e forse da questo fuoco ch’ora ne
    scotta ed atterrisce sorgerà la nazione italiana monda e splendida per religione e virtù,
    che son la forza vera ne’ secoli civili. L’uomo ingegnoso si valse della foga de’ torrenti
    per macinar le biade; e forse per questo torrente rivoluzionario che ora ne investe, potrà
    l’Europa con l’aiuto del Signore abolir per sempre le superbe ambizioni, e unire le sue
    varie stirpi nel comune interesse dell’amore e della pace.
    Civiltà cristiana
    Prima che l’uomo fosse sociale fu soligno e selvatico; e il pugno più gagliardo
    imperava. Ma i deboli si unirono insieme; la comunale forza fu messa agli ordini del
    magistrato; e la società civile fu fatta. Così se il mondo avesse potuto contenere una
    società sola, non avrebbe veduto le guerre che sono la brutalità delle nazioni. Ma per
    lunghi secoli l’una società insidiava o asseriva l’altra, sinché il Cristianesimo le strinse
    quasi tutte nel suo amplesso. La religione fu il magistrato che mise impotenza di civiltà
    le nazioni. Però la guerra è un ritorno delle società allo stato brutale; è dar ragione alla
    gagliardia del pugno. Il mondo per tanto sarà pienamente civile; allora quando le stirpi
    umane, di qualsivoglia linguaggio, congiunte in Cristo, avranno il magistrato che
    diffinisca le loro liti, e vieti il tuonar del cannone.
    Egoismi delle nazioni e comunione internazionale
    Veggiamo per contrario che si fan qua e là sorger desideri esclusivi di
    nazionalità. Invece di anelare ad esser tutti una famiglia, tentiamo a disunirci con
    l’egoismo delle razze. Anzi che abolire la idea di straniero, la esageriamo, e risvegliamo
    le gelosie e le ambizioni. Ma questo pensiero che ne richiama a’ tempi rozzi, e fa
    considerare nemico qualunque parli diversa lingua, è pensiero vecchio che accenna a
    disgiungere quanto Cristo annodava; è ritorno al paganesimo che appellava barbaro lo
    straniero, e lo voleva morto o servo. Ma noi siam tutti figli d’uno Adamo, tutti fratelli; e
    piuttosto che evocare dalla notte de’ secoli i pagani concetti delle nazionalità, per
    isconvolgere e saccheggiare il mondo, ei sarebbe opera insigne il torre via per sempre il
    mal vezzo delle guerre e delle conquiste. Siccome il ricco è uguale al povero innanzi al
    magistrato, così la piccola Norvegia dovrebbe essere uguale all’ampia Russia innanzi al
    magistrato delle nazioni. E se un congresso permanente fermasse per sempre il codice
    internazionale, e avesse una comunale forza per la esecuzione de’ suoi decreti, ei si
    farebbe della cristianità una sola famiglia, faria pari il debole al forte, annienterebbe le
    antipatie nazionali, abolirebbe tante arme parassite, e porterebbe gli uomini al vero stato
    civile, al quale il creatore li destinava.
    Tanto pensamento, che fu lungo sospiro dell’umanità, non credo abbia sempre a
    rimanere inadempiuto. I bisogni reali dell’uman genere, l’avanzamento del secolo, il
    meraviglioso esplicamento delle forze sociali, l’idea mondiale che s’indirizza unanime a
    Dio, il comunal desiderio di pace e di prosperità, i vincoli sempre più estesi del
    commercio, l’elettricismo, il vapore, le montagne forate, gl’istmi tagliati, son tutti larghi
    passi verso una civiltà piena e non lontana, che agguaglierà le potenze, e farà tacere le
    ambizioni e le vanità. Pienamente allora Cristo avrà regno.
    La sovversione settaria
    Ora questa perfezione sociale, che assicurerebbe davvero la uguaglianza, la
    fraternità e la libertà, con lo esalamento della religione, è contrastata e combattuta
    appunto dalle fazione che ha per apparente divisa Uguaglianza, fraternità e libertà. Essa
    ritorce il sentimento di tai parole per minar la religione e la società. Va gridando le
    nazionalità per subissare le nazioni e derubarle, e far poi di tutte una famiglia sociale,
    senza Dio e senza leggi. E’ una setta latente che aguzza l’arme avvelenate nel buio e nel
    mistero; congiura e colpisce, trionfa e si palesa, e s’è abbattuta, si rituffa nelle tenebre,
    per ripigliar nuova lena. E’ una potenza sotterranea, che fa guerra a tutte le potenze
    della terra. Essa non è già italiana soltanto, ma spanuola bensì, e francese, e alemanna e
    russa e britanna e americana; da ogni banda ha misteriosi o palesi conciliaboli; stende in
    qualunque luogo sue branche, si impadronisce della letteratura e delle scuole, lancia i
    suoi sofismi capziosi, e propugna motti ed opinioni. Essa corrompe la popolazione,
    inventa la storia, investe le giovanili menti, e le abbarbaglia con le splendide parole di
    libertà, di giustizia e indipendenza; e mentre il contrario vuole e fa, ipocritamente fa
    grandi promesse, abbassa con calunnie i virtuosi, magnifica i suoi adepti, e lor fa strada
    a’ governi, a’ magistrati, alle università, alle milizie, e talvolta agli alti seggi del clero; e
    sinnanco le reggie ed i troni, e i consiglieri de’ regi, ed i regi stessi corrompe e fa suoi.
    Essa impera come Satana, ed ha schiere infinite di démoni ubbidenti, essa comanda le
    dimostrazioni, le barricate, gli opuscoli, i regicidii, le pugnalazioni, le fucilazioni e
    gl’incendi della città. Essa mai non retrocede. Vinta, s’atteggia a vittima; stampa libri a
    difesa de’ Bandiera e de’ Pesacane; piange e deifica i Milano, gli Orsini, e i Locatelli,
    accusa i giudici d’ingiustizia e di tirannide; e prepara nuovi colpi, e rumina altri
    misfatti. Vincitrice, è frenetica; tutto abbatte e distrugge, piglia ogni cosa, saccheggia,
    sperpera, dona, rimuta, e fa vendette di sangue. Non lascia le oneste parole, ma alla luce
    del sole le smentisce con fatti orribili; calunnia i caduti, li spoglia e percuote; e procede
    ritto alla sua meta; cioè a quello che appellan socialismo, ma ch’è la negazione della
    società. La setta è il rovescio del Cristianesimo. Cristo unisce le nazioni in uno amore di
    Dio; la setta disunisce bensì le famiglie, e aspira all’isolamento dell’ateismo.
    Il processo rivoluzionario
    Né tampoco ell’è contenta d’un trionfo solo. Essa fe’ la rivoluzione francese, e
    volle in ogni parte propagarla; essa menò Luigi XVI al patibolo; essa si rivoltò contro le
    sue stesse membra, die’ favore a Napoleone, e il fe’ cadere; essa consigliò a Carlo X le
    concessioni, e fece re il suo capo Luigi Filippo, ed essa stessa questo non ubbidiente suo
    strumento spezzò e cavò di seggio. Fu dessa che congiurò contro la repubblica del 1848;
    ma vinta sulle barricate di Parigi, si vendicò del Cavaignac col farlo superare da
    quest’altro Napoleone, al quale manda alla sua volta le bombe dell’Orsini. E’ dessa la
    variopinta iride di tutti i moti rivoluzionarii. In mentre gavazza in Italia sotto il vessillo
    d’un re ignorante, alza la bandiera rossa in Ispana con un Perez, fa morire i Teleki in
    Ungheria, commuove le passioni polacche, divide l’unione Americana, e sin nella
    fredda Russia tenta sue prove. Qui deifica un re, colà grida repubblica altrove
    indipendenza o affrancamento. Qui vanta le felicità costituzionali; e là manda un grande
    Beker a colpire il costituzionale re di Prussica, e i Merino e i Donzios a ferire le
    costituzionali regine di Spagna e di Grecia. Costruisce plebisciti in Italia, e tenta
    percuotere in Francia un imperatore uscito dal plebiscito. Esalta fra noi la nazionalità, e
    la nazionalità contrasta in Irlanda. Sono mezzi diversi, serventi una stessa idea. Vuolsi
    la rivoluzione in qualsivoglia modo si possa avere. In Italia comanda l’unità; ingiunge la
    divisione in Ungheria ed in America. In Italia stessa gridava non ha guari in principio
    lega italiana, Papa e Pio Nono; ora non più lega, non più Papa-re, non Pio Nono; anzi
    fuori il papa, fuori il cattolicismo, abbasso i preti. E mentre qui fa buon viso al
    protestantesimo, nella Germania protestante predica l’ateismo; perché essa nessuna
    delle cose che grida vuole veramente, ma veramente vuole la roba altrui.
    Ipocrisia della setta
    Procedente sempre infaticabile in verso lo scopo suo, la setta si modifica, si
    dilata, si accorcia, e muta bensì nomi a seconda de’ luoghi e de’ tempi. Prima eran
    Templari, poi Massoni, poi Illuminati, Giacobini, Carbonari, e radicali e socialisti. Non
    ha guari s’appellavan la giovine Italia, ora si gridano unitarii qui, separatisti in America;
    e qual nome si daranno domani? La setta mondiale aspira a rovesciare l’ordine presente
    nel mondo. Vuole una qualunque mutazione per pigliarsi il mondo. E’ la guerra di quelli
    che non hanno a quelli che hanno. E’ quasi un secolo che fatti terribili e sanguinosi
    vansi svolgendo in fra quattro generazioni. Parecchi milioni d’uomini son caduti per
    ferro, per mannaie, per cannoni e per istenti; molte famiglie illustri andarono esulando
    per la terra, un buon re ebbe il capo mozzo, parecchi ne furon cacciati dalle loro sedi,
    non pochi principi e grandi caddero per veleni e per pugnali; non poche città patirono
    saccheggi ed incendii, innumerevoli campi vennero devastati, molte flotte, molte
    prosperità, molte ricchezze distrutte; e la storia già annovera assai i nomi di luoghi
    famosi per battaglie e ruine. E che ha guadagnato l’umanità? Si è poi proclamata
    libertà? Risponda qui la coscienza delle nazioni; risponda questa misera Italia nostra,
    anzi non più nostra; la quale viene affranta ed oppressa da tutte le genti; che in nome
    della libertà vide spegnersi a forza nel suo seno, quelle due nobilissime repubbliche di
    Genova e di Venezia, ultime reliquie delle andate nostre grandezze; e che là dove avea
    già solo il Tedesco, ora è dominata e sospinta da Tedeschi, da Francesi, e da Inglesi, e
    fatta campo miserando di battaglie! Questi progredimenti e questi ceppi s’ha guadagnati
    l’Italia sotto lo stendardo della bugiarda libertà.
    Libertà settaria e vera libertà
    Certamente la libertà è sommo concetto. Iddio creatore miselo nel cuore umano,
    insiem con quelli del diritto e della religione; ogni bell’anima lo sente, lo vagheggia, e
    per esso combatte e patisce e muore onoratamente. Ma la setta congiuratrice non vuole
    la libertà, fuorché sulle labbra e su’ vessilli. Vuole invece la guerra civile, l’anarchia, gli
    alti seggi, le imposte sforzate, le grasse mercedi, l’abolizione degli altari e delle leggi, il
    comunismo, la distruzione della famiglia sociale, e la tirannia de’ peggiori su’ migliori,
    del gagliardo sul debole, e della rapina sul dritto. Grida libertà ma impone cieca
    ubbidienza a’ suoi seguaci, e loro aguzza i pugnali, e poi senza pietà li lascia cadere su’
    patiboli. Per tutta la vita li fa congiuratori, sospettosi e infelici; lor promette beni che
    non può dare, li domina nelle azionie ne’ pensieri, e lor nega anche il libero volere. La
    setta sospinge l’umanità a subire la tirannide, o ad esser tiranna. Ma v’è una vera libertà.
    A malgrado di quella liberalesca tirannia che a tutto attenta, vi sono al mondo animi
    liberi che ne sdegnano le catene, e liberamente eleggono il diritto e la religione. L’uomo
    onesto è libero. Egli non ha ceppi, ma ha l’amplesso della virtù; non agogna l’altrui, non
    è comandato che dalla legge; e quando la liberale genia spalanca le carceri, gli esigli e le
    tombe insanguinate, egli almen libero di anima, santificato dall’esempio di Cristo,
    sopporta e muore pugnando per la patria, per li altari e la ragione.
    La Tirannide settaria
    La gente settaria appella tirannide la difesa che la società è in debito di fare
    contro le sette. Ma quando poi rovesciata la società quella per poco trionfa, allora non
    abolisce già le tiranne carceri, ma le decupla, e v’aggiunge le fucilazioni illegali e gli
    esilii sforzati, e ogni sorta di vendette e persecuzioni contro i liberi propugnatori del
    dritto. Allora dispoticamente calpesta ogni legge, e anco le sue stesse leggi; allora
    impera orgogliosa, e morte a chi rilutta. Essa grida: <<Sii libero o muori>> cioè, sii mio
    schiavo o muori: vale a dire che gridando libertà, uccide la libertà. Se le nazioni civili
    danno uno sguardo spassionato a’ nequitosi fatti perpetrati e che ancor più crudelmente
    si van perpetrando nelle Due Sicilie, vedranno in orribile specchio le nefandezze di
    questi tiranni. Le nostre sventure furono tanto enormi, il presente servaggio è sì efferato,
    e i nostri sforzi per redimerci e ricuperare la libertà saran così veementi, che forse di
    avviso riusciranno a’ contemporanei, e di ammaestramento agli avvenire. Però noi,
    decimati da ingiusti assalimenti, da fucilazioni atrocissime, da nefandi giudizi illegali;
    noi decaduti da quella prosperità invidiata che ne faceva primi in Italia; privi d’ogni
    maniera di quiete, schiavi nella stessa nostra patria, impediti e depressi da qualsivoglia
    manifestazione del pensiero; fra’ saccheggi e gli incendii, fra le calunnie e le percosse,
    fra le bombe e i pugnali, fra le prigioni e gli esigli, fra le catene ed il sangue, leviamo la
    voce in nome della umanità e del dritto imprescrittibile delle genti, per protestare
    innanzi all’Europa ed alle nazioni, contro l’iniquo e cruento servaggio, che da sedici
    mesi grava sulla nostra cara patria, che ha fatto del più bel giardino del mondo uno
    spettacolo d devastazioni, una piaggia miseranda di pugne brutali e di offese e di
    vendette.
    Appello ai popoli
    Popoli civili della terra, voi che udivate di continuo lo ipocrito compianto d’una
    serva Italia, e che per libero lancio di anime generose aspettavate a vederla ora felice e
    redenta, uscite d’inganno. Ell’è una trista ironia lo appellar risorgimento questo
    subbissamento del bel paese; il dir libertà queste torture, queste miserie, questi colpi di
    stile, queste sanguinose punizioni d’ogni pensiero patriota; il vantare indipendenza
    questo servire al Piemonte, servitore d’oltremonti; e ‘l proclamare civiltà e progresso
    questa depressione d’ogni pubblica morale, questo combattimento alla religione, questo
    cinico abbrutimento, questo retrocedere al pensiero pagano, e questo rio trionfo,
    quest’orgia, questo debaccare di non mai sazia cupidigia, e di sete indomabile
    d’ambizione, e di struggere e imperare. Gli operatori del male si coprono di parole
    buone; il fango s’ammanta di oro; e l’inferno abbattendo e straziando, proclama
    celestiale dolcezze. Popoli della terra, disingannatevi; fremete, compiangete i mali
    inenarrabili; ergete a Dio le preci perché si degni di volgere a noi prostrati uno sguardo
    di misericordia, ed esaudisca le lagrimose preghiere di due milioni di famiglie che
    mattina e sera supplici e in ginocchio, levano la voce dall’anima affrante e spaurite.
    Popoli della terra, non insultate alle nostre sventure, col plaudire a’ nefandi oppressori;
    non sublimate le catene d’una in felicissima nazione, dichiarandola beata e redenta.
    Deh! Pregate per noi; incoraggiate almeno con voti di simpatia gli sforzi nostri, pel
    riconquisto della libertà e dell’indipendenza. Sì, la nostra causa ha gagliardi sostegni. La
    virtù non è ancora morta. Se una setta sta contro di noi, stan per noi le nazioni. Contro
    Dio si combatte, ma non si vince. La navicella di Pietro non affonda. Oggi la cristianità
    si leva tutta; e bensì i protestanti han compreso che non al Papa solo, e a’ Re, e a’
    Napoletani, ma alla religione, al diritto e alla civiltà si fa guerra. Un numero grande di
    opuscoli e di libri d’uomini insigni già schierano le menti; l’opinione regina del mondo
    ritorna sul retto cammino, e dà la inappellabile sentenza: il dritto trionferà. Già nelle
    ultime tornate delle camere legislative di Francia, di Spagna, d’Inghilterra e del Belgio
    fu protestato da molti onorandissimi pari e deputati e senatori; e i nostri cuori balzarono
    per le consolatrici orazioni di quell’anime belle che sollevarono coraggiosamente la
    verità conculcata. Deh! Seguitino con maggior lena ancora a queste novelle sessioni
    parlamentari nel nobile arringo; ogni loro parola è a noi di refrigerio; i nomi di quei
    campioni resteran segno alla gratitudine de’ nostri figli e più che in adamante saranno
    scolpiti nella storia per la venerazione de’ secoli. La virtù che alza il braccio a difesa
    degli oppressi è spettacolo di paradiso. Nondimeno perché meglio siano palesi le nostri
    ragioni, qui vogliamo dichiararle a parte a parte. Son corse pel mondo tante codarde
    invenzioni su’ fatti nostri, ch’ei non sarà indarno rimondarli, e presentarli alla luce, in
    un tempo quando niuna cosa è di maggior pericolo che a dire il vero. La menzogna coi
    pugnali comanda il silenzio per imperare; ma è tempo ormai che il buio sia squarciato
    dal sole, e sfavilli il vero prepossente. Facciamo il bene con coraggio; perché fa più
    danno il bene infingardo che il male operoso.

    Capitolo secondo

    Quale era il nostro paese

    Esempio unico

    Il Reame delle Sicilie, molto dalla stampa rivoluzionaria a’passati anni
    calunniato, non era secondo a nessuna nazione incivilita. Ei basta dare uno sguardo
    nelle Guide pe’forestieri, per intendere il valore immenso di monumenti, di strade, di
    città, d’acquedotti, di ponti, di pietra e di ferro, d’arsenali, d’opificii, di quartieri, di
    ginnasii, di teatri, di popolazioni, di prodotti, d’agricoltura, di pastorizia, di porti, di
    commercio e di arti che abbelliscono queste contrade. Poste le proporzioni di ampiezza
    e di numero e di condizioni, niun paese al mondo s’ha maggior somma totale di beni, e
    più a buon prezzo, e più opportuni, e meglio distribuiti. In mentre le città qui son belle e
    decorose, e ricche e popolate, ogni pur minimo villaggio ha a sua strada per ruote, la
    parrocchia, il campo santo, il ponticciulo sul torrente, l’orologio, il posto delle grasce e
    della neve, il monte frumentario e de’ pegni, il maestro di scuola, il medico, la farmacia,
    un qualche convento, o un opificio, o una qualsivoglia opera speciale, onde tragga
    lavoro e sostentamento la gente minuta. V’è in ogni parte operosità ed agiatezza.
    Qualche provincia come quelle di Napoli e Terra di Lavoro, non hanno una canna di
    terra che non sia messa a profitto. Ne’ sessant’anni di questo secolo il reame ha
    accresciuto la popolazione più d’un terzo; eppure ebbe guerre, tremuoti, uragani,
    eruzioni vulcaniche e colèra. Il colèra appunto, ragguagliato al numero, qui per la buona
    igiène, fe’ meno vittime che altrove. Qui in proporzione v’han meno accattoni che a
    Parigi ed a Londra, e i poveri veri sono rari. Le statistiche dei delitti sono tenui. Il debito
    pubblico, fatto il più per rivoluzioni, scemava a ogni anno; e giunse a tanto che ascese al
    120 per 100, con esempio unico nelle nazioni.
    Giustizia e operosità
    Le nostre leggi, prodotto della sapienza de’ secoli, eran nel civile e nel penale
    sì buone, che fur sovente di ammirazione e di emenda allo straniero. Solenni e pubblici
    erano i riti de’ giudizii sicché poteva piuttosto restare il reo impunito, anzi che
    condannato l’innocente. Erano le prigioni più ampie e nette, e ordinate a seconda lo
    scopo delle pene, cioè la custodia e la correzione del condannato, fra la religione ed il
    lavoro. Avevano la piena libertà civile senza distinzione di caste o di persone, tutti
    uguali innanzi alla legge; però talvolta fur visti i magistrati emanar sentenze fra’ sudditi
    e la stessa cosa del re, e dar torto a questa. La proprietà era sacra; la sicurezza pubblica
    non fu mai tanto guarentita in questo montuoso reame quanto negli ultimi sei lustri;
    sicura e facile era la circolazione de’ valori, protetta la santità dei contratti; la
    successione de’ beni era regolata secondo i più moderni dettami del diritto, senza
    vincolo; in guisa che niuna parte di possessione poteva a lungo essere sottratta
    all’industria umana. L’amministrazione civile aveva, per la tutela de’ comuni, leggi
    d’eccezione, che slacciavanla dalle forme consuete; la quale a malgrado de’ pochi suoi
    difetti (e quale opera umana n’è senza?) pure in mezzo secolo ha prodotto a’ municipi
    incrementi e beni ignoti agli avi nostri. La religione e la morale avean rispetto e tutela; il
    costume avea forza di buoni esempli; era tutelata la salute pubblica, sostenuta la
    istruzione elementare, moltiplicati i matrimonii, e più ancora le industrie, le colture e i
    capitoli circolanti. Il commercio era florido, e forse destava gelosia e invidia; operosa
    era la marina mercantile: nuove cale, nuovi porti, nuovi fari, nuovi bacini da raddobbi,
    nuove fortificazioni di difesa sorgevano sulle nostre coste. Le terre incolte eran messe a
    coltura, asciugate le paludose, divise le già feudali fra le popolazioni indigenti. Con le
    nuove strade rotabili e ferrate, co’ nuovi opificii, con gl’istituti d’arti e mestieri, con le
    scientifiche ed artistiche accademie, con le scuole tecniche ed agricole, con gli orti
    botanici e sperimentali, co’ monti di pegni e di frumento, con e casse di soccorsi, di
    prestanze, di risparmi e di assicurazioni; co’ ritiri, con gli ospedali, con gli asili infantili,
    con le case pe’ proietti, con i conventi e monasteri, non v’era stato, né età, né
    condizione dell’umana vita cui non si desse il braccio soccorritore. Così la pubblica
    ricchezza era elevata a grado eminente. Così pel buon governo le imposte eran le più
    lievi in Europa e non pertanto bastavano a pagar ricche liste civili; a tener in piè una
    flotta ch’era prima in Italia; a sostentare centomila uomini, armati di tutte arme; a
    spendere ogni anno cinque milioni di ducati in fabbriche ed opere di universale utilità; a
    bonificare immense terre melmose intorno al Volturno; a rettificare e a incanalare il
    Sarno; a far strade ferrate; e a metter su quel magnifico edifizio di Pietrarsa, che per
    macchine di ferro e di bronzo ne avea fatti franchi dalla straniera importazione.
    E nulladimeno la operosa parsimonia governativa avea sempre modo da
    tenere in serbo un tesoro per ogni evento. Erano in cassa trentatré milioni di ducati,
    quando il liberatore Garibaldi vi mise su le mani, e li fe’ disparire. Quella parsimonia ne
    facea scemare i debiti, quando i governi liberali li decuplicavano. Quella parsimonia
    fece che nel 1859, quando la carenza del grano, pe’ scarsi ricolti, e qui e altrove,
    aggravava la povera gente, avesse potuto Francesco II mandare a Odessa suoi navigli, a
    comprar biade a caro prezzo, e venderle ne’ mercati, e sin nelle più irte gole di monti a
    prezzi miti e sopportevoli da qualsivoglia indigente. Per quella parsimonia re
    Ferdinando aveva potuto soccorrer Melfi e Potenza, colte da’ tremuoti, e fabbricar
    navigli da guerra, e dar grosse limosine e sorreggere qualche municipio con larghi
    prestiti a tempo, e far nuove muraglie a Messina e a Gaeta, ed elevare ospizii, e templi
    magnifici al Signore.
    Questo era il governo di Napoli, cui un nobil lord d’Inghilterra, certamente
    tratto in errore per la malizia delle sette, disse con enfatico motto esser la negazione di
    Dio!
    Ma la sopravvenuta rivoluzione gli dà le smentite; lo smentisce la presente
    distruzione di tante opere buone; lo smentiscono i pianti nostri, e le disperate armi che
    suonan vendetta su’ monti appennini. E più si sono, ahi, troppo affrettati a smentirlo i
    rigeneratori Torinesi! Dopo tante sperticate promesse di tutto dare, tutto ne han tolto; e
    solo han potuto creare la miseria ed il nulla.

    Capitolo terzo

    In qual guisa calunniato ed assalito

    La malizia sovversiva

    E la setta che da tanti anni lavora all’abbattimento di Cristo, prese nota di quel
    famigerato motto del nobile Lord, tolse essa a difendere Iddio, e gridò da tutti i capi del
    mondo: maledizione al governo della negazione di Dio.
    Con quel motto Napoli, le Sicilie, il re, la magistratura, l’amministrazione,
    l’esercito, il clero, la nobiltà e gl’ingegni nostri furono immorali ed atei giudicati. Nove
    milioni d’abitanti vivean col pensiero negativo della Divinità. Però re, governatori,
    amministratori, giudici, capitani, precettori, cardinali, vescovi e parrochi, tutti negatori
    di Dio, aggravavano la mano diabolica sulle corrotte popolazioni. Allora su quel tema la
    stampa rivoluzionaria ritemprò le sue penne e vi fè varianti e ritornelli; i lamenti delle
    finte vittime andarono alle stelle, e l’Europa vide in pieno giorno inventar la storia
    contemporanea, accusar di ateismo la religione, tacciar di ladri i correggitori d’una
    nazione prosperosa, e compiangere la ignoranza d’un paese, il quale, tranquillo e pago
    della sua sorte, era di fatto in cima alla civiltà italiana.
    Era in cima di fatto, perché esso aveva, in proporzione de’ suoi abitanti, più
    templi, più teatri, più oratori, più poeti, più filosofi, più artisti, più opificii, più reggie,
    più commercio, più capitali, più scienze, più arti, più uomini d’ingegno che non il resto
    della penisola.
    Errore di governo
    Fu per verità uno sciagurato e sempre lamentevole errore che il governo nostro
    disdegnasse le difese. Intento a fare il bene, chiudeva gli occhi allo strombazzamento
    bugiardo del male. Quasi non rispondeva, né permetteva di rispondere alle speciose
    calunnie che avventavano sul regno. Per contrario i giornali, questi moderni dispensatori
    di fama e d’infamia, non lasciavano opportunità da declamar soli da lontano. Ogni dì
    uscivano a luce sperticate menzogne a danno nostro,e a poco a poco quel mentir largo e
    continuato, e non mai o mai contraddetto, pigliava faccia di vero. Usavano anche di
    levar a cielo gli scrittori di libertà, e abbassar sempre, o almeno coprir di silenzio
    l’opere ed i nomi di scrittori coscienziosi. Anche delle arti usavan a fin di setta. Le arti
    costrette a servire quel concetto, e però sviate dal loro scopo, ch’è il bello assoluto,
    spesso vagheggiavano il piacere, cioè lo andare a seconda de’ dispensatori della fama.
    Con poca fatica si diventava celebre. Parlar di patria, lamentare il servaggio d’Italia,
    maledire i tiranni, era la condizione sine qua non del diploma del genio. Così veggiamo
    laudatissime alquante miserie letterarie, che farebbero pietà; così, sotto forma di
    rigenerar l’Italia, si fa perder all’Italia il suo vero primato, che è nel concepimento del
    bello. Cotesto mescolar la politica con la letteratura è uno de’ non lievi mali di questo
    secolo tronfio e presuntuoso.
    Pertanto in un altro grave errore corse il governo. Vista la offesa di compre o
    settarie penne, sospettò d’ogni scrittore. Non impedì l’offesa, e diffidò della difesa. Fe’
    parere che tutti gli uomini d’ingegno gli fosser contrarii. Contento della pace e
    prosperità interna, poco curò quella guerra di calunnie; e l’Europa assordata da tante
    cantafère non ismentite, tenne quasi come vero il famoso motto della negazione di Dio.
    Gli spensierati, i faccendosi, i dottoruzzi che devono il sapere ne’ facili fonti de’
    giornali e degli opuscoli, divennero strumenti di setta senza saperlo; ripetevan le
    lamentanze senza intender qual danno facessero, né quale immaginaria felicità si
    sperassero. Bensì nel regno, dove la cresciuta prosperità dava modo di vivere con poco,
    e però s’eran fatti parecchi gli scioperanti e i babbuassi, nel regno ancor v’eran di molti
    ripetitori. Il dir male per cotesta gente è un fare; e il dir male di chi può più è una
    maniera di conforto. Concorrevano a discreditare il governo molti avvocati tristi, che
    nella magistratura e nelle leggi trovavano argini alle loro avidità; parecchi lettori di
    diritto, giornalisti, poetastri, sollecitori d’affari, quali per non soddisfatte ambizioni o
    per impedite frodi aspiravano a novità; parecchi uffiziali pubblici ancora, che per
    sognate ingiustizie, anelavano vendetta, o vagheggiavano promozioni; negozianti falliti
    o senza capitali, medici senza malati, studenti senza libri, proprietarii vanitosi o repressi
    nelle loro prepotenze, preti tenuti a freno da’ vescovi, prletarii svogliati dalla fatica,
    camorristi, commessi viaggiatori, usciti di galera, servidorame a spasso: questa
    mescolanza di persone diverse, interessate a’ subugli, questi, o che sel sapessero o no,
    erano i propagatori, o gl’inventori delle mille laidissime favole. Che questi poi fossero
    della nazione napolitana la parte minima e la più rea, i fatti posteriori han pienamente
    dimostrato all’Europa stupefatta delle nefandezze che ne’ loro trionfi han perpetrate.
    V’erano inoltre alquanti congiuratori; quali sin da’ primi anni guasti da
    volterriane e tedesche filosofie, erano i veri agenti della setta. Costoro in ogni guisa
    s’aitavano; spargevan nelle masse desideri vaghi e sospetti stolti; denigravan tutto, e
    movevano inique voglie. Essi ricevevano il motto d’oltremonti, e ‘l davano nelle
    popolazioni. Promettevano l’età dell’oro, cariche e onori; e reclutavano. A costoro non
    basta un uffizio modesto, e ‘l giusto avanzare con gli anni ed i servizii; eglino aspirano
    ad alto, e a diventare grandissimi e ricchissimi in un botto. Sono cospiratori per
    mestiere. Una volta cotal mestiere menava in cima a una forca; e pochi vi si risicavano;
    ma oggidì che la tirannia de’ re non usa la pena di morte, sono molti che vi giocano
    sicuramente, e fanno mestiere di camorristi degli uffizii e de’ ministeri, mettendo a
    soqquadro la società. Un tempo a fare il cospiratore si moriva impiccato; oggi si divien
    celebre, e generalissimo, e luogotenente o ministro; o almanco pur nelle sventure si
    trova a mangiar senza fatica. Ma non è ella una vergogna della glorificata civiltà a veder
    la società versar fiumi di sangue, per appagar siffatte avide e triste ambizioni?
    Adunque la calunnia, non contraddetta, sorretta e divulgata da’ mercatanti di
    rivoluzioni, preparò il palco sul quale era da immolarsi la nostra felicità.
    La Clemenza nel ‘48
    Quando il novello scoppio e la novella compressione della europea congiura
    contro la società nel 1848, fece questa avvertita del precipizio onde era scampata, fu
    certo necessità il provvedere all’avvenire. E se persone di cuore e di mente avesser
    preso la somma delle cose, è da tener per fermo che l’avvenire si sarebbe assicurato.
    Bisognava dimostrare co’ fatti che il mestiere del cospirare riesce a male. Invece le
    perdonanze, la pietà, la brama di vincer le calunnie con la clemenza, il facile inganno
    del forte che sdegna le durezze, e si affida in sé, un pio desiderio di farla finita e di
    abbracciare in un amplesso di pace tutti i sudditi, la cristiana rassegnazione a’ voleri
    della Provvidenza. Tutte cose furono che lasciarono incompiuto il ritorno all’ordine
    pieno e a pace duratura. Non dirò fosse stato bene usar molto rigore, ma certo la
    salvezza di pochi rei ha partorito la morte di centinaia di migliaia d’innocenti. E’ grave
    l’arte del regnare e del governare; e un’anima grande deve pesar nella bilancia il dolore
    di quattro o dieci famiglie già dalla colpa abbrutite, con le lagrime delle innumerevoli
    madri, e consorti e sorelle e parenti di infelici innocenti giovani, rapiti alle famiglie e
    alla patria, per guerre civili e nefande. Bello è il perdonare, più bello è il far giustizia a
    tutti.
    Ma non fu solo perdonata la colpa, talvolta fu premiata. Della rivoluzione
    rimasero gli uomini, e il più in pubblici uffizii. Ed essi han preparato il 1860. il re nel
    1848 avea dato una costituzione, come era stata domandata da’ malcontenti; e questi
    stessi congiurarono subito contro la costituzione. Il 15 maggio doveva veder la
    repubblica; ma un pò di sangue in via Toledo abbatté le barricate e le settarie speranze.
    Nulladimeno re Ferdinando tentava altro esperimento; discioglieva le camere, e
    ordinava nuovi comizii. Allora la setta aspirò alla rivincita; fece gli stessi deputati, e
    ripigliava il pristino giuoco, se la nazione non avesse reagito, abbattendo in fatti l’opera
    dissolvitrice, e pregando con reiterate istanze il monarca a toglier via quella
    costituzione, madre di subbugli.
    Ed ecco la setta dallo stesso abbattimento cava nuove forze per risorgere. Ecco
    un gridar la croce al re spergiuro, ecco un lamentar continuo del 15 maggio. A sentirlo
    pareva che il re, il re avesse fatte le barricate, per aver modo di ritogliere le franchigie.
    Così perditori accusano il sovrano; se avesser trionfato avrebbero scacciato il sovrano,
    come han fatto ora. E se nel 1860 avesser perduto, certo avremmo udito opporre al re la
    venuta del Garibaldi. Avrebbero detto il re averlo fatto venire, per gravar la mano sul
    popolo! Per contrario il Cavour che aveva finto disapprovare gli armamenti di
    quell’avventuriero, dappoi che il vide vincere, se ne vantò autore in pubblico
    parlamento. Questa sfrontatezza dell’accusar delle proprie insidie l’avversario, e poi
    farsi vanto della riuscita insidia, questa vergogna mancava all’Italia nostra.
    Pochi processi, e tutti pubblici, furon fatti a carico dei rei. Ciascuno gridava sé
    innocente; né si trovava più chi avesse fatte le barricate, e chi sconvolta la pace del
    paese. Surse bensì un processo a 57 persone imputate d’esser unitarii, cioè voler l’Italia
    una; e fu gridato alla calunnia. Ora donde sono usciti tanti vecchi unitarii? Fu calunnia
    ed abuso condannare il Poerio per unitario; ed ora costui è presidente della camera
    unitaria di Torino. Innocenti si dichiaravano allora: erano manigoldi i giudici, compri i
    testimoni, sicarii i soldati, tiranno il re. Si trattava di fuggir la pena. E non solo eran
    dessi innocenti, ma accusavano i buoni; e sì bene seppero fare, che la colpa rimase in
    più dell’infima plebe. Inoltre fer cadere sospetti sui più fedeli al trono, massime ne’ più
    capaci e buoni. E non solo camparono, ma parecchi ebbero premii e croci cavalleresche
    ed uffizii; ovvero serbarono gli uffizii e potettero ascendere più alto. Rifatti innocenti,
    rialzarono le cervici, ripresero lena, misero il piè sui buoni, e ritornarono alle congiure.
    Prepararono il 1860.
    Divampati questi ultimi trionfi di rivoluzione, udiamo ora quei pretesi innocenti
    sclamar alto, ed anche con petizioni e stampe, reclamar la reità, e cercarne premio.
    Erano innocenti e scamparon la pena, ora sono rei, e martiri, e vogliono e danno il
    guiderdone! E parecchi di quei magistrati che invece di seder fra’ rei, giudicarono gli
    altri, ora si scoprono liberali; e gridano Fuori lo straniero, cioè il re napolitano che li
    avea perdonati, tollerati e promossi!
    Ora eglino stessi gridan tiranno quel governo del quale esercitavano la tirannide.
    Ah sì, fu tiranno perché non fè di voi giustizia, e lasciò che aveste pria percossi e poi
    traditi i popoli infelici!
    Tre soli furon condannati a morte, ma ebbero la grazia; pochi ebbero prigionie, e
    tutti per grazia abbreviate. E in un regno di nove milioni, dopo tanta rinvoltura, passaron
    di poco i dugento che usciron dal paese.
    Eppure queste miti punizioni eran gridate tirannie da Tiberii. Ciascuno che per
    debiti od omicidi e frodi si fuggiva, andava per l’ Europa predicando sventure politiche,
    e dichiarando sé vittima di dispotismo. Il Piemonte li pasceva; lor dava i torchi, e i
    giornali, e li teneva pronti per instrumento di conquista.

  9. #9
    In memoriam F. Spadafora
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    Predefinito Rif: Giacinto De Sivo ed il revisionismo antirisorgimentale

    I NAPOLITANI AL COSPETTO DELLE NAZIONI CIVILI

    Capitolo quarto

    Le arti del Piemonte

    I traditori intorno al trono

    Torino non istette solo a pascere le vittime illustri del dispotismo; ma fe’ anzi
    lega con gli operatori del dispotismo; e guadagnò alquanti che carchi di regi benefizii
    lordavano le aule delle nostre reggie. Costoro infingendosi i soli amici di re Ferdinando
    gli fecer cerchio attorno, gli posero in mala vista gli uomini onesti, si valsero della sua
    soligna dimora in Gaeta, e con segni di mendace devozione, in nome di lui il vero
    dispotismo sopra i buoni esercitarono. Eglino le ingiustizie nell’esercito, ne’ ministeri,
    ne’ governi delle provincie, nelle finanze e dovunque potevano, suscitavano, e dolori e
    mala contentezza. Sovratutto osteggiavano i più noti per fedeltà e per ingegno non
    venduto. Per contrario sublimavano i compri ed i vili. Così un trono che avea fiacchi
    difensori e astuti traditori non poteva durare. Così seppero costituire, dirò, un disordine
    ordinato, un controsenso delle leggi, un controsenso del realismo, una rivoluzione fatta
    a nome della conservazione. Così il fatto d’un malessere latente che non si sapeva
    spiegare, faceva malcontenti appunto i veri amatori della dinastia e della patria. Il regno
    fu un ovile, fidato a’lupi ed agli asini. E la voracità e l’ignoranza ne han perduti.
    Torino adunque stretta una lega fra i finti oppressi ed i veri oppressori, faceva
    accagionare il tradito monarca de’ mali da esso loro preparati. Il ministro Sardo, egli
    medesimo, nefandamente soffiava nel fuoco, e presiedeva a’ comitati. Fu guadagnato
    ancora, e da lunga stagione, un parente del re, il quale accoglieva in casa i cospiratori.
    Ambo nei loro palagi, all’ombra del diritto delle genti e de’ legami riveriti del real
    sangue, davano orditura, sicurezza ed impunità alla cospirazione. Infingevano adunanze
    per iscienze ed arti; e protetti dall’arme Borbonica contro i Borboni congiuravano.
    Quelli che abbiam veduti dappoi ministri, deputati, senatori e in qualsivoglia altra guisa
    eroi, tutti eran frequentatori di quelle mura. Dove niuno avrebbe osato lanciare lo
    sguardo scrutatore. Quali promesse traviassero quel Principe non sappiamo: certo furon
    grandi, e perché troppo grandi, ineseguite. Onori e ricchezze si promettevano agli altri;
    la turba era abbagliata dalle parole d’Italia, civiltà e redenzione. La sola nazione che
    doveva esser redenta, nulla sapeva e nulla voleva. Pertanto il fior dell’esercito, della
    magistratura, dell’amministrazione, della nobiltà e del clero eran fidi e al posto loro; e
    sarebbero stati incrollabili sostenitori del trono, se lo stesso sovrano, caduto nella via
    delle concessioni, non avesse lasciato che traditori ministri li rimuovessero dagli uffizii
    e da ogni difesa.
    Impudenza del Piemonte
    Rumoreggiavano le rivoluzioni di là dal Tronto quando Ferdinando II compieva
    sua vita mortale. La discesa de’ Francesi, le fiere battaglie Lombarde, e le paci stesse di
    Villafranca e di Zurigo elevarono gli animi de’ cospiratori. Il Piemonte rigeneratore, nel
    momento istesso che firmava i capitoli di pace, preparava l’arme per infrangerli. La
    speranza d’ingannar facilmente il giovinetto re di Napoli affrettò gli eventi.
    Nulladimeno Francesco inviava negli Abruzzi alquante milizie col poi famoso traditore
    general Pianelli, per assicurare la frontiera del reame. Allora il Piemonte temente
    opposizione all’agognato conquisto delle papali provincie, dichiarava caso di guerra lo
    intervento nostro a pro del papa; perocché a quel tempo esso intendeva a maniera antica
    la teoria del non intervento, sebben fra Italiani ed Italiani. Fu dappoi, quando volle
    conquistar noi, che invocò la teoria nuova delle nazionalità per intervenire a salvare il
    Garibaldi dalla stretta del Volturno. Pel Conte di Cavour era intervento lo occorrere a
    pro d’un assalito Papa, era non intervento accorrere a pro d’un assalitore pirata! E
    all’ombra di sì impudente abuso di parole noi siamo schiavi!
    Ma già il Piemonte avea dato vascelli, uomini, arme ed oro al Garibaldi; e in
    mentre lo lanciava nel regno, dichiarava con pubblici atti esser colui un pirata, e non
    aver con esso comunanza d’imprese; perocché temeva per lui la sorte del Pesacane, pur
    da esso altra fiata spinto e mal capitato. Fu quando il pirata riuscì trionfatore in Napoli
    che il Cavour con maravigliosa e sfrontata malvagità, si vantava nella sala del
    Parlamento aver esso il Garibaldi inviato, esso esser il creatore, il preparatore, il
    pagatore de quel trionfo. E all’ombra di tai nefandezze risorge l’Italia!

    Capitolo quinto

    Guerra della rivoluzione

    Il "non intervento"

    Dappoi che tante male arti e calunnie non eran riuscite a muovere un popolo
    tranquillo, la setta mondiale osò armata mano intervenire. La teoria del non intervento
    che impedisce alle nazioni civili di entrare nelle liti d’un popolo pugnante fra se stesso,
    permette anzi che una potenza appellata la rivoluzione entri di fuori in un paese, per
    sconvolgerlo da’ fondamenti. Si mette innanzi il diritto de’ popoli, per non intervenire a
    vietar lo spargimento del sangue fraterno, ma questo stesso dritto merita d’esser infranto
    quando i fratelli sono in pace. Si fa un sacro dovere di non intervenire per porre la pace;
    ma è cosa lecita a dar arme e protezione a’ turbatori della pace e a’ fratricidi.
    E siffatta ipocrisia, formulata con le parole di non intervento, è il prodotto della vantata
    ultima civiltà!
    Adepti della rivoluzione
    Oggidì, oltre gli stati costituiti e riconosciuti da’ trattati, v’ha una nuova e
    favorita potenza, la rivoluzione. Essa ha re, ministri, diplomazia, erarii, eserciti e
    condottieri; essa solo fra le nazioni ha il privilegio del nuovo dritto, cioè la facoltà
    d’aver dritti senza doveri, di non riconoscere trattati né dritti preesistenti, e di chiamarsi
    sola popolo e società. Dove non è lei tutto si appella tirannide, servaggio e ingiustizia.
    Essa sola ha la divisa della libertà, dell’indipendenza e dell’uguaglianza; e però ha sola
    il dritto privato d’assalire qualunque libertà, indipendenza ed uguaglianza che non
    venga da lei. La rivoluzione sola dà la felicità; e guai a chi senza di lei osi esser felice!
    Il reame delle Sicilie era indipendente sin dal 1734, quando andar via i
    Tedeschi; era libero sotto lo impero di buone leggi, che tutti i sudditi agguagliavano; ed
    era prosperoso, pel mite scettro de’ suoi principi. Ma ciò era a seconda del dritto antico,
    del dritto divino; esso invece doveva esser felice pel dritto nuovo, pel dritto infernale.
    Dunque la sotterranea potenza, che accentra in se tutti i dritti, essa poteva e doveva
    intervenire: la rivoluzione.
    L’impresa garibaldina
    Ed avea ben preparata la macchina; avea ben colme d’oro le mani; aveva
    uffiziali e ministri fra gli uffiziali e ministri del re assalito; aveva con sé e per se i
    camorristi; aveva sicurezza di non esser turbata pel non intervento; avea la bandiera
    d’un re di vecchia stirpe, con la croce spiegata; e, in caso di sconfitta, ben a ragione si
    fidava nel soccorso di questo nuovissimo re. Lo appellò quindi re galantuomo, re di
    setta, re che piglia l’altrui e il fa pigliare. Quindi preparò navigli, uomini ed arme in
    Genova sotto gli occhi di tutte le nazioni; quindi il famigerato marinaio di Nizza, alla
    presenza delle armate francesi ed inglesi, fe’ co’ suoi mille il grande intervento. Questo
    medesimo Garibaldi, non con mille, ma con quattromila, undici anni innanzi, era entrato
    in Terra di Lavoro ad Arce; ma combattuto dalle guardie urbane, dopo alquante ore,
    all’avvicinarsi del maresciallo Ferdinando Nunziante rattamente si fuggì. Ora undici
    anni di più l’han fatto prode!
    Senza offesa da’ nostri marini, l’Eroe discende a Marsala; è rotto sì a
    Catalafini, ma il nostro generale ritraeva i soldati dalla vittoria. Quindi un primo
    consiglio d’estera potenza faceva uscir da Palermo ventimila uomini, senza colpo ferire;
    dappoi che al pio Francesco era messo innanzi agli occhi il danno della città, vicina ad
    essere insanguinata e abbattuta. Seguiva il fatto d’arme di Melazzo, dove il colonnello
    Bosco con duemila uomini urtava in dodicimila Garibaldini. La storia dirà forse il
    perché da Messina prima partiva, e poscia era chiamato indietro il soccorso di milizie,
    che avrebber posto fine alla guerra. E un secondo estero consiglio faceva ritrarre dalla
    Sicilia tutte le non vinte nostre soldatesche. In tal guisa aveva la rivoluzione un regno
    intatto, e trovava arme ed agio per invader l’altro.
    Il mondo vide rinnovellati gli giuochi stessi tante volte usati. Luigi XVI,
    circondato da consiglieri Giacobini, fu indotto a quelle concessioni che il portarono al
    patibolo. Carlo X cadde per simiglianti consigli, e Luigi Filippo che da’ Carbonari era
    stato innalzato al trono, ne discese vittima egli stesso. Similmente il nostro re, che in
    quel momento supremo avrebbe dovuto stringer forte le redine dello stato, fu da’ suoi
    consiglieri spinto a promettere il richiamamento della costituzione. Allora infranse il
    suo scettro. Le sette domandano sempre costituzioni, ma non per francare i popoli, bensì
    per avere un terreno dal quale impunemente avventar colpi al trono e alla società. Avean
    fallato nel 1848; non si fallò nel 1860. Subito i fuoriusciti ed i traditori presero il
    governo; abusarono della cavalleresca pieghevolezza del monarca, tutte cose mutarono,
    disposero essi delle forze e delle ricchezze nazionali, e prepararono il cammino trionfale
    al Garibaldi. Per guadagnar tempo da corromper l’esercito, finsero trattare una lega
    italiana; inviarono loro ambasciatori a Torino; e sindaco il re galantuomo si piegò a
    scrivere al Garibaldi, pregandolo si arrestasse. Ma costui baldanzosamente niegava; e la
    commedia col ricusarsi la lega si compieva.
    A tanta ignominia i ministri patrioti e liberali discesero, che un regno di
    Napoli pitoccava da un avventuriero e da un Piemonte d’esser lasciato stare! Ma i
    liberali non han patria.
    Vittoria della camorra
    La rivoluzione non perdè un istante. Subito il ministero camorrista mise
    generali camorristi incontro al Nizzardo; fece da’ suoi uccidere per le vie gli uffiziali da
    della precedente polizia; creò anzi poliziotti gli stessi ucciditori; mise camorristi
    Intendenti al governo delle province, alle direzioni, alle amministrazioni, a’ tribunali.
    Sindaci nuovi, decurioni nuovi, eletti nuovi, guardie nazionali nuove, tutte persone a
    suo modo rimutò; e guai a chi osasse fiatare. I decreti avean la firma del re. Gli stessi
    soldati del re erano in nome del re mandati a sedare le reazioni fra’ popoli frementi; e la
    forza medesima del regno era costretta a dare il reame a’ pirati. Allora fu un terrore
    universale: camorristi a calunniare, a carcerare, a pugnalare quanto era onorato e
    virtuoso: la stampa a deificare il tradimento, a predicare le insurrezioni, a incitare i
    dubbii a diffamare la dinastia. Allora non fu più guerra d’arme, ma d’infamia. Le
    milizie si mandavan sì, non già contro il nemico sbarcati a Reggio, ma in gole di monti,
    ove eran da’ loro stessi duci disciolte e sbandate. Andavan le munizioni e le vettovaglie,
    a’ nostri non già, ma a’ Garibaldini. Si chiamavan sì gli uomini alla arme, non già a prò
    del trono del paese, ma per la rivoluzione. Onnipotente fu questa; perché, regnatrice in
    nome del re, infrangeva i sostegni dello stato, spauriva gli onesti e i fedeli, e armata
    dell’arme regia contro il re l’arme ritorceva.
    Ed ecco altro consiglio straniero, per salvar Napoli dagli orrori della guerra,
    induceva il buon nepote di S. Luigi a lasciar la sede del regno. Francesco a 6 settembre
    usciva spontaneo dalla sua città capitale: abbandonava i luoghi e le stanze ov’era nato,
    la reggia, i castelli, la flotta, il tesoro, gli arsenali e le arme. Usciva non isforzato da
    nemico, ma dal suo stesso ministero; usciva seguito dalla parte più onorata dell’esercito
    nazionale, numeroso e fremente, che per disciplina ubbidiva al comando; usciva
    tranquillo da una città silenziosa, che stupefatta mirava l’inconcepibile avvenimento,
    presaga de’ futuri suoi danni. Francesco ogni cosa lasciava, ma non l’onore. Lasciava di
    fare il re sul trono; ma si ricordava d’essere il primo soldato della nazione, ma
    sguainava la spada, ma poneva a rischio la vita per l’onor napolitano, e sebbene tardi
    pur cominciava sul Volturno quella non aspettata difesa, che per opposti casi di glorie e
    di errori sarà memoranda.
    Fu veduto un fatto nuovissimo: un ministro di Francesco, l’operatore primo di
    tanti inganni, accorrere festante al Garibaldi, e condurlo con sé inerme e solo in Napoli;
    dove i plausi de’ sublimati ignoranti camorristi gridavano Italia una. Quel ministro
    spergiuro e vile fu si’ impudente che impetrò dallo straniero, cui aveva dato la patria
    indifesa, un decreto che dichiarava lui aver ben meritato dalla patria. Ei si guadagnava
    infamia immortale, e dava a questo misero paese pur la taccia imperitura d’aver
    partorito un uomo gravato di colpa inaudita nella storia de’ regni.
    Certo non è raro a veder avvocati pigliar la difesa d’un cliente per fargli
    perder la lite, e aver la paga dell’avversario; ma l’avvocato ministro fu certo il primo a
    recar questa usana nelle liti de’ popoli e de’ re.
    Uscito Francesco, fugati, carcerati e minacciati i buoni, lo stesso già regio
    ministero gridante ora Italia una, armati quanti v’eran tristi, venuti a posta dell’estero e
    dalle province, fra lo scintillar de’ pugnali e le bandiere rivoluzionarie, qual maraviglia
    che il Nizzardo entrasse inerme e plaudito? Anche Silla dopo la distruzione piena del
    partito di Mario, passeggiava incolume le vie di Roma. E Silla era pur Romano; né
    scrittore alcuni il disse amato da’ Romani. E sarebbe stato amato in Napoli un
    avventuriero lacero e famelico, estraneo e ignoto; il quale duce di gente sitibonda d’ogni
    bene, raccolta in tutte le parti della terra, parlante barbare lingue, abbatteva senza colpo
    otto secoli di glorie nazionali, l’antica monarchia, ed un re nato napolitano, e figlio
    d’una santa donna, la cui memoria è cara e popolare! Quel fatto de’ plausi al designato
    dalla setta non prova già l’unanimità della popolazione alla rivolta, prova anzi le arti
    nequitose de’ congiuratori, e la generosità del monarca. Questi usciva per non
    insanguinar Napoli, e dava ordine di non usar l’arme; però i suoi fedeli battaglioni,
    anche seguendolo nell’esiglio, lo ubbidivano, e vedevano immoti l’orgia rivoluzionaria,
    e gl’ilari traditori, e il Garibaldi passeggiar solo, inerme… Un colpo, e la monarchia era
    salva: ma quel colpo era stato vietato dal re!
    Non fu già Napoli unanime nella gioia; piuttosto, perché abbandonata da ogni
    forza sociale, unanime fu nel timore. Nelle cose più spaurite, più italiche bandiere
    sventolavano, più luminarie scintillavano. La curiosità innata in questa gente, il numero
    che qui di leggieri fa massa, i tristi tenuti tanti anni a freno, ora sbrigliati, i molti
    travestiti Piemontesi appositamente venuti, il gridar de’ camorristi, de’ monelli, de’
    proletarii accorsi allo sperato banchettare, la contentezza de’ contrabbandieri cui s’erano
    aperti i porti, il batter di mani della setta che inebriata del trionfo, credeva aver con le
    dita preso il cielo, tutte cose erano che facevano parer numerosa quella festa. Ma che
    uomini signorili e gravi, in qualche parlamento d’Europa levin da quella tregenda
    argomenti mostrar Napoli e il reame plaudente al liberatore, questo è troppo grosso
    errore, per sembrare innocente.
    L’esercito Garibaldino, lurido, bieco, famelico, disordinato,male
    armato,peggio vestito,entra nella città. A siffatti nuovissimi vincitori s’aprono i castelli,
    le reggie, gli arsenali, i porti e le casse. La flotta, quella flotta che tanto era costata, si
    dava da’ suoi comandanti alla rivoluzione. Ogni cosa è di questi usciti da tutte le parti
    del mondo, ignoti l’uno all’altro, calpestatori d’ogni dritto, ignoranti di ogni legge. Si
    spandono per le case, pe’ paesi e per le ville; sono padroni di tutto, derubatori di ogni
    arnese, calpestatori d’ogni monumento, insultatori d’ogni grandezza. Napoli che i
    Vandali mai non vide, vide i Garibaldini.

    Capitolo sesto

    La guerra dei cannoni

    Fermezza dei Napolitani

    Nulla rimaneva all’esercito napolitano, escito per obbedienza dalle sue
    forti posizioni. Il reame era già da due mesi dominato dalla setta in nome del re
    Francesco; ora in nome di re Vittorio era dalla stessa setta dominato. Allo squallido
    avanzo della monarchia restava sol quanto poteva con gli stremenziti battaglioni
    occupare. Stremenziti erano da un anno di bivacchi su’ nevosi Abruzzi, stancati dalla
    guerra di Sicilia, dove il vincere era ito in disfatta; dalla non combattuta Calabria, dal
    correre sempre a cercare il nemico ove non era, e dal comandato continuo ritirarsi.
    Stremenziti da un anno di privazioni di ogni ben della vita; dalla lunga lontananza da’
    cari parenti; dal sentir vane tante fatiche; dal mirarsi soli, abbandonati da’ codardi
    parteggiatori del nemico, e dal veder crollare il trono non difeso, e crollare innanzi agli
    occhi loro, mentre ancora l’arme vendicatrici avevano nelle mani. Ed erano più
    striminziti dal sospetto d’avere ancora nella fila altri pronti a tradire. Non sapevano se
    più da’ loro duci o dagli avversari iavessero a temere. Fra tante infelicità, ogni soldato di
    qualsivoglia nazione sarebbe soccombuto; ma il napolitano stette fermo al suo posto.
    Eran frementi,ma risoluti di morire col re. Quarantamila passarono il Volturno; e
    altri ventimila, già sbandati da’ loro generali, sin dalle Calabrie senz’arme,
    alla spicciolata, sfuggendo i numerosi nemici che da ogni banda lor chiudevano il passo,
    con estremo pericolo, travestiti da contadini, per monti e per tragetti,a nuoto pel fiume,
    raggiungevano le amate bandiere. Questi giovani mandati a’paesi loro, preferirono di
    lasciare il riposo delle sicure capanne per incontrare gli stenti e le mitraglie. E fur viste
    le madri, novelle Spartane,scacciar di casa i figliuoli, e sospingerli alla guerra, e gridare:
    E che viene a far qui, quando a Capua il re combatte per noi?
    Vittorie napoletane ed errori dei generali
    A Capua finirono i trionfi Garibaldini. Colà non erano Pianelli e Liborii; non è
    più un re cedevole a’ consigli di ritirarsi innanzi agli assalimenti; ma un principe che
    sentiva essere sangue di S. Luigi, e nepote di gloriosi guerrieri. Incominciò la
    guerra vera. Il Garibaldi credeva ancora seguitare il giuoco delle incruenti vittorie
    e prometteva aver Capua senza colpo. Ma fu accolto a cannonate, e l’unghie de’nostri
    cavalli calpestarono le camice rosse. E sì v’erano ancor traditori!Traditori che dal
    campo garibaldino drizzavano i cannoni contro i fratelli; traditori nelle città, che con
    avvisi e segnali favorivano l’avversario. Fu dato a’ nemici il tempo di fortificare,
    d’ingrossare, e provvedere; e quando non si poteva più rattenere il soldato, a Chiazzo era
    stato preso d’assalto, estabilito era l’attacco del 1 ottobre, tosto ne correva la nuova, e si
    dava anco il disegno della battaglia.
    Così il Garibaldi si preparò. Mille volontarii Inglesi, parecchi artiglieri dell’angla
    marina, duemila Piemontesi di regolari truppe alla svelata otteneva; e là dove sapeva
    dover essere assalito, là per cogliere gli assalitori si apprestò. E i nostri Duci, che
    vedevan Napoli in balia del primo ch’entrasse, invece di pigliar questa facile via della
    vittoria, tolsero la difficile di sforzare di fronte il nemico a S. Maria, a S. Angelo e a
    Maddaloni, là dove soltanto egli era a ributtarli allestito. Invece del correre a Napoli
    senza combattere, e tagliar fuori il Garibaldi, lungi dal mare e in paese avverso,
    preferirono spingere i soldati apetto scoperto contro le asserragliate vie; e a disfar tre
    volte la fortuna in luoghi diversi, a molta distanza, dove non eran possibili simultanei
    movimenti, e il trasmettere gli ordini e le novelle della battaglia. Sembrava risolvessero il
    problema, non già del come andare, ma del come non andare a Napoli.
    Furon fatti prodigi di valore. Disfatti gl’Inglesi, sforzato il forte baluardo di S.
    Angelo, venne più volte con veemenza assalita S. Maria. Si vinse a Morrone e a
    Maddaloni. Caddero cinquemila inimici, e due nostri battaglioni animosi si cacciarono
    sin dentro la regal Caserta. Ma abbandonati eran questi prodi; e la grossa colonna da
    Morrone, senza proseguir la vittoria, si traeva indietro. I vincitori di Maddaloni, rimasti
    soli, dovettero seguirla. La notte divideva la sanguinosa pugna. E perché non valersi
    dello scoraggiamento de’ Garibaldini, e non volar su Napoli con fresche milizie? Perché
    lasciar vani tanti rischi corsi dal re e da’ suoi reali fratelli?
    Questa giornata mancò d’un uomo che sapesse stringere in pugno la vittoria.
    Nondimeno prostrò l’esercito garibaldino, cui tolse la baldanza e il prestigio; però il
    ferito suo condottiero cedeva il comando al Napoletano disertore Cosenz; e
    quella incoerente e rotta massa per metà si sbandava. Gettavan l’arme e le camicie rosse,
    e in farsetto fuggivan pe’ monti. La rivoluzione era vinta.
    Colpo alle spalle
    Era vinta irremisibilmente. Alla setta fuggiva di mano il frutto delle menzogne; il
    Piemonte avea profusi indarno tanti milioni per questa impresa; vedeva riuscir vane le
    lunghe insidie de’ suoi ambasciatori; perdeva l’arme porte al Garibaldi; si riconosceva
    svelata per i duemila uomini accorsi a soccorrerlo in Caserta, e doveva retrocedere
    convergogna dopo aver tanto proceduto con imprudenza. allora sospinta da un fato che la
    condannava a trista infamia eternale, non trovò altra salvezza che nel torsila maschera
    affatto. Allora compiute le prime geste sul debole Papa, lanciò a visiera levata il suo re
    galantuomo con cinquantamila uomini nel reame, a dare improvvisamente nelle spalle di
    un re amico e parente, nel momento appunto ch’ei con la nuda spada combatteva, ed era
    per ischiacciare appieno la rivoluzione e di suoi eroi. A somiglianza degli Attila o
    meglio a guisa del corsaro Barbarossa, quel re non curò di far dichiarazione di guerra.
    Ma disfidiamo qualunque abbiascienza di storia a trovare nelle antiche e moderne carte
    altro fatto, per ingiustizia, per viltà e per violenza insieme, che agguagli questo
    turpe assalimento del re galantuomo.
    Se fu turpe lo assalimento, non men turpe ne fu il modo. Il generale Cialdini,
    accoppiandosi co’ Garibaldini, e infingendosi chiamato da’ popoli, mitragliava le
    popolazioni che contro di esso insorgevano; e vedemmo per le mura di Napoli il
    telegramma col quale annunciava le fucilazioni senza giudizio fatte agli insorti
    contadini. Di tanta vergogna ebbero a coprirsi i Piemontesi, per entrare in questo paese
    che li respinge.
    Dimezzato era l’esercito nostro per le insidie, pe’ morti e pe’ feriti, poco
    obbidiente pel sospetto de’ suoi duci, stremato dalle malattie, e dalle fatiche di tanti
    mesi, privo di soldi e di panni, ristretto in poco terreno, messo fra due eserciti nemici,
    assalito da ogni maniera di scritti e di calunnie; eppure fedele al suo paese ed
    al giuramento, combatté sino all’ultimo istante. Non un uomo disertò. E quando
    per contraria fortuna fu poi prigioniero o disciolto, neppure piegò il ginocchio allo
    straniero; ma, senz’arme e senza uffiziali, corse su’ monti per tenere alta la patria
    bandiera de’ gigli. Ora non è mio debito narrare i fatti della malcondotta guerra; ma
    quando meglio le cagioni e gli effetti saran disgelati, la storia dirà perché non fu data
    battaglia su’ campi di Venafro, ove le artiglierie e i cavalli ne avrebbero di leggieri
    potuto dar vittoria. Dirà perché si abbandonavano le posizioni del Volturno, per prender
    l’altre più strette, sul lido d’un mare indifeso e infedele. Dirà la pugnace ritratta
    di Cascano, ove i Sardi eran la prima volta respinti. Dirà la giornata de lGarigliano, e la
    immatura morte del nostro prode general Negri, e la rotta de’ nemici, non inseguiti per lo
    disfatto ponte. Svelerà perché l’armata francese abbandonasse la promesse guardia della
    spiaggia, e lasciasse che gli stessi napolitani vascelli, vituperati dalla sabauda insegna,
    bombardassero a salva mano l’indifeso nostro campo. Svelerà perché una parte del
    misero esercito, ancora ordinato, era menato nello stato pontificio, e tolte si vedesse le
    armi dagli amici Francesi; e perché non piegasse invece ver gli Abruzzi, a tener viva
    la fiaccola dell’indipendenza. Narrerà la storia la gloriosa difesa di Gaeta, dove il re delle
    Sicilie e la giovinetta eroica regina tennero alto il vessillo, tanti mesi percossi da
    innumerevoli italiane bombe; privi di soccorso, fra le ruine della abbattuta città, fra il
    tifo, gli uccisi e le immondezze. Racconterà della barbarica guerra gli esecrandi eccessi,
    e gli arrestati parlamentarii, e i percossi ospedali, e i lavori d’assedio fatti in tempi di
    tregua, e le bombe lanciate durante le capitolazioni, e i compri scoppii delle polveriere,
    ultima opera di nefandi tradimenti. Conterà i giorni di quel fiero assedio, non da prodezza
    ma da’ lunghi cannoni superato, che quattro miglia distanti facevano la gagliardia di quei
    Piemontesi, a desco seduti e sicuri da ogni offesa. Dichiarerà come disuguale per arme,
    quello assedio dava non al vincitore ma al vinto la corona della gloria; come fermava per
    sempre nel cuore di tutte l’anime generose e nella posterità un trono incaduco al
    monarca discacciato; e lasciava ne’ Napolitani la eterna gratitudine, e l’ammirazione pel
    sostenuto onor nazionale. La storia dirà che si cadde, ma con onore. E ricorderà l’ultimo
    addio del giovane re a’ suoi compagni d’arme, l’estremo bacio sulla terra de’ padri suoi,
    il final saluto all’amato reame sì crudelmente da barbare genti calpestato; e ricorderà il
    pianto e i lagni sconsolati di quei buoni soldati a baciar la polvere premuta dagli ultimi
    passi del suo re, a involare i lembi delle vesti della regina… Oh non è vero forse che pur
    la sventura ha le sue gioie? Quando i potenti della terra discendono alle volpine arti de’
    codardi, quando i grandi tradiscono o abbandonano la virtù sventurata, è bello a vedere il
    soldato figlio del contadino, dare esempii d’abnegazione e di fede; e mosso dalla
    semplice filosofia del cuore, far arrossire gli uomini dalle ricamate divise e da’ manti
    purpurei, che in nome di una finta libertà pongono ceppi traditori ad una nazione
    innocente.
    Ma… E perché tante macchinazioni, e tante bombe, e tanto eccidio? Perché la
    sublimazione d’ogni sfrenatezza, e il rovesciamento d’ogni dritto? Per far l’ Italia una.
    Ma il Piemonte inventore e operatore di cotesto gran motto, vuole davvero l’Italia una? E
    l’Italia può essere una? E saria conveniente a farla? E i Napolitani acconsentono? Di
    questo è da ragionare.

    Capitolo settimo

    Il Piemonte non vuole una Italia

    Ipocrita diritto di nazionalità

    Questo dritto di nazionalità cavato fuori a questi tempi, tende a
    disgiungere le genti di linguaggio diverso, e ad unire le nazioni per ragion del parlare.
    Però, se questo è dritto, l’Italia ha ragione d’annettere a sé tutte le contrade ove il SI
    suona. Dunque Venezia, Corsica, Malta, Trieste, e sin le spiagge della Dalmazia e
    dell’Illirio son terre italiane, e dovranno per quel dritto venire in potenza della madre
    patria. Ma il Piemonte che vanta le simpatie di Francia e d’Inghilterra, non può voler
    torre, né il potrebbe, a queste forti nazioni le due italiche gemme di Corsica e Malta. Di
    strappar Venezia e Trieste al Tedesco molto parla; ma non vi si risica, sinchè non troverà
    di qualche Liborio o Pianelli alemanni in Mantova e Verona. Quindi esso per lo meno
    non può unir l’Italia. Ma che nol voglia è manifesto dall’aver dato a Francia le vere porte
    d’Italia, le province di Nizza e Savoia, che furon la culla della sua rinomata stirpe
    sabauda, nel cui nome va stendendo in giù le sue branche. Quando quella stirpe era
    appena italiana fu prode e fida sentinella del bel paese; oggi ch’è fatta italianissima, ne
    lascia la guardia allo straniero; ed anzi a quella nazione appunto dalla quale s’ebbe a
    guardare, e che per la sua mobile e intraprendente natura, e per la trista esperienza
    di molti secoli, era più di tutte a temere. Una porta aveva l’Italia in mano al Tedesco,
    potenza conservatrice; e il Piemonte, senza chiudere questa, ne apre un’altra al Francese,
    potenza sperperatrice. Vorrebbe una Italia, e ne dà via due province. La vorrebbe forte, e
    la fa fiacca di fatto, esposta a subir le leggi di più gagliardi atleti, che certamente la
    terranno arena delle loro disfide. Vittorio ha fatto peggio che Ludovigo il Moro.
    Ipocrita avversione allo straniero
    Questa vantata unità, conseguita in tal modo, è parola bugiarda. Il Piemonte ha
    tolto di posto le Alpi. Dio le fe’ Italiane ed ei le fa Francesi. Grida, si, fuori lo straniero!
    Ma fa entrare un altro straniero nel cuore delle sue terre, ve lo insedia, e se ne vale per
    cacciar di sedia i principi Italiani. In tal maniera abbatte i deboli duchi di Modena e di
    Toscana; caccia via dalle Marche e dall’Umbrie il pacifico Papa; schiaccia con le bombe
    il re di Napoli, e tempra l’arme scismatiche e irreligiose per mandar fuori dal seggio di
    Pietro il Pontefice di Dio. Il Piemonte grida Italia, e fa guerra agli Italiani; perché non
    vuol fare l’Italia, ma vuol mangiarsi l’Italia.
    E mentre proclama l’Italia del SI, e la cacciata degli stranieri, chiama dentro
    uomini di tutta la terra, cinguettanti i più strani dialetti. Col Garibaldi vennero Belgi,
    Dalmati, Greci,Slesii, Croati, Ungari, Polacchi, Prussi, Inglesi, Americani, Svizzeri e
    Turchi. Costoro non erano stranieri solo al regno, ma a tutto il mondo, ed anche al luogo
    ove nacquero; perocché loro patria è la setta, e là dove trovano da far sacco. E mentre
    cotesti barbari accoglie, il Piemonte esilia i più eminenti Italiani; desta ire e vendette
    fratricide qua dove era concordia e pace, richiama dalla tomba de’ secoli i
    parteggiamenti de’ Bianchi e Neri, de’ Guelfi e Ghibellini, e cammina baldanzosa
    all’asservimento pieno delle italiane contrade. Poco innanzi avevano Lombardia sola ita
    all’Austria per dritto di successione; ora per dritto di rivoluzioni e di cessioni, abbiam
    Tedeschi, Francesi ed Inglesi; perdemmo le repubbliche di Genova e Venezia; ed or
    si ritaglia Savoia e Nizza, e chi sa forse quale altra cosa. Che Italia sia stata ludibrio dello
    straniero, il sapevamo; ma che fosse ludibrio degli straniei e dell’italianissimo Piemonte,
    e che codesta vergogna nuova dopo le antiche vergogne, s’appelli da quei patrioti
    redenzione, unità e forza, ell’è una prova dell’ultimo traviamento dell’umanità.
    Il Piemonte sa di non poter vincere Francia, Inghilterra e Alemagna; però non
    pensa neppure a far restituire Nizza, Savoia, Corsica, Malta, e Venezia; ma si contenta di
    beccarsi la Toscana, le Romane e le Sicilie, stati italiani; perché questo lo può fare con
    l’aiuto Straniero. Dicono il Tedesco dominava in Italia; ma veramente dominava su
    la setta, e le vietava devastasse questo bel giardino. Cosicché il Tedesco per questa
    ragione anzi che dominatore era benefattore. Tolto lui di posto, la rivoluzione all’ombra
    delle vittorie Francesi fa versar fiumi di lagrime e di sangue. La Francia che faceva la
    guerra per un’idea, e per ricostruire la nazionalità del SI; s’ha tolto un altro cantuccio
    della terra del SI; e il Piemonte con tal contratto cedeva le sue magre piagge alpigiane
    per prendersi i grassi campi Lombardi e le più grasse Puglie, Sicilie e Terra di Lavoro.
    Questoè far la camorra in grande. E credo non mai si vedesse vendere il sangue, la pace,
    la roba e la felicità de’ cristiani in più spudorata maniera. Inoltre il Piemonte per
    conquidere l’Italia è costretta a rovesciarne la grandissima gloria del Papato, ch’è gloria
    prima e senza rivalità su la terra. L’Italia pel papato, impera nell’universo mondo. Con la
    parola di Dio ha una forza maggiore di tutte le flotte e i battaglioni del settentrione e del
    mezzogiorno, e fa chinar le ciglia a dugento milioni di fedeli. Per quella parola la patria
    nostra suona famosa nelle menti umane; perocché scelta da Dio per sedia del suo
    Vicario splende di luce imperitura, che riverbera sulle arti e sulle scienze, sulle manie sul
    pensiero, e suscita la scintilla dell’ingegno, e della Fede. Il Piemonte sente esser pigmeo
    innanzi a tanta grandezza, e nuovo Satana tenta abbattere l’opera di Dio. Quindi molesta,
    spoglia la Chiesa, perseguita i prelati, fa predicare eresie, sparge false bibbie, fabbrica
    chiese protestanti, assale la religione e la morale con la stampa, insozza le scene con
    mali drammi, le università con rei cattedratici, e le vie con immagini nude ed oscene.
    Vuole l’unità geografica, e la disunione morale. Quindi calunnia il papa e i
    vescovi, inventa sconce favole, mistifica il vero, e in tutte abbiette guise combatte. Ma il
    Vaticano s’ebbe ben altre scosse che no questa melensa procella piemontese; ed ei starà,
    sinchè Dio vuole.
    Né l’Italia può scendere dal suo saggio civile; né abdicare a favor d’un misero
    Piemonte. Essa può avere di vertigini; può la melma (e dove non è melma?)intorbidare
    le pure sue fonti, può esser sì qualche istanti abbarbagliata da parole luccicanti; ma
    l’eloquenza dei fatti, ma il suo naturale ingegno la fa salva. La civile Italia ha già cavata
    la maschera bellettata al nero Piemonte; invece del liberatore ha visto in esso lo schiavo;
    e già lo sprezza e lo scaccia. L’Italia se non sarà una per istato, una sempre sarà nella
    religione e nel diritto, e avrà forza da rivendicare contro qualunque straniero o
    interno tiranno la sua vera libertà e indipendenza. Il Piemonte NON VUOLE l’Italia una,
    ma la vuol serva. Ei si vorrebbe ingrandire; ma l’usurpazione in tempi civili non riesce a
    grandezza

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