Marino fa testo, sacro
Viceversa la sentenza pretende che siano elementi a favore dell'attendibilità di Marino quelli in cui la sua versione non coincide, e magari contraddice, quella già nota per la ricostruzione della polizia o i racconti dei testimoni diretti. Strano criterio generale, dato che fra le versioni di testi oculari o le ricostruzioni eseguite in prossimità del fatto e la versione fornita da un confesso-accusatore di cui va provata a vent'anni di distanza l'attendibilità ci si aspetterebbe che siano le prime a far da riferimento. La sentenza enuncia candidamente questo criterio [p.266]: ‘Al riguardo si osserva che analizzando i dati obbiettivi e comparando i due racconti, la versione di Marino risulta più conforme agli elementi di fatto categoricamente accertati ed alla logica di accadimento dell'attentato rispetto alla ricostruzione dell'autorità di polizia in taluni particolari addirittura incompatibile con le risultanze concrete’[!].
La farsa della via di fuga
Il primo esempio viene dall'apprezzamento impudente che la sentenza formula della indicazione di Marino sulle vie di fuga. Chi ha seguito questa vicenda ricorderà l'enorme svarione in istruttoria di Marino, del Pm e del Gi che lo verbalizzano e lo elogiano, quando, richiesto di descrivere la via di fuga dopo l'attentato, ne descrisse una opposta a quella effettivamente seguita dagli attentatori. Pronti a giurare in verba Marini, gli interroganti non se ne accorsero nemmeno e si premurarono di elogiare l'esattezza di Marino... nella descrizione della via di fuga. Dopo che, resi pubblici gli atti, ebbi denunciato il grossolano svarione i magistrati ci misero una maldestra toppa sostenendo che a Marino era stata sottoposta la cartina stradale della zona ‘alla rovescia’. Giustificazione ridicola e smentita dal confronto fra i due opposti itinerari [a parte l'amenità del concetto di ‘cartina rovesciata’]. Ebbene, ora quella toppa peggiore del buco è diventata una carta di credito di Marino: ‘L'indicazione delle vie di fuga secondo un percorso è esatto ma rovesciato sulla mappa stradale a lui mostrata, per cui si deduce che egli conosceva il percorso effettuato, ma non i nomi delle strade, com'è logico e naturale per chi ha compiuto l'azione, ma non ha studiato la mappa e le strade di Milano’ . Si veda la ripetizione compiaciuta dell'argomento in molti altri punti, per es. [p.251]: ‘A maggiore certezza, quando è stata mostrata [a Marino] una carta stradale rovesciata ha sbagliato nell'indicare i nomi delle vie, ma è stato esatto nel segnare il tracciato seguito sino all'angolo dove è stato abbandonato il veicolo’. E ancora [p.379]: ‘La genuina e convincente ricostruzione delle vie di fuga in base alla mappa stradale, sia pure rovesciata...’.
A questa prima perla, segue la seconda. L'errore di Marino sul colore dell'auto dell'omicidio prova la sua sincerità. Esso è ‘impensabile per un mitomane preparato’. Così, errori o cose azzeccate sono allo stesso modo prove della attendibilità di Marino. Se avesse azzeccato il colore dell'auto rubata per l'omicidio, si sarebbe esposto come ‘un mitomane preparato? La perla migliore è la terza: ‘Marino ha contrastato e smentito tutte le dichiarazioni fasulle dei primi testi ascoltati dagli inquirenti la mattina del delitto ed assunti immediatamente a verbale. Nei raffronti obbiettivi egli è uscito vincitore’.
Potè più lui che i testimoni tutti. I quali non sono solo invalidati in blocco, ma sprezzantemente liquidati con quell'insolito aggettivo: fasulle. [p.195]’La genuinità del racconto del Marino si deduce anche dalle sue incertezze, inesattezze e rettifiche nella successione delle varie deposizioni, mentre i resoconti calunniosi sono normalmente monolitici, categorici, univoci, perfetti nella loro struttura’.
La prossima volta che mi capiterà di dovermi difendere da una calunnia, sosterrò che è monolitica, senza falle, perfetta nella sua struttura, e che non ho nulla da obiettarle. Forse me la caverò.
Il Pietrostefani scomparso
Grazie a questa teoria delle contraddizioni come conferme di attendibilità la sentenza riesce a trasformare in un paragrafetto marginale un punto essenziale della difesa mia e di Pietrostefani. Si tratta della sfilza di versioni successive attraverso cui Marino, che ha cominciato sostenendo di essere stato avvicinato a Pisa da me e da Pietrostefani che gli avremmo impartito il mandato omicida, procede facendo impallidire la partecipazione di Pietrostefani al colloquio, poi ricordandone la sola presenza poi non ricordandone la presenza infine rammaricandosi di non ricordarne con precisione l'assenza... Tutto ciò perchè nel frattempo Pietrostefani ha, grazie a una coincidenza imprevista da Marino, dimostrato di non essere stato a Pisa.
L'episodio mostrava fin dalle radici la menzogna del racconto di Marino. Inoltre la sua prontezza, assecondata dolosamente dai magistrati, a riaggiustare le versioni successive sulle smentite ricevute [è successo su tutti i punti della sua accusa]. Doveva bastare a far cadere immediatamente l'accusa relativa al preteso colloquio pisano del 13 maggio 1972. E' scandaloso che non sia stato così. Ma sentite come ora la questione viene disinvoltamente riconfezionata dall'ultima sentenza: ‘Il 21 luglio '88 al Pm il Marino aveva detto che a Pisa, al termine del comizio di Sofri, era stato avvicinato da questi e da Pietrostefani. Poi il 21 luglio successivo [sic!] al Gi e al Pm precisava di avere parlato soprattutto con Sofri, perchè Pietrostefani l'aveva incontrato spesso a Torino e non ne aveva la necessità. Il successivo 17 Agosto al Gi ribadiva il colloquio con Sofri, pur ricordando la presenza di Pietrostefani. Il 16 Settembre 1988, in sede di confronto con Sofri, dichiarava di non poter affermare con certezza la presenza di Pietrostefani. Infine al dibattimento di 1° grado riferiva di essersi convinto della presenza di Pietrostefani a Pisa il 13 Maggio 72, ma di non averne memoria’. Prego intanto di soffermarsi su quest'ultima frase: ‘Riferiva di essersi convinto della presenza di Pietrostefani... ma di non averne memoria’.
Siamo nel capitolo aperto dalla originale dichiarazione che la memoria umana non è un apparato elettronico. Dunque, che altro si vuole? Un argomento decisivo della mia difesa è stato così liquidato. Non siamo stati io e Pietrostefani ad avvicinare Marino per farne un omicida, ma è stato Marino ad avvicinare me, in assenza di Pietrostefani, per chiedermi di farne un omicida. Che differenza volete che faccia? Per la sentenza, non ha fatto alcuna differenza. Ha solo rubato tredici righe e mezza della prosa memorabile dell'Estensore: ‘Era convinto della presenza, ma non ne aveva memoria’.
Gli sforzi mnemonici
[p.199] ‘La complessità della narrazione e il tempo trascorso dai fatti, avvenuti dai quindici ai diciotto anni prima delle deposizioni, giustificano pienamente le inesattezze anzi ci si dovrebbe meravigliare del contrario, sapendo che Marino è un lavoratore manuale, non dedito a una professione intellettuale’.
Nella stupidità faziosa di questo giudice c'è anche qualcosa di personalmente offensivo. Contro i lavoratori manuali per esempio. Lo si considererà un lapsus rivelatore del vero animo dell'estensore, la cui demagogia giunge viceversa a questa prosa [p.221]: ‘Va tenuto conto del notevole squilibrio culturale, dialettico ed emotivo esistente fra il Marino, già operaio della Fiat ed ora venditore ambulante, e i suoi contraddittori, laureati, manager aziendali, professori universitari, confortati da avvocati di chiara fama ed elevata capacità professionale’. [p.200]‘Le graduali correzioni del Marino non sono state la conseguenza di specifiche contestazioni dei magistrati o dei difensori dei coimputati e neppure sono derivate da nuove emergenze processuali. Esse in realtà sono state il frutto di sforzi mnemonici del dichiarante, tutte rese nel corso di consecutivi interrogatori, sospesi per necessità logistiche, ma che possono essere considerati unitariamente, come una sola deposizione’.
Non è possibile dubitare della mala fede di un simile passo, riferito alle successive versioni del Marino sulla ‘presenza perfettamente ricordata’, e ‘l'assenza non perfettamente ricordata’ di Pietrostefani a Pisa.
Nel tentativo di svalutare il senso di una proposizione netta e perentoria come quella :’Al termine del comizio fui avvicinato da Sofri e da Pietrostefani’ la sentenza così, incredibilmente, la commenta [p.201]: ‘Da tali dichiarazioni si deduce soltanto che fino a quel momento era stato prevalentemente il Bompressi a parlargli dell'omicidio Calabresi, e poi in alcuni incontri Pietrostefani [sic!]’. Poichè è difficile crederci, prego di controllare il testo della sentenza.
In primo luogo gli ‘sforzi mnemonici’ derivano dal fatto che nel frattempo Pietrostefani ha documentato la propria assenza e le sue ragioni [la latitanza per i mandati di cattura per un'apologia di reato]. In secondo luogo, i ‘consecutivi interrogatori’ sospesi per necessità logistiche [il buio o che so la necessità di rifocillarsi e dormirci sopra] se vanno dal 21 luglio 1988 al 29 luglio 1988 serbano indiscussa la presenza a Pisa di Pietrostefani. Se vanno fino al 17 agosto 1988 [per limitarsi agli interrogatori in cui la presenza di Pietrostefani è sempre ricordata] o fino al 16 settembre 1988 [se si include il confronto con me, in cui non è più ricordata] o addirittura fino al dibattimento, un anno dopo e oltre, dove è dimenticata definitivamente, è chiaro che non si può sostenere che le correzioni siano indipendenti dalle smentite esterne: a partire dalla tempestiva dimostrazione della difesa di Pietrostefani.
Strapparsi le vesti
In appendice a un simile ragionamento, la sentenza arriva anche a scrivere che ‘non è stata provata con certezza l'assenza di Pietrostefani a Pisa’ . Marino l'ha sconfessata concludendo di ‘non averne memoria’, Pietrostefani l'ha motivata con un episodio fortuito interamente sfuggito agli investigatori, tutti i testimoni pisani, manifestanti e poliziotti e i rapporti di polizia non fanno cenno di una presenza di Pietrostefani e questo vuol dire che ‘non è stata provata con certezza l'assenza’. Conclusione della sentenza [p.201]: ‘Non è consentito quindi strapparsi le vesti per le rettifiche del Marino in proposito, nè sopravvalutarle’. Fin qui arriva la faziosità.
Le felici correzioni di Marino
Ci sono altri casi, meticolosamente documentati, che mostrano con piena evidenza la successione di versioni contraddittorie da parte di Marino e il loro carattere doloso di aggiustamento progressivo alle prove altrui. Ne ho fornito, riguardo alla mia situazione personale, più esempi:
1. La versione secondo cui Marino, dopo il preteso colloquio con me dopo il comizio pisano, saluta e parte [‘Salutai il Sofri e ripartii per Torino]. Corretta una prima volta al confronto con me di fronte alla mia opposta ricostruzione, nella versione per cui era possibile che fosse venuto quella sera, dopo cena, a casa mia a Pisa. Corretta una seconda volta al dibattimento, nella versione dettagliata della visita fatta, la sera, a casa mia.
2. Le successive versioni sulle ragioni che avevano spinto Marino a cercarmi negli anni recenti, 1986-87. Dall'unico incontro dettato dall'ansia morale di parlare del passato, ai più incontri, perchè da me riferiti e provati, con i testimoni romani, i miei assegni bancari ecc., riconosciuti come intesi a chiedermi aiuto in denaro.
3. Le successive addirittura comiche versioni sul preteso incontro con me a Massa al comizio del 20 maggio 1972, quando gli avrei detto di essere arrivato in treno guardato a vista dalla polizia [sic!]. Io spiego di essere venuto in auto da Pisa e fornisco i nomi di chi mi ha accompagnato e allora Marino corregge dicendo che posso essere arrivato in auto a Massa, ma ero arrivato in treno a Pisa [!]. Ultima versione [oltretutto grottescamente autodenunciatoria perchè Marino e inquirenti si sono dimenticati di aver già verbalizzato una correzione e dichiarano questa come la prima correzione dovuta a un improvviso ritorno di memoria] in cui Marino si è ricordato non solo che sono venuto in auto da Pisa, ma che gli ho detto di aver prima pranzato con la mia famiglia a Pisa. Alle pp.266 segg. la sentenza prova ad affrontare la correzione di Marino, formulata per rincorrere la mia precisazione, scrivendo questa grottesca frase: ‘Relativamente alle pretese incongruenze esse in verità riguardano soltanto il tragitto in auto da Pisa a Massa perchè da Roma a Pisa in entrambi gli interrogatori Marino parla di viaggio in treno. Prego di rileggere. Marino dice: Sofri è venuto da Roma a Massa in treno. Sofri dice: sono venuto da Pisa a Massa in auto. Il giudice dice: da Roma a Pisa tutti dicono che Sofri è andato in treno.
Sono solo alcuni degli esempi possibili, inequivocabili. E la sentenza, che li ignora o li deforma strumentalmente, dichiara che non c'è che lo sforzo mnemonico di Marino e che le ‘graduali correzioni’ non dipendono da specifiche contestazioni o emergenze processuali!
Categoricamante certo e sicuro
Dell'ultima versione di Marino in dibattimento circa Pietrostefani a Pisa la sentenza si dimentica tout court, salvo scrivere [p.204]: ‘Tutte le dichiarazioni sopra riportate sono state integralmente confermate al dibattimento di primo grado’[!] La sentenza fa di più. Dovendo dire che una conclusione è certa e inevitabile, e cioè che Marino ha detto di essere stato avvicinato da Pietrostefani a Pisa e poi ha dovuto rimangiarselo, la sentenza scrive così: ‘Come si può dedurre dall'esame comparato delle deposizioni dei due coimputati, nonostante le loro divergenze nel racconto, un dato essenziale rimane categoricamente certo e sicuro: Marino e Sofri si sono incontrati dopo il comizio di Pisa’.
Ora io e Marino non ci incontrammo dopo il comizio di Pisa, e dunque questa asserzione è falsa da capo a piedi. Tutta la mia difesa ne ha mostrato la falsità [non la mancata provatezza, la provata falsità] con una dovizia di argomenti diversi insuperabile. Ma qui voglio solo sottolineare il modo di procedere della sentenza, che asserisce una falsità peraltro decisiva quanto alla mia posizione, accompagnandola prodigalmente con attributi come categorico, certo, sicuro, facendola derivare dalle parole con cui Marino ha progressivamente smentito se stesso!
Perchè fingere di fare processi ed esaminare prove, se ciò che è da provare, -e che è stato contraddetto oltre ogni dubbio, diventa prova di se stesso? [p.204]’Il viaggio da Torino di Marino aveva come scopo ricevere la conferma che il suo capo [sic!] Adriano Sofri era d'accordo con la decisione dell'Esecutivo Nazionale di Lotta Continua di agire in relazione all'omicidio Calabresi’. Chiaro, no?
L'esecutivo, non imputato, è condannato
A pp.215 segg. si elogia la ‘perfezione’ della logica interna di Marino, l'assenza di ritrattazioni, la costante conferma e arricchimento delle dichiarazioni ecc. Si è già visto come questo corrisponda a scivolate come la presenza di Pietrostefani a Pisa ecc.
Fermiamoci però su un punto, importante quanto maltrattato in questo come nei precedenti processi, nonostante l'avvertimento esplicito delle Sezioni Unite: la questione della responsabilità dell'Esecutivo. Questione particolarmente odiosa, prima di tutto perchè successive corti, che non si sono trovate di fronte un'imputazione associativa, come sarebbe stato doveroso se davvero di una responsabilità dell'Esecutivo si fosse trattato, hanno arbitrariamente scritto in sentenza che la decisione dell'omicidio era venuta [addirittura con voto a maggioranza!] dall'Esecutivo di Lotta Continua, che non avevano avuto il coraggio o la possibilità di imputare. Odiosa perchè in questo modo surrettizio si era fatta passare una responsabilità politica e materiale di Lotta Continua [dunque non di suoi eventuali singoli militanti, o frange, o gruppi] nella decisione e nell'organizzazione di un attentato omicida. Ricordo che in istruttoria i magistrati erano stati appassionatamente tentati dall'ipotesi di incriminare l'Esecutivo di Lotta Continua in quanto tale [ed era inevitabile che lo facessero, finchè mostrassero di prendere sul serio l'idiozia del voto sull'omicidio] e per questo avevano emesso avvisi di reato, più o meno a casaccio, secondo le parole in libertà di Marino [uno di quegli avvisi era arrivato a Mauro Rostagno]. Poi si erano spaventati della propria stessa ingordigia e si erano tirati indietro. Si erano giustificati così: che Marino in realtà non aveva nozione diretta della decisione dell'Esecutivo, avendone saputo de relato. L'aggiustamento non andava del tutto liscio, dato che nelle prime verbalizzazioni di Marino l'enfasi sull'Esecutivo [incoraggiata senz'altro da carabinieri e magistrati, come mostrano i rispettivi verbali] era colossale, al punto che Marino aveva dichiarato di essere venuto a Pisa a cercare da me la conferma che l'Esecutivo fosse davvero d'accordo con l'attentato. In dibattimento Marino stesso aveva docilmente ridimensionato e annacquato le sue menzioni dell'Esecutivo. Così, un po' per salvare il loro beniamino un po' per togliersi di dosso il sospetto di condurre un processo politico all'intera Lotta Continua, i giudici avevano proclamato di non perseguire reati associativi ma solo responsabilità personali e avevano lasciato da parte la criminalizzazione dell'Esecutivo [nè ebbero seguito le denunce, come quelle di Boato di Viale e altri, che chiedevano di indagare su una propria responsabilità se si fosse provata la storiella del voto sull'omicidio, o sulla calunnia se si fosse provato il contrario]. Però, dopo esser corsi ai ripari, alcuni dei giudici successivi non rinunciarono a dare per scontata nelle sentenze la responsabilità dell'Esecutivo, così facendo passare alla storia per una illecita via giudiziaria la qualificazione di Lotta Continua come organizzazione omicida.
Sentite come questa ultima sentenza tratta la questione [p.216]: ‘Per tutto il corso del procedimento... Leonardo Marino ha sempre e senza esitazioni, attribuito la decisione dell'omicidio Calabresi all'Esecutivo Nazionale di Lotta Continua ed ai suoi capi e dirigenti Sofri e Pietrostefani’. Questa presunta costanza è anzi un'altra delle prove dell'attendibilità di Marino. Con tranquilla sicurezza la sentenza scrive [p.225]: ‘La sua eliminazione [di Calabresi] era stata decisa dall'Esecutivo Nazionale di Lotta Continua in una specifica riunione a Milano’. E che Marino venne a Pisa perchè [p.226] ‘voleva essere rassicurato che la decisione fosse stata presa dall'Esecutivo Nazionale’. Infine culmina nelle parole [p.470]: ‘... parte dalla decisione dell'esecutivo, con il voto favorevole di Sofri e Pietrostefani, ed altri partecipanti, non potuti identificare...’. Qui non solo si ribadisce la versione dell'omicidio messo ai voti nell'Esecutivo, ma si arriva a sostenere che gli altri partecipanti al voto non sono stati perseguiti e condannati solo perchè ‘non potuti identificare’. Ciò che è scandaloso e falso, dato che i nomi esatti dei membri dell'Esecutivo sono stati forniti proprio da noi!
Alle pp.238-39 la sentenza si fa bella delle prove acquisite sull'esistenza di un Esecutivo Nazionale di Lotta Continua nel 1972, citando il mio primo [e unico] interrogatorio in istruttoria in cui avevo detto di non poter ricordare le date di esistenza di quell'organismo. Ora, le prove, cioè tutte le testimonianze rintracciabili nella nostra stampa e in altri documenti dell'epoca, erano state raccolte ed esibite da me al processo. Come la sentenza possa perciò insinuare che dei testimoni [‘Brogi, Boato, Morini’] abbiano negato l'esistenza dell'Esecutivo in quel periodo in quanto ‘clamorosamente e manifestamente falsi ed inattendibili, animati soltanto dal desiderio di favorire i vecchi compagni di milizia politica’ è difficile capire, a parte la triviale oltraggiosità del linguaggio.
Quanto alla icastica conclusione: ‘Sul punto Marino ha detto la verità’ essa è una sciocchezza, autorizzata solo dal deliberato fraintendimento. Marino ha sbagliato, e mentito, quanto alla composizione dell'Esecutivo indicando nomi di persone che non ne hanno mai fatto parte. Errore non veniale dato che quelle persone sono state indiziate di omicidio. E ha mentito non dicendo che nell'Esecutivo c'era sempre stata una partecipazione [addirittura numericamente maggioritaria] di operai. Dimenticanza non lieve, dato che anche quegli operai avrebbero dovuto ‘votare’ sull'omicidio di Calabresi, secondo la grottesca calunnia di Marino, fatta propria dalla sentenza.
Pioggia
Alle pp.240 segg. si torna a discutere della pioggia pisana del 13 maggio, cioè si finge di rifarlo. Su questo tema ogni colmo di ridicolo era stato sorpassato da tempo. La sentenza attuale procede così: a) bisogna attenersi ai dati meteorologici ufficiali, dunque pioggia debole continua b) le testimonianze dei presenti, numerosissime, ed estensibili fino alle migliaia, devono cedere di fronte ai dati meteorologici generali c) l'entità della pioggia non fu tale da impedire un colloquio [neanche un'alluvione l'avrebbe impedito, forse. Ma il punto era tutt'altro, e cioè che Marino, dimentico della pioggia, aveva descritto una nostra comune passeggiata dalla piazza a un bar dopo il comizio, con gran seguito di persone, poi la consumazione al bar, poi l'uscita e il colloquio, Pietrostefani a parte] d) che non si può negare che effettivamente piovve [la sentenza concede una parentesi di sei parole: ‘Vedi fotografie agli atti del processo [sic!]’ all'imponente documentazione fotografica della piazza con ombrelli, striscioni grondanti sulle teste, gente bagnata dalla testa ai piedi] neanche una parola la sentenza riserva alle cronache del tempo [La Nazione, il Manifesto, Umanità Nuova, che scrissero di pioggia battente, pioggia insistente, pioggia continua, di persone che restarono in piazza nonostante la pioggia fitta, eccetera]. La sentenza prende la minuziosa ricostruzione del dopo comizio, fornita da me e da un gran numero di testimoni [il conciliabolo sotto il palco, sull'affissione della lapide, l'invito a fissare altri comizi ecc.] invece che come una prova delle cose come andarono, opposta al racconto di Marino, come una prova del fatto che dei colloqui ci furono, dunque anche quello detto da Marino. La sentenza semplicemente cancella la lettera della testimonianza di Augusto Moretti e di Guelfo Guelfi, che stette sempre con me e mi accompagnò a visitare Ceccanti. Testimonianza insuperabile da tutte le successive versioni escogitate dall'accusa, salvo dichiarare anche Guelfi mentitore. Il Pg degli ultimi due processi, nell'impossibilità di far quadrare i testimoni con l'accusa, e tenuto dalle Sezioni Unite a non liquidare i testimoni all'ingrosso come falsi, era arrivato al ridicolo paradosso di ipotizzare che, durante il capannello sotto il palco, io, inosservato, fossi sgattaiolato al bar, di lì a chiacchierare di omicidi con Marino, poi fossi rientrato, sempre non notato, nel capannello, per poi allontanarmi con Guelfi alla volta della casa di Ceccanti. La sentenza attuale semplicemente ha abolito il problema. Così facendo, è arrivata, qualche pagina più in là e del tutto en passant, a un riconoscimento che, trasferito nelle sentenze precedenti o preso sul serio anche in questa, basterebbe a chiudere la questione: ‘Questa Corte dà poi pieno credito al racconto di Sofri relativo al suo allontanamento dalla zona con Guelfo Guelfi ed alla visita in casa dell'amico Ceccanti dopo il comizio, ma ritiene che esso non sia incompatibile con qualche minuto di colloquio con Marino prima di lasciare la piazza’ [pp.248-49]. Così si dà pieno credito a un racconto, salvo dichiararlo compatibile con il suo contrario.
L'esatta testimonianza di Guelfi, che non si è mai allontanato da me dalla discesa dal palco all'allontanamento dalla piazza, non c'è più [nè gli altri evocati a sproposito da Marino, come Brogi che quel giorno era a una pubblica manifestazione a Sampierdarena]. In compenso la sentenza attuale si premura di negare che la pioggia non ricordata significasse che Marino non era a Pisa [p.244]: ‘Se poi si vuol dire che Marino non era al comizio perchè non ricorda la pioggia...’[!] Nessuno ha mai negato che Marino fosse al comizio, a cominciare da me che [a differenza dello stesso Marino, che aveva costruito la sua calunnia su quella prima versione secondo cui era stato avvicinato da me e Pietrostefani] ricordai che era venuto nella mia casa pisana quella sera. Ciò che Marino fu costretto ad ammettere dopo aver detto a verbale che, dopo il preteso colloquio nella piazza alla fine del comizio, ‘salutai il Sofri e ripartii per Torino’. Ora si gusti questo frutto singolare dell'intelligenza del giudice estensore [p.245]: ‘Proprio guardando con attenzione le fotografie pubblicate, prodotte dalle difese, si noterà che al comizio di Pisa alcuni dei partecipanti avevano l'ombrello aperto, uno si riparava sotto un telo nei pressi del palco, mentre lo stesso Sofri parlava protetto da un ombrello, sorretto da un compagno, ma numerosi altri militanti, ascoltavano tranquillamente il discorso privi di ripari, sia sul palco, sia nella piazza San Silvestro’.
Chissà che quelli corsi ai ripari stessero già predisponendosi l'alibi per vent'anni dopo. Ora, è impossibile aver ragione del pregiudizio. Quando il pregiudizio si allea con l'imbecillità non c'è niente da fare [frase , secondo me, da incidere sulla home page del forum della CdL di Politicaonline… - n.d.r.].
Solo tardi ci fu segnalata la cronaca che della giornata pisana del 13 maggio 1972 aveva fatto il settimanale anarchico Umanità Nova [Anno 52, n.18, 20 maggio 1972]. Scherzammo allora sul fatto che un giornale anarchico sarebbe stato dichiarato inattendibile per definizione... Sta di fatto che in quella cronaca [‘Pisa. Comizio per Franco Serantini’] si scriveva che ‘un migliaio di compagni affollavano la piazza nonostante la pioggia fitta’. Una formulazione più di ogni altra corrispondente, come si vede, al ricordo dei testimoni. Una pioggia così forte da far sottolineare che le persone restassero in piazza e implicitamente da confermare lo scioglimento rapido una volta concluso il comizio. Per esempio Guelfi: ‘P- Lei prima ha detto, dice: 'Pioveva e non c'era da fare che rimanere o andarsene'. T- Certo. Secondo me era così’. Per esempio ancora Boato: ‘Ovviamente... sarebbe ridicolo che noi andassimo a fare una manifestazione per protestare per l'assassinio di un ragazzo e poi perchè pioveva ce ne andassimo. Quindi è ovvio che abbiamo aspettato la fine del comizio e poi ce la siamo squagliata’.
Ricapitolando la sua tesi, la sentenza, che fa il bello e il cattivo tempo, scrive testualmente che ‘con assoluta certezza... non vi fu nessuna pioggia battente’, usando inavvertitamente le stesse parole, pioggia battente, che i giornali del giorno dopo impiegarono facendo la cronaca della manifestazione. Così viene ‘provato’ il colloquio fra me e Marino, e il mio mandato di omicidio.
[continua]