PAROLE & POLITICA / Dai giorni dell’attacco contro lo strapotere mediatico fino all’approvazione della riforma


Bossi, le televisioni e il Carroccio a zig zag

Quando uscì dal governo voleva «far saltare i ripetitori»


Prova provata che il Senatur tiene in pugno i suoi e li porta volta per volta dove vuole. Il che dovrebbe dare al Cavaliere la serenità ideale per il semestre europeo. Oppure togliergli il sonno. Roberto Calderoli, il dentista bergamasco che l'altra sera, nel ruolo di presidente della seduta, aveva imposto tappe forzate ai lavori coi metodi spicci che gli hanno fatto guadagnare tra gli amici la fama di essere efficiente e tra gli avversari quella di essere brutale, ride con un pizzico di autoironico imbarazzo: «Se ci fossimo dedicati ai tralicci oggi saremmo in diversi, qua dentro, a mancare di qualche pezzo...». Certo che se le ricorda, le invettive del suo capo: «Ma gli anni passano... La strada è lunga...». Intendiamoci: non è che il leader leghista sia sempre stato contro lo strapotere delle tv berlusconiane. Dipende. Nel 1992, per esempio, prima che il futuro fondatore di Forza Italia si desse alla politica, aveva intimato: «Berlusconi non si tocca, è la Rai che va buttata all'aria con tutta la canaglia che ci lavora. Alla Fininvest sono più democratici. Perché dovrebbe vendere una delle sue tre reti? Chi l'ha detto? Lui ha creduto nella tv e ci ha investito. Oggi è giusto che sia lui a raccogliere e non la Rai fascista antidemocratica. E' la Rai il vero nemico del pluralismo, non Berlusconi».
Da allora, però, non aveva fatto altro che bombardare. Per anni. E non solo con le cannonate, diciamo così, generiche (tipo chiamare l'amico Silvio «quel brutto mafioso che guadagna i soldi con l'eroina e la cocaina» o dire che «La Fininvest è nata da Cosa nostra») che gli avevano procurato l'accumulo di 18 querele da parte del Cavaliere, ritirate dopo il patto elettorale siglato davanti al notaio. Ma anche con quelle mirate specificamente al conflitto d'interessi.
Preoccupatissimo, il Senatur aveva manifestato tutte le sue perplessità anche dopo la vittoria (comune) del 27 marzo 1994: «Siamo in una situazione pericolosa per la democrazia. Se quello va a Palazzo Chigi vince un partito che non esiste, vince un uomo solo, il Tecnocrate, l'Autocrate. No, io non lo metto il Paese nelle mani di quello lì, proprio no». Trattando sui ministeri aveva avvertito: «Vedremo, vedremo quando arriverà l'Antitrust, vedremo quel tale che vuol tenersi le sue tre reti televisive, vedremo se questo dev'essere un Paese civile o sudamericano». Fatto il governo, aveva insistito: «No, noi non siamo soddisfatti. Adesso Berlusconi controlla anche la Rai. Per salvare la democrazia ci vorrà l'antitrust, che gli levi qualche tv. E' caduta una colonna del duopolio, adesso tocca alla Fininvest».
Una cosa ripeteva allora di avere chiara: «Quale editore televisivo, in Europa, possiede due reti? Io credo che ne basti una a testa». E chi doveva essere il baluardo contro i rischi di una deriva tele-plebiscitaria? Lui: «E' chiaro che a quello lì dovremo portargli via le tivù. Una bella Antitrust per cominciare, poi subito dopo ci guarderemo in giro. In campagna elettorale gli unici che parlavano sulle reti Fininvest erano il Kaiser e Fini, quelli lì sono in grado di manipolare la coscienza della gente. D'ora in poi il garante sono io, le pedine sulla scacchiera le muovo io, e carico il destro quando voglio io».
Il pugno destro o, se necessario s'intende, la dinamite. Basti ricordare la minacciosa baldanza con la quale il condottiero padano guidò nel 1995 le sue truppe all'assalto di quello che in una intervista a Radio Radicale definì «un mostro antidemocratico» e il suo sistema televisivo: «Vinceremo i referendum, anche perché useremo le armi pesanti. E se dovessimo perdere nessuno potrebbe sorprendersi se cominciassero a saltare i tralicci delle Tv di Berlusconi. Quando c'è in ballo la democrazia... Quando un potere è ingiusto è giusto combatterlo con tutti i mezzi possibili, senza farsi troppi scrupoli».
Era un fiume in piena, in quei giorni, il futuro ministro delle Riforme dell'attuale governo Berlusconi. Un fiume in piena che trascinava il «suo» popolo (come lo avrebbe trascinato l'anno dopo dal Monviso alle foci del Po e a Venezia) con parole d'ordine durissime. Contro le televisioni del Cavaliere e insieme contro la Rai: «Dovremo trovare il modo che i porci romani non parlino più alla gente del nord. Abbatteremo i ripetitori». Era una fissa.
Sempre lì finiva: «I ripetitori sono i nuovi carri armati del colonialismo romano. Per quelli veri basterebbero le armi anticarro e con centomila lire gliene buchi uno, ma contro questi non basta non pagare il canone. Vanno buttati giù».
Col tempo, dice il voto dato ieri dalla Lega anche alla proroga per Retequattro che per ora non finirà più sul satellite, ha cambiato idea.
Ma è lì, sulla cristallina coerenza bossiana, che il Cavaliere avverte qualche battito d'inquietudine. Per ora bene così. Prosit . Alla faccia di tutti i girotondi e i girotondini che ieri si sono ritrovati a piazza Navona per denunciare quella che ritengono come Mario Segni «una legge infame». Ma dopo l'estate, alla Camera, quando la «Gasparri» tornerà all'esame...