Maurizio Murelli, 11 anni di carcere per gli incidenti al corteo milanese del Msi in cui morì l’agente Marino (maggio 1973) è intervenuto sull’amnistia e sul caso Sofri con questo brano pubblicato su La Padania i giorni 24 e 25 luglio.

Ci sono fatti di cronaca o di costume che per ragioni varie si trasformano in fatti politici, alcuni dei quali ci riguardano da vicino. Chi, come noi, si origina dalla Destra Radicale (a prescindere dal fatto che poi si sia evoluti verso nuove sintesi oppure si sia rimasti fedeli e immutati rappresentanti delle primitive formule oggi assurte al rango di ortodossie) non può restare inerte di fronte a questioni come il cosiddetto “caso Sofri”. Non tanto perché il destino di quell’uomo ci interessa in modo particolare o anche solo tangenziale, ma per come il caso, assumendo connotati politici e culturali, viene oggi trattato.
È noto che chi qui scrive, giudicato per la morte di un poliziotto con il reato di “concorso morale in omicidio” (ma la prima imputazione fu addirittura di strage), ha trascorso undici anni della sua esistenza in carcere (tre nei penitenziari speciali a titolo puramente gratuito, solo per giustificare l’internamento in quei luoghi infami di un cospicuo numero di brigatisti) e altri sei tra “semilibertà” e “condizionale”: i migliori anni della vita di un uomo, se si considera che la detenzione ha avuto inizio quando aveva da poco compiuto i 18 anni. Ricordo questo dato personale perché sia chiaro con quale titolo posso parlare di detenzione, pena e carceri: ho un’esperienza diretta che mi consente di allinearmi di fatto al signor Sofri, da coatto a coatto. La mia, in altre parole, non è la prospettiva di chi discrimina su base ideologica o quella di chi sentenzia senza cognizione di causa, e l’opinione che esprimo ha un valore aggiunto rispetto a chi esprime le proprie da “semplice” cittadino benemerito, intellettuale più o meno raffinato, politico o giornalista in carriera.
Dunque, il signor Sofri per quel che rappresenta oggi da un punto di vista culturale, di visione del mondo e di opinione, ha la mia totale disistima. Le sue prese di posizione per quel che attiene la Bosnia, la Serbia, la Cecenia, l’Iraq, il revisionismo sugli accadimenti legati alla guerra in Vietnam e la politica americana lo qualificano al presente. Sul suo trascorso di dirigente di Lotta Continua preferisco stendere un pietoso velo di silenzio. Ma per quanto lo disistimi, non gli auguro un solo secondo di carcere in più di quel che ha già fatto, per quanto non senta il suo destino come affar mio. E non essendo il mio un giudizio morale sul suo percorso esistenziale, poco importa puntualizzare se a fare il Sofri di oggi sia la stessa sostanza etica di ieri o se invece egli è altro da ciò che era. Quello che invece mi tocca è il “caso” Sofri nella prospettiva di chi oggi questo caso lo tratta. Prescindo dalla posizione dei suoi ex compagni, oggi sparpagliatisi in tutti i partiti esistenti — sono le ragioni degli intellettuali e dei politici moderati che disturbano e fanno venire l’orticaria. È sufficiente fare l’anatomia dell’articolo di Stefano Folli apparso come editoriale sul “Corriere della Sera” (di cui è oggi neodirettore con diritto di “sbroccare” con maggior frequenza di quanto non facesse prima) per rendersi conto dell’indecenza del ragionamento sotteso: un ragionamento che per santificare l’uomo Sofri automaticamente e oggettivamente reprime, offende e squalifica tutti (nessuno escluso) gli altri detenuti passati, presenti e futuri. E dunque, tra questi detenuti ci sono pure io (per il passato) in compagnia di altri amici (per il passato, il presente e forse per il futuro... mai metter limiti alla divina provvidenza!).
L’editoriale in questione appare in prima pagina (già questa collocazione per un caso del genere è un’esclusiva mondiale se si esclude il caso Mandela) domenica 13 luglio, e a partire dal giorno dopo tutti i media dedicano ampi e privilegiati spazi alle opinioni sul caso. Scrive Stefano Folli: «Nel carcere di Pisa vive e lavora un uomo che sta pagando il suo debito verso la giustizia. Lo fa con estrema dignità ormai da anni. Il suo nome è Adriano Sofri e con sobria civiltà pubblica da anni sui maggiori giornali». Punto primo: nelle carceri italiane vivono migliaia di uomini che stanno pagando il loro debito, alcuni alla giustizia, altri alla legalità, che come è noto non sempre coincide con la giustizia. Molti di questi non lavorano per il semplice fatto che non glielo consentono per una ragione o per l’altra (per esempio: potrebbe Totò Riina lavorare?). Ma Sofri (e questo è il punto secondo) ha un trattamento speciale che per un detenuto è gratificazione non da poco. Quel che può fare e avere a disposizione Sofri non lo può avere chiunque. Per poter lavorare con i quotidiani deve necessariamente avere a disposizione computer personali e avere l’opportunità di inviare i suoi pezzi quasi in tempo reale alle rispettive redazioni. Per soprammercato, davanti al cancello della sua cella fanno processione parlamentari, intellettuali ex presidenti del consiglio, segretari di partito e via elencando. Sofri è dunque un privilegiato (anche per la scelta del carcere a cui è stato destinato, vicino a casa, mentre ci sono detenuti le cui famiglie devono attraversare l’Italia per avere un colloquio: a me mi mandarono, da Milano, persino a Potenza e all’Asinara). Per come scrive Folli, sembrerebbe che Sofri sia ospitato nei media di rango perché è un genio. Scrive infatti: «Le sue riflessioni sul nostro tempo costituiscono un punto di vista impossibile da ignorare. Sono testimonianze proposte con attenzione scrupolosa verso la realtà di un Paese decifrato in tutte le sue complessità. Forse nessuno come Sofri ha saputo leggere attraverso la tragedia vissuta dalla comunità civile italiana nell’ultimo scorcio del Novecento: il terrorismo, le sue conseguenze, la frattura di una quasi guerra civile che ha rischiato di distruggere la Repubblica». Che ne sa Folli? Perché Folli non si domanda per quale ragione Sofri ha l’opportunità di esternare, pontificare, riflettere e altri tale possibilità non la possono avere? Folli, e con lui quanti la pensano come lui, può benissimo ritenere che «Nessuno come Sofri ha saputo alimentare un dibattito autentico [sic! - n.d.r.], e non di maniera, sull’identità collettiva e sul destino di due generazioni. Anche per questo, soprattutto per questo, possiamo affermare senza enfasi che Adriano Sofri è oggi uno dei maggiori intellettuali italiani», ma deve ammettere che tale convinzione è indotta e supportata da un coro omologato e omologante, non il risultato di una sua personale ed esclusiva scoperta.
Dal mio punto di vista, di certo c’è che Sofri è il fantasma della cattiva coscienza di molti suoi partner ben arrivati e ben accomodati nelle varie stanze del potere intellettuale e giornalistico. Stanze la cui precarietà è rara rispetto a quelle della politica: e di fatto ci sono fior fiore di politici caduti dalle stelle nel guano delle stalle, ma non conosco giornalisti o intellettuali a cui è capitata sorte simile. Per cui si può dire che il potere personale del giornalista è in assoluto più stabile di quello del politico e persino di quello dell’uomo di finanza. Un Andreotti, un Forlani, un Mannino, un Craxi ma anche un Calvi, un Sindona, un Cecchi Gori, omologhi di un D’Alema, di un Bertinotti, di un Fini, di un Agnelli, di un Cuccia possono anche rovinare verso il basso, mentre non si ha notizia che omologhi di un Montanelli, di uno Scalfari, di un Biagi, di un Mieli e via elencando perdano nel tempo, per accidente, quota del loro potere. Anzi, anche nella dannazione di un momentaneo oscuramento televisivo il loro peso specifico si accresce. Per questa ragione questi signori sono una forza stabile, una casta dalle caratteristiche nobiliari il cui blasone (la firma) conta sempre molto: e i politici, i finanzieri, gli imprenditori li temono e tendono ad ingraziarseli. La loro visibilità, la loro presenza in video oltre che sui quotidiani di riferimento è costante e inalienabile.
In questo circuito nobiliare gli ex commilitoni di Adriano Sofri sono un esercito. Alcuni noti (Ferrara, Lerner, Liguori, Mieli), altri molto meno: e uno che, quando parla dell’Italia, vi si riferisce come a un Paese piuttosto che a uno Stato (mi riferisco a Folli), mi porta a credere che una certa contiguità con quell’ambiente l’abbia avuta.
Comunque sia, questa gente (giustamente) non ha fatto mancare il proprio appoggio all’ex compagno e lo ha sostenuto consentendogli di propalare le sue tesi revisioniste (rispetto ai tempi dell’omicidio Calabresi) sui maggiori quotidiani e di intervenire spesso persino in televisione. Questo può accadere anche perché quanto espresso da Sofri, per quanto originale e intellettualmente apprezzabile, è comunque materia che fa girare il mulino dell’omologazione culturale. Poteva Sofri o chi per lui intervenire a favore della Serbia? Poteva Sofri sostenere oggi le ragioni del Vietnam contro la guerra americana? Poteva Sofri allinearsi alle posizioni antiamericane e antisraeliane? Dunque ciò che alletta Folli & C. non è la sua genialità, magari maledetta, non condivisibile, discutibile, bensì il suo allineamento, quand’anche originale nella prospettiva analitica. Quindi, se Folli dice che la lotta armata era inaccettabile per queste e queste altre ragioni, Sofri più che fermarsi sul giudizio di merito analizza da par suo ciò che secondo lui ha condotto alla lotta armata, lasciando intendere che fu un errore. Può al limite anche giungere a dirlo esplicitamente, ma ciò che gli interessa è convincere con le sue tesi alternative.
Prosegue Folli: «Pur consapevoli che si tratta di un tema che turba (a ragione) l’opinione pubblica, crediamo sia giunto il momento di affrontare il caso attraverso lo strumento della grazia. (...). Liberare Sofri non significa dare un tardivo riconoscimento alla tesi innocentista. O incoraggiare il lassismo. O aprire ferite mai veramente chiuse.
«Oggi il punto è un altro. Si tratta di prendere atto che il detenuto di Pisa è un uomo diverso, 31 anni dopo l’omicidio Calabresi. Della sua trasformazione ha offerto e offre prove evidenti e quotidiane. Se Sofri è stato un cattivo maestro, oggi non lo è più. Lo ha capito buona parte della società italiana, nelle sue espressioni culturali e politiche. Ha ancora un senso tenerlo in carcere? A quale funzione emblematica corrisponde la sua prigionia?».
Più oltre Folli sente il bisogno di chiamare in causa un altro rottame della politica, il cui maggior titolo di merito è quello di essere stato uno degli artefici dell’equivoco sull’antagonismo ribellistico e rivoluzionario: Cohn Bendit. Questo campione del fallimento generazionale viene chiamato in causa quale autorità morale e oracolare (stessi riconoscimenti concessi a Sofri) per dare prestigio alla propria tesi, alla propria opinione. Un tempo si diceva: come dice Aristotele, come dice Nietzsche, come dice Platone, come disse Federico II e via elencando. Oggi a dare autorevolezza e prestigio sono Sofri e Cohn-Bendit. E Cohn-Bendit non delude la sua fama: se vuole dare prestigio e autorevolezza al suo incarico di presidente di turno del consiglio europeo, Berlusconi deve sottoporre al presidente della repubblica la domanda di grazia per Sofri. Riuscisse Berlusconi a risolvere anche tutti i problemi della comunità europea, in particolare quelli legati alla sudditanza americana e al deficit di prestigio, sarebbe comunque una nullità se non contribuisse alla liberazione di Sofri.
Io so per esperienza e odierna conoscenza che nelle carceri ci sono moltissime persone che, rispetto alla loro originaria condizione e convinzione, si sono evolute e trasformate senza mai rinnegarsi. E sono persone che nel carcere ci sono da tempo, ma queste persone non avranno mai né l’onore di vedersi descritte ed esaltate nella loro attuale condizione di uomini rigenerati e culturalmente progrediti né potranno mai contare sulla raccolta di firme per la concessione della grazia. Ne cito una: Mario Tuti. Da anni si occupa di teatro e musica ad alto livello, e della sua intelligenza e capacità artistica sono testimoni numerosi operatori carcerari quasi tutti con un orientamento culturale di sinistra (quindi non c’è nessuna indulgenza di tipo ideologico rispetto al passato di Tuti). Riconoscimenti alla sua opera sono venuti anche da alcuni parlamentari (sempre di sinistra), qualcuno con un passato istituzionale. Iscrittosi all’università, gli è stato impedito di dare esami. Invitato al festival teatrale di Sant’Angelo di Romagna gli è stata impedita la partecipazione a qualsiasi titolo. Costretto a una lunga permanenza nei famigerati “braccetti della morte” senza alcun contatto con il resto della popolazione carceraria e in sola compagnia di ragni e agenti di custodia alquanto “spigolosi” (tanto per usare un eufemismo), non ha potuto neppure rendere l’ultimo saluto alla madre sul letto di morte. Sono quasi trent’anni che è detenuto, e solo il mese scorso ha avuto il primo permesso per trascorrere qualche giorno fuori dal carcere. Ha le capacità culturali per scrivere pezzi per le terze pagine di qualsiasi quotidiano di rango, ed è in grado di intervenire su tutti gli snodi cruciali politici, sociali e artistici che riguardano la storia del nostro paese. L’unica firma nota che si è interessata al suo caso è stata quel cane sciolto di Massimo Fini (che non ha avuto timori ad occuparsi anche di Vallanzasca, per esempio). Ho citato l’esempio di Mario Tuti, perché il tema che voglio affrontare è quello della vera ragione per cui ci si occupa di Sofri e non di altri, del perché si vuole far sembrare unico il caso di Sofri, del perché esiste il caso Sofri e non altri.
Ginzburg è giunto al punto di scrivere che Sofri è innocente perché intelligente. Siamo alle teorie lombrosiane. Ferrara, che si allinea con Berlusconi nell’attacco alla magistratura, tira il parallelo tra i due casi di “persecuzione”. Questi sono i rappresentanti del fronte “innocentista” molto vasto. Il secondo fronte non vuole entrare nel merito della sua responsabilità, ma cerca di dirci che oggi Sofri è un grosso patrimonio che merita grazia e benevolenza a prescindere.
Perché questa congiuntura tanto vasta? E perché dovremmo prescindere?
L’idea che mi sono fatto è che Sofri oggi può vantare enormi crediti tanto verso i suoi ex compagni in carriera quanto verso la borghesia in senso lato. E a più livelli. Vediamo di esplorarne alcuni.
Uno dei temi più spesso dibattuti e rilanciati è quello della soluzione politica della stagione degli anni di piombo. Normalmente si è portati a credere che il dibattito non decolli, e quindi nessuna soluzione venga prospettata per il solo fatto che esiste una componente giustizialista, conservatrice, codina che vi si oppone in nome della dignità e della ragion di stato. Si pensi, a questo proposito, alla tetragona ottusità di Alleanza Nazionale o al radicalismo intransigente della Lega, che risponde ad un elettorato che in fatto di legalità si nutre di una concezione aspra e inflessibile. In realtà su quel dibattito pesa un grosso macigno, collocato proprio da Sofri sia con la mancata analisi retrospettiva sulle origini della lotta armata (checché ne dica Folli), sia con la scelta della strategia processuale nell’omicidio Calabresi: la tesi innocentista tout-court. Quella strategia ha dilatato e reso irreversibile il grumo di falsità e contraddizioni che sta a monte della possibile soluzione politica della lotta armata e del terrorismo.
Oggettivamente, il grande serbatoio della lotta armata in Italia è costituito da Lotta Continua. Viene negato e alcuni si dilungano in speciose sottigliezze tra ribellismo, insurrezionalismo, antagonismo violento e lotta armata-terrorismo. Ma la realtà, ben conosciuta anche da chi sta dentro le cose o da chi ha potuto osservarle veramente da molto vicino, è che Lotta Continua è stata il vero bacino collettore della lotta armata, e al centro di Lotta Continua c’era appunto Sofri. Da quel bacino collettore sono tracimate tre ondate. Una, appunto, che ha alimentato la lotta armata; l’altra che si è diretta verso il carrierismo giornalistico e politico; e la terza che ha compenetrato ambienti di militanza più omologati e istituzionali (associazionismo, cooperative, rifondazione comunista etc.) quando non anche verso il puro e semplice “privato”. L’ondata di intellettuali approdata al giornalismo, all’intellettualità omologata, al Parlamento poteva essere indotta ad affrontare alla radice la questione del fermento armato e terroristico che ha investito l’Italia e buona parte dell’Europa proprio dalla scelta di fondo operata da Sofri tra negazionismo-innocentismo e corresponsabilità-coinvolgimento. Rispetto a Lotta Continua e all’ambiente che quest’organizzazione ha generato, gente come Negri, Piperno e lo stesso Scalzone erano marginali e collaterali, ma furono massacrati massmediaticamente (al contrario di Sofri) probabilmente anche perché la loro analisi sulle cause del terrorismo e del ribellismo armato era più aderente alla realtà e le reticenze, quando c’erano, appartenevano più che altro all’ottusità ideologica che non alla volontà di compenetrazione del fenomeno. Le posizioni di Negri, Scalzone e Piperno non offrivano sponde alle verginelle dell’ondata di intellettuali approdate nei circoli della cultura omologata. L’accusa di eventuale collateralismo e di oggettivo coinvolgimento nel fermento terroristico avrebbe potuto danneggiare irrimediabilmente chi ormai si era sdoganato: quindi, dal loro punto di vista, era ed è più apprezzabile l’intransigente innocentismo e negazionismo di Sofri. E con questa posizione Sofri li salva ed apre un enorme credito che è la fonte della specifica solidarietà. Una solidarietà esclusiva e non estensibile ad altri.
Sofri avrebbe potuto costringere tutta questa gente ad una debita assunzione di responsabilità. Avrebbe potuto farlo prima del suo coinvolgimento giudiziario (ma sarebbero servite doti notevoli che hanno a che fare più con i testicoli che con la materia grigia) o in extremis a partire dal proprio coinvolgimento giudiziario. Focalizzare la questione sulle origini del comune sentire, indagare le cause della spinta ribellistica che ha poi fornito acqua al mulino della lotta armata per comprendere la complessità sociale di allora (dal movimento studentesco alle lotte operaie, alle ondate reazionarie, rivoluzionarie, controrivoluzionarie e conservatrici). L’atteggiamento di Sofri ha imbalsamato definitivamente il dibattito e impedito la soluzione politica, salvando definitivamente l’ondata dei reintegrati. Altro che aver decifrato la complessità del dramma attraversato dal nostro paese, così come sostiene Folli.
Per dare il senso della misura della frattura verticale che butta da una parte chi è stato coinvolto in fatti di sangue e chi, pur appartenendo allo stesso ceppo ideologico-culturale, ne è rimasto fuori, si pensi che una sezione di Rifondazione comunista (Reggio Emilia, mi sembra di ricordare) è stata commissariata per il solo fatto di aver ospitato ad un dibattito l’ex brigatista Prospero Gallinari. Poi leggiamo sui giornali che la quasi totalità dei rifondatori comunisti, Bertinotti in testa, firma per la grazia a Sofri sottoscrivendone implicitamente la santificazione. Già, Bertinotti e il sindacalismo. Quanto ci sarebbe da scavare e lumeggiare lì dentro… altro che alto tributo pagato dalla classe operaia alla lotta armata! La verità è che la storiografia attuale non ha nulla a che vedere con quanto realmente accaduto in quegli anni. Non sono tra quelli particolarmente interessati a sapere fino a che punto i quadri intermedi del sindacato e alcune fasce della militanza politica di partito interna e contigua al Pci fossero compromessi con la lotta armata. Di certo se è buio pesto è perché Sofri (non solo lui, ovviamente, ma lui per primo) non ha voluto accendere la luce.
Vi è un’altra questione. Sofri con il carcere è fisicamente ristretto, ma io vorrei sapere a quanti che in carcere non sono è dato di guadagnare (attraverso la sua assunzione come opinionista nei media) quanto lui e il di lui figlio. Se si eccettua la costrizione fisica, Sofri non ha alcun problema tanto nel presente quanto nel futuro, resti in carcere o ne esca. Allora mi piacerebbe conoscere il contributo di Folli & C. alla soluzione dei problemi di tutti gli altri carcerati, e se non proprio di tutti, almeno di quelli che oggi si trovano in uno stato di coscienza e percezione etica differente da quella che li caratterizzava al momento in cui commisero il reato per cui sono detenuti. Quelli che non sono intellettuali, quelli che non hanno studiato, quelli che non hanno amici potenti, quelli che languono dimenticati. Il dibattito sull’indulto, indultino e mezzo indultino o indultino evirato è stato quanto meno penoso, e i signorini grandi-firme si sono davvero poco sprecati. Ma va da sé che l’indultino o l’amnistia non risolve il problema alla radice. Ci vorrebbe una rivoluzione concettuale sul modo di intendere l’espiazione della pena. Per esempio, al di là delle chiacchiere sul recupero del soggetto, resta il fatto che la società civile intende il detenuto in espiazione di pena come un soggetto che ha recato danno alla comunità. E che quindi deve espiare. Ma l’espiazione della pena è un costo aggiuntivo che la società civile è costretta a pagare (a parte ogni altra implicazione di tipo umanitario alimentata dallo stato del sistema penitenziario e giudiziario). Perché allora non prevedere una forma di risarcimento (premiato) per il condannato? Per esempio la possibilità di un lavoro davvero socialmente utile, ricompensato con il conteggiare un giorno di detenzione come se fossero due. Abbiamo problemi di manutenzione del nostro patrimonio naturale (parchi, strade di montagna, boschi, pulizia dei fiumi etc.) e di apparato logistico per la protezione civile (incendi dei boschi, alluvioni, etc.). Molti carceri potrebbero facilmente essere trasformati in una sorta di caserma con costante manodopera disponibile per lavori che pochi o nessuno vuole fare. E al detenuto si offrirebbe la possibilità di scegliere se fornire la propria disponibilità in cambio di sconti di pena. Una commissione stabilirebbe l’idoneità all’accesso di tale condizione. Allora anche a chi non è un intellettuale coccolato si offrirebbe una possibilità di essere davvero utile tanto alla società quanto alla propria condizione. Mi rendo conto che poi esistono tante sfumature, e che il solito imbecille parlerebbe di lavoro forzato o di sfruttamento in quanto lavoro non retribuito, ma una tale persona dovrebbe provare l’alienazione della detenzione senza lavoro e con un televisore che lo bombarda 24 ore su 24 ore dei programmi che tutti conosciamo. E in ogni caso ci sono altri mille modi per modificare l’attuale assetto della punizione-detenzione. Ma il problema detenzione in questo Paese riguarda solo Sofri. La Lega ha il merito di aver scoperto il giochino. Non solo in tempi non sospetti aveva presentato un progetto di legge alternativo a quello dell’indulto, progetto che in parte aveva al centro la questione del lavoro socialmente utile come risarcimento remunerato con lo sconto pena, ma attraverso il ministro Castelli con la proposta di risolvere non tanto il problema Sofri (che è tale per i suoi creditori in carriera) quanto il problema ben più vasto della chiusura definitiva della stagione degli “anni di piombo” con una soluzione politica. Si sono messi tutti di traverso, come era prevedibile perché l’associazione di Sofri alla questione “anni di piombo” di fatto crea un legame tra l’ex capo di Lotta Continua e la stagione del terrorismo, rinviando e non chiudendo la chiarificazione con il pericolo che tutti quanti hanno avuto contiguità e responsabilità vengano in futuro chiamati in causa. È esattamente quel che non si vuole. Il livore con cui si è reagito alla mossa del ministro Castelli (che ha avuto il merito di scoprire gli altarini semplicemente accondiscendendo a una delle richieste di certa sinistra, quella appunto della soluzione politica della questione giudiziaria legata al terrorismo) è sintomatico.
Del passo falso della sinistra si è subito reso conto Ernesto Galli della Loggia, che al di là delle sue tesi resta pur sempre una delle menti più lucide che imperversano sui media. In passato aveva già preso posizione per la grazia a Sofri anche (e quindi non solo) per il fatto che la condanna era venuta 20 anni dopo i fatti. Chissà perché nessuno ricorda il caso Priebke, la cui condanna è avvenuta 50 anni dopo (e sorvoliamo sull’episodio dell’assalto al tribunale che lo aveva in pratica assolto e che quindi determinò un secondo giudizio accondiscendente per i colpevolisti).
In poche parole Galli della Loggia (“Corriere della Sera”, 21 luglio 2003) sostiene che: «(...) Tra la grazia a Sofri e l’amnistia per gli anni Settanta non c’è, né si deve abusivamente istituire, alcuna contraddizione. Tra le due misure esiste viceversa una complementarietà evidentissima non appena si entri nel merito delle cose (...) Gli anni Settanta (...) costituirono infatti l’ultima, sanguinosa pagina del radicalismo. Furono cioè l’epilogo di una lunga tradizione nostra di pensiero e di prassi, portata all’élitismo dei pochi e all’agitazione inconsulta dei più (...)». C’è molto di vero in questo ragionamento (e nel suo prosieguo) tranne un fatto: che le istanze del radicalismo (come concezione politica e di pensiero) si siano spente. Sono mutati i metodi di lotta e di affermazione, e per certi versi siamo in un’epoca di letargo (al quale fatalmente farà seguito il risveglio) ma la penisola italiana resta preda di separazioni e contrapposizioni eclatanti, che vedono il conservatorismo opposto al riformismo all’interno di un bagno di correnti fatto di sensibilità continentale e sensibilità mediterranea, di stucchevole nazionalismo reazionario e tentativi di riaffermazione identitaria etnica e di popolo, di iperstatalismo contrapposto a iperprivatizzazione, di un improbabile ritorno alle istanze dei valori cristiani di contro alle spinte per superare le secche del nichilismo alle quali lo stesso cattolicesimo ha condotto. Insomma, se Galli della Loggia pensa che il radicalismo italico abbia smesso di respirare si sbaglia di grosso, tanto più che la dose massiccia di arbitrario filoamericanismo a cui siamo stati costretti (e proprio nell’epoca in cui gli USA iniziano la loro irreversibile decadenza) riporterà in superficie tutte le contraddizioni e sfumature del ribellismo, anche se sotto nuove forme e formule.
Speriamo dunque che il ministro Castelli nella messa a punto del suo progetto di liquidazione del fardello che rappresenta la stagione terroristica non si lasci abbagliare da spiegazioni e motivazioni interessate che porterebbero a far rientrare dalla finestra quanto è stato fatto uscire dalla porta. Anche perché, a queste condizioni, rischiamo di ritrovarci tra i piedi ancora una volta nel ruolo di maestri e “spiega-tutto” quegli intellettuali creditori di Sofri che dal sessantotto imperversano in ogni dove, sopravvivendo ad ogni stagione senza mai pagare dazio. Attraverso Sofri e con Sofri li si costringa a venire allo scoperto e ad assumersi le proprie responsabilità. Le loro mani non sono sporche di sangue, ma le loro coscienze lo sono due volte: la prima perché erano dentro i fermenti di allora, la seconda perché sulla condanna dei loro compagni (rinnegati) hanno fatto carriera con la pretesa di essere i nostri maestri di rettitudine e moralità.

Maurizio Murelli