Le tragedie dell'Africa nera sono conosciute: guerre,
colpi di stato, decadenza economica, carestie, servizi
pubblici a volte quasi inesistenti...
Molti si chiedono, governi ed enti internazionali, ma
anche associazioni e privati cittadini: cosa fare per
aiutare i popoli africani?
Risposta difficile perchè i problemi sono complessi e
non esiste una risposta univoca.

L'Africa nera al limite della sopravvivenza

Il 22 ottobre 1992 si è celebrata al Palazzo dell'ONU
la Giornata per l'Africa, che ha proposto alcuni dati
che fanno riflettere: dal 1980 al 1990 il prodotto
nazionale lordo dell'Africa nera è diminuito da 225 a
190 miliardi di dollari, ma intanto gli africani sono
aumentati del 25%; la produzione di cibo nel 1990 è
stata inferiore del 15% rispetto al 1970, ma nel
frattempo la popolazione è aumentata del 50% (2,5%
l'anno): l'importazione di cibo, donato o acquistato,
è oggi la maggior preoccupazione di molti governi
africani.

I 450 milioni di persone che vivono sotto il Sahara
(sempre escluso il Sud Africa) hanno complessivamente
un reddito globale inferiore a quello della Svizzera,
che però ha 8 milioni di abitanti.

Nel 1980 l'Africa partecipava al commercio mondiale per
il 3%, ma solo per l'1,3% nel 1990; il debito estero
africano è passato dagli 8 miliardi di dollari del 1970
ai 221 nel 1990 (e ai più di 600 nel 1999).

All'inizio degli anni novanta il quotidiano francese
Le Monde scriveva: "L'Africa potrebbe scomparire negli
oceani e il mondo quasi non se ne accorgerebbe".

"Afro-pessimismo" o semplice realismo?

La tragedia dell'Africa oggi non è di essere sfruttata,
ma marginalizzata, lasciata andare alla deriva.
Dopo il crollo del comunismo, i paesi ricchi, le loro
aziende e i loro capitali si sono orientati verso
l'Europa dell'Est, l'Asia orientale (la Cina), il Medio
Oriente.
I missionari della Consolata in Tanzania mi dicevano
pochi anni fa che gli occidentali stanno abbandonando il
paese, dove tutto il possibile è acquistato con i soldi
dei paesi arabi del petrolio, che non investono in opere
produttive, ma usano l'economia come strumento per la
diffusione dell'Islam.

Nel maggio 1995, il ministro degli esteri del Burkina
Faso lamentava a Parigi che dal 1885 gli investimenti e
gli aiuti internazionali ricevuti dal suo paese sono
quasi dimezzati: "Gli sforzi che abbiamo fatto per
uscire dal sottosviluppo e inserirci nell'economia
moderna vengono mortificati e quasi ridotti a zero.
L'Europa ci ricaccia indietro all'economia del baratto".

È triste ricordare questi fatti.
Di fronte ai quali mi pare diversivo e illusorio dire:
"È colpa della Francia, è colpa dell'America, è colpa
delle multinazionali...".
Il fatto concreto di cui prendere coscienza è che
buona parte dell'Africa non è incamminata verso lo
sviluppo, anzi regredisce.
Lo dicono i dati dell'Onu e le persone che vivono sul
posto.
Se passate a distanza di 10-20 anni dallo stesso paese
(l'ho sperimentato in Tanzania, Mozambico, Zimbabwe,
Guinea Bissau, Congo, Ruanda, Burundi, Etiopia, Eritrea, Somalia, Uganda, ecc.) e chiedete se il paese va avanti
o indietro (come economia, stabilità politica, scuole,
sanità, strade, servizi pubblici, ecc.) è difficile
trovare chi affermi che progredisce!

Questi dati di fatto qualcuno li etichetta come
"afro-pessimismo"!
Se vogliamo essere davvero fratelli dei popoli africani, bisogna guardare in faccia alla realtà per non illuderci e illudere.
Altri dicono: non vendiamo più armi!
D'accordo, ma questo non risolve nulla: le armi di base
ormai le producono tutti e le vendono Cina, India,
Brasile, Pakistan, Iran, il Sud Africa di Nelson
Mandela, che rifornisce di armi tutte le fazioni africane
in lotta.

Il genocidio in Ruanda è stato compiuto con i bastoni e
il fuoco.
Altri ancora tirano fuori i discorsi sui "valori
africani": la solidarietà di villaggio, la capacità di
condividere il poco che c'è, l'intelligenza e l'umanità
degli africani...
Ma qui non si parla dei "valori", ma del come funzionano
lo stato e i servizi pubblici, se c'è pace e crescita
economica.

In una situazione di pace, gli africani hanno immense
capacità e possibilità di sviluppo: ma in paesi in guerra,
dove lo stato non esiste o non funziona, la situazione è
tragica.

L'Angola è in guerra dal 1975, anno dell'indipendenza.
"La guerra ha fatto almeno 500.000 morti, 4 milioni di
profughi, 100.000 mutilati su 12 milioni di angolani.
Grande produttore di cereali, cotone, zucchero e caffè
prima dell'indipendenza, oggi il paese non può nutrire
i suoi abitanti, un terzo dei quali dipendono totalmente
dall'aiuto internazionale. L'agricoltura e l'industria
sono paralizzate da 40 anni di guerra: 1961-1975 guerra
per l'indipendenza, 1975-2000 guerra civile..." 1.

Non è che in Africa manchino segni positivi:
l'affermarsi di sistemi democratici, la scomparsa
dell'apartheid e delle dittature socialiste (o
comuniste), la crescita della coscienza dei diritti
dell'uomo, la nascita di gruppi e associazioni, sindacati
e cooperative, stampa libera, ecc.
La tragedia è che non aumenta la produttività di cibo e
non diminuisce il pericolo di guerre e colpi di stato.

Si prenda la Costa d'Avorio, fino a qualche anno fa citata
come esemplare e in crescita.
Dopo la morte di Houphouet-Boigny, il "padre della patria"
(1993), il paese è finito in mano ai militari: gli
stranieri fuggono, le ditte e gli investimenti si dirigono
altrove, gli africani che possono se ne vanno...

Così anche in Guinea Bissau: il contrasto fra presidente
e capo delle forze armate ha portato alla guerra civile
(giugno 1998 - maggio 1999), che ha distrutto quel poco
di moderno che c'era.

Si potrebbe dire: "diamo tempo al tempo", lasciamo che
gli africani trovino da soli la loro via.
Il fatto è che fra dieci anni la popolazione africana
sarà aumentata di circa 160-180 milioni e non ci sono
segni forti di una ripresa della stabilità politica,
degli investimenti e della produttività, soprattutto
in campo agricolo.

Dobbiamo accontentarci di mandare aiuti (che non si sa
dove vanno a finire) e protestare contro la
globalizzazione, le multinazionali, l'imperialismo
americano, ecc.?
Protestiamo pure, ma poi dobbiamo assistere impotenti
alla deriva di un continente o si può fare qualcosa?

L'India esporta cibo, l'Africa ne importa

La maggioranza dei paesi africani importano dal 30 al
40% del cibo che consumano, mentre negli anni sessanta
ne esportavano.
E non si venga a dire che questo è a causa delle
monoculture da esportazione.
Ormai l'Africa esporta ben poco in campo agricolo.
La causa radicale è la politica sbagliata seguita dopo
l'indipendenza: privilegiare le città invece delle
campagne, le forze armate invece dell'educazione del
popolo.

Poco dopo l'anno dell'indipendenza africana (1960) René
Dumont, agronomo francese a servizio di vari governi
africani, profetizzava: "I governi a sud del Sahara
stanno sbagliando tutto: l'agricoltura è all'ultimo
posto nelle loro preoccupazioni, mentre dovrebbe essere
al primo. Oggi producono cibo a sufficienza e ne
esportano, ma continuando a privilegiare le città
rispetto alle campagne ben presto non potranno più
nutrire i loro popoli" 2.

Il popolo rurale africano è rimasto troppo indietro, non
ha avuto educazione né assistenza da parte dello stato.
Nell'agricoltura tradizionale africana si ignora la ruota,
la carriola, il carro agricolo, l'uso dei fertilizzanti
animali, la rotazione delle colture, la produzione di
verdure, l'allevamento di animali da cortile, la trazione
animale (le donne portano tutto sulla testa), la
possibilità di riparare una pompa per l'acqua: durante
la siccità nel Sahel, i due terzi delle pompe nei
villaggi erano ferme perchè nessuno sapeva come ripararle
o mancavano i pezzi di ricambio.

Le vacche producono 1-2 litri di latte al giorno (invece
dei 20-25 in Italia), nei terreni risicoli si raccolgono
4-5 quintali di riso all'ettaro (invece dei 70-75 di
Vercelli).

Le industrie impiantate dall'Occidente producono meno del
50% o sono ferme: a Bissau, anche prima della guerra, le
15 industrie erano assolutamente ferme, arrugginite,
saccheggiate dalla gente; la grandiosa riseria costruita
dall'Italia, capace di produrre, se ricordo bene, 1.000 o
2.000 tonn. di riso al giorno, non ha mai funzionato:
dico, mai funzionato!

L'economista tedesco Johannes Augel, che ha studiato per
alcuni anni la Guinea Bissau, scrive: "Il problema di
fondo dell'economia nazionale sta nel fatto che il paese
produce pochissimo, quasi nulla, al di fuori dell'economia
di sussistenza che permette al popolo di sopravvivere:
deve importare quasi tutto quello che consuma, anche quei
prodotti per i quali esistono in Guinea le migliori
condizioni per raggiungere l'autosufficienza, a esempio
il riso" 3.

L'India, nell'anno dell'indipendenza (1947), con circa
340 milioni di abitanti, importava 2.900.000 tonnellate
di cereali; 50 anni dopo, nel 1999, ha superato il
miliardo di abitanti, non importa più cereali ma ne
esporta in Medio Oriente, in Africa e persino in Russia.

I governanti indiani hanno promosso la democrazia,
l'educazione e l'assistenza alla gente dei campi: i
risultati sono evidenti.
La produttività agricola è aumentata in media, dal 1950
al 1990, del 3,2% l'anno, mentre la crescita demografica
non è mai stata superiore al 2,7% e oggi è dell'1,7%.

Altro esempio: l'urbanesimo selvaggio, che assume
proporzioni tragiche in Africa, in India quasi non esiste:
il 75% del miliardo di indiani vive nelle zone rurali (o
in cittadine sotto i 30.000 abitanti), perchè il governo
ha portato ovunque strade, elettricità, scuole, assistenza
sanitaria, mercati, credito agevolato per i contadini,
democrazia, giustizia.

Al contrario, gli africani abitano per il 60% nelle città
e, con le immense risorse naturali di cui godono, importano cibo e muoiono di fame (l'India è estesa 430.509 kmq. meno
di Sudan ed Etiopia assieme che hanno solo 80 milioni di
abitanti!).

E non si venga a dire che tutto questo è colpa delle
multinazionali e dell'imperialismo americano!

Nel 1965 India e Pakistan soffrivano ancora di gravi
carestie.
Dopo la "rivoluzione verde", hanno incominciato a esportare
cereali.
Dal 1965 al 1970 la produzione pakistana di grano è
aumentata da 4,6 a 8 milioni di tonnellate, quella indiana
da 12,3 a 20 milioni 4.
È possibile in Africa simile rivoluzione agricola?
No, poiché mancano tutte le condizioni per l'educazione
del popolo all'agricoltura moderna: pace, servizi civili
funzionanti nelle campagne, stabilità politica,
investimenti nell'educazione, ecc.
Fin che non si creeranno queste condizioni nelle campagne
africane, la fame e il debito estero non potranno che
aumentare e non per colpa dell'imperialismo e della
globalizzazione!

Una tutela internazionale per l'Africa?

Come aiutare i fratelli africani?
Negli anni novanta è venuta alla ribalta una soluzione
proposta da autorevoli commentatori: una "tutela
internazionale" per quei paesi in preda alla guerra,
che non riescono ad assicurare ai loro popoli stabilità, educazione del popolo, funzionamento dello stato e dei
servizi civili.

Dal 1960 al 1998 ci sono stati in Africa 72 guerre (20
delle quali ancor attive) e 112 colpi di stato.

L'intervento umanitario si è già realizzato con i caschi
blu dell'Onu, o con altre forze internazionali, in
Somalia, Sierra Leone, Liberia, Congo, Guinea Bissau,
Mozambico, nel conflitto fra Etiopia ed Eritrea...

La proposta vuole assicurare stabilità e giustizia, per
permettere ai popoli interessati di vivere una vita
normale.
Quando i militari di varie nazioni, sotto l'egida
dell'ONU (operazione Restore Hope, restaurare la
speranza), sono stati un anno e mezzo in Somalia
(dicembre 1992 - aprile 1994), hanno portato la pace
e avviato le scuole, i commerci, la coltivazione dei
campi, addirittura il campionato nazionale di calcio!

Sono stato due volte in Somalia, nel 1978 e 1994
(quest'ultima volta con i militari italiani): le
distruzioni della guerra civile erano spaventose
(peggio di tutto è il saccheggio!), ma in un anno
di pace il paese si stava riprendendo, i somali
all'estero stavano ritornando.
Se l'intervento straniero fosse durato dieci,
vent'anni, ci sarebbe stata qualche possibilità di
ridare al popolo un paese vivibile.
Invece, appena partite le forze dell'Onu, la guerra
è ricominciata e oggi non esiste più uno stato somalo.

In tali situazioni, i discorsi sui valori africani e
sul diritto all'indipendenza (che nessuno nega) non
hanno senso.
Non si può permettere che le guerre e il caos distruggano
i popoli e l'immagine dell'Africa: bisogna adottare
soluzioni concrete!

La proposta della 'tutela internazionale' è però
difficilmente realizzabile: quali sono quei paesi ricchi
che si impegnerebbero ad assicurare la pace per dieci,
vent'anni, con proprie forze armate e personale civile
che aiuti i locali a organizzare e mantenere i servizi
pubblici e lo stato funzionante?

Il disastro dell'ideologia "tutto e subito", che negli
anni sessanta ha preteso l'indipendenza immediata dei
popoli africani in grandissima parte ancora analfabeti,
oggi viene al pettine della storia.

Due le colpe dell'Europa nei confronti dell'Africa: un
colonialismo di rapina, poco preoccupato di educare i
popoli africani e tirarli fuori dalla preistoria (è
anche vero che la colonizzazione ha introdotto l'Africa
nel mondo moderno, portando scuola, strade, sanità, il
concetto di diritti dell'uomo e della donna, ecc.); e
poi la concessione dell'indipendenza immediata quando
quei popoli non erano preparati a governarsi.

Il Congo Belga è diventato indipendente nel 1960 con soli
14 laureati, in un territorio esteso sette volte l'Italia
e con 15 milioni di abitanti!

L'Africa rappresenta oggi la massima sfida per l'Europa:
non possiamo procedere nella ricerca dell'Europa unita,
con a fianco un continente senza pace e tormentato da
fame e dittature, verso il quale abbiamo gravissime
responsabilità storiche e attuali.

Anche l'Africa ha bisogno di Gesù Cristo

C'è ancora un discorso da fare, che spesso viene ignorato
o sottinteso dalla stessa stampa e animazione missionaria.
Diceva Madre Teresa, "la prima povertà dei popoli è di
non conoscere Cristo": perchè, quando noi cristiani
parliamo di quel che si può fare per aiutare i fratelli
africani, Gesù Cristo e la missione della Chiesa a volte
non sono nemmeno nominati?

Lo sviluppo dell'uomo viene da Dio

Prendiamo la campagna Chiama l'Africa lanciata negli ultimi
anni da istituti e riviste missionarie, centri missionari
diocesani, organismi di volontariato cattolico, ecc.
Ottima idea rilanciare il tema Africa e aiuti all'Africa.
Ma l'impostazione è parziale, crea confusione nell'opinione
pubblica 5.

Ho raccolto opuscoli e articoli, testi di conferenze e temi
di convegni della campagna sull'Africa: si parla solo e
sempre di problemi economici, rapporti commerciali, prezzi
delle materie prime, debito estero, multinazionali, vendita
di armi all'Africa.

La missione della Chiesa è del tutto ignorata.
Anche l'Africa ha bisogno di Cristo! I 7.000 missionari e
missionarie italiani in Africa si limitano a scavare pozzi
e curare i lebbrosi?
No, annunziano con la parola e la testimonianza di vita che
la salvezza viene da Cristo, il Messia atteso anche dagli
africani.
A forza di tacere quello in cui crediamo, presentiamo la
missione come una specie di Croce Rossa di pronto intervento
dove ci sono piaghe da sanare, profughi da assistere,
affamati da nutrire.

Giovanni Paolo II scrive nella Redemptoris Missio (n. 11):
"La tentazione oggi è di ridurre il cristianesimo a una
sapienza meramente umana, quasi scienza del buon vivere.
In un mondo fortemente secolarizzato è avvenuta una
graduale secolarizzazione della salvezza, per cui ci si
batte sí per l'uomo, ma per un uomo dimezzato, ridotto
alla sola dimensione orizzontale. Noi invece sappiamo che
Gesù è venuto a portare la salvezza integrale, che
investe tutto l'uomo e tutti gli uomini...".

L'Africa ha bisogno di una 'rivoluzione culturale'.
Le culture africane, pur apprezzabili per i loro valori,
non portano in sé i germi dello sviluppo, hanno troppi
elementi incompatibili con i diritti dell'uomo e della
donna.
Enrico Bartolucci, per lunghi anni direttore di Nigrizia
(poi vescovo in Ecuador), scriveva: "Gli africani, prima
che venissero tratti fuori dal loro isolamento, non
cercavano il progresso, ma l'equilibrio, il mantenimento
dello status quo. Non si preoccupavano di progredire, ma
di non cambiare. Non si trattava di dominare la natura,
ma di adattarvisi. Voler trasformare la natura
all'africano sembra un atto di arroganza contro le forze
misteriose che dominano la natura stessa" 6.

Si legga l'ultima biografia del beato Daniele Comboni e
le relazioni sull'Africa dei suoi tempi 7, per capire
l'estremo degrado umano del continente prima
dell'incontro-scontro con la colonizzazione europea: il
mito "terzomondista" di un'Africa felice prima del
colonialismo è radicalmente contro la realtà dei fatti.

Alioune Diop, direttore di Présence africaine, scriveva
nel 1951: "Le nozioni di progresso, di rivoluzione, di
cambiamento sono specifiche del genio europeo. Né la Cina
né il mondo nero riescono a giustificare razionalmente i
cambiamenti" 8.

Axelle Kabou, camerunese, ha scritto: "Noi africani diamo
la colpa ai bianchi perché non vogliamo guardare e
correggere le nostre colpe; non ci sviluppiamo non per
colpa dei bianchi, ma perché nella nostra cultura non
accettiamo il principio dello sviluppo, del cambiamento" 9.

Il contributo più importante che la Chiesa offre ai popoli africani è l'annunzio del Vangelo.
Giovanni Paolo II scrive nella Redemptoris Missio (n.
58-59): "La Chiesa non ha soluzioni tecniche da offrire al
sottosviluppo in quanto tale, ma dà il suo primo contributo
alla soluzione dell'urgente problema dello sviluppo, quando proclama la verità su Cristo, su se stessa, sull'uomo,
applicandola a una situazione concreta... Lo sviluppo di
un popolo non deriva primariamente né dal denaro, né dagli
aiuti materiali, né dalle strutture tecniche, bensì dalla
formazione delle coscienze, dalla maturazione delle
mentalità e dei costumi. È l'uomo il protagonista dello
sviluppo, non il denaro o la tecnica".

Bellissimo!
Non si può impostare tutto il discorso sullo sviluppo in
Africa centrandolo solo sui temi economico-tecnici!

Continua la Redemptoris Missio (n. 58): "La Chiesa educa
le coscienze, rivelando ai popoli quel Dio che cercano ma
non conoscono, la grandezza dell¿uomo creato a immagine
di Dio e da lui amato, l'eguaglianza di tutti gli uomini
come figli di Dio, il dominio sulla natura creata e posta
al servizio dell'uomo..." 10.

I missionari applauditi ma non imitati

L'unica via per lo sviluppo dell'Africa è l'educazione:
una via lunga, ma non ci sono scorciatoie, non si passa
dalla preistoria al mondo moderno in pochi decenni!
Ad un dibattito svoltosi a Roma nel gennaio 2000, per la
presentazione del fascicolo della rivista Limes dedicato
a L'Impero del Papa, il ministro Giuliano Amato ha detto: "L'Africa è stata abbandonata da tutti, da Usa e da Urss.
Fra le leve utili per sovvertire la deriva del continente
africano c'è quella di entrare a far parte dell'impero
del Papa, che può fornire uno dei pochi tessuti su cui
ricostruire pace e speranza, ma anche i rapporti col
mondo" 11.

Naturalmente la Chiesa non ha alcuna intenzione di
assumersi le responsabilità che spettano agli stati.
Ma questo dimostra quanto "oggi i missionari sono
riconosciuti anche come promotori di sviluppo da governi
ed esperti internazionali, i quali restano ammirati del
fatto che si ottengano notevoli risultati con scarsi mezzi"
(RM n. 58).

Il Vangelo è una critica radicale all'antropologia africana:
i risultati che si ottengono nello sviluppo di un popolo
sono dovuti proprio alla purificazione evangelica delle
culture tradizionali.

Il dramma è che i missionari sono applauditi, ma poco aiutati
e soprattutto non imitati nel loro approccio fraterno e
disinteressato agli africani.

Se, accanto ai missionari per vocazione, ci fossero non 300
volontari laici come oggi, ma 50.000 giovani di grandi ideali
e disposti a sacrificarsi per qualche anno, naturalmente
sostenuti dal proprio paese, forse l'Africa non sarebbe
così lontana da noi.

"L'attenzione alla persona è alla base di ogni progresso"

Perché la Chiesa è fattore di sviluppo in Africa, soprattutto col messaggio del Vangelo?
Un esempio concreto: in Guinea-Bissau, nel 1952 i missionari
del Pime (Pontificio Istituto Missioni Estere) sono stati i
primi a vivere e lavorare tra i Felupe, non toccati dalla
colonizzazione e ancora viventi secondo le loro tradizioni
e sotto i capi locali.

Padre Giuseppe Fumagalli, sul posto dal 1968, afferma 12 che
in passato fra i villaggi c'era un perenne stato di inimicizia e di guerra.
Si combattevano con frecce, coltellacci e bastoni, imboscate
nelle campagne, incendio di raccolti. Si viveva nel terrore
di assalti notturni.
In un'inchiesta fatta nel 1996, è risultato che il
cristianesimo ha fatto superare le antiche inimicizie tra
i villaggi e le famiglie.
Una donna anziana dice che quando lei era bambina, i suoi
genitori non la portavano mai nel villaggio vicino, perchè
era considerato nemico.
"Oggi - dice - i bambini giocano assieme e questo è grazie
a Gesù".

Tra i Felupe i missionari sperimentano che i cristiani, a
parità di condizioni, si sviluppano più rapidamente degli
altri.
La spiegazione la fornisce ancora padre Fumagalli: "Le
condizioni di vita dei Felupe sono sempre state di pura
sopravvivenza. Coltivano quasi solo riso e manioca;
producono anche un po' di fagioli, ma solo per alcuni
riti. Noi insistiamo perché facciano degli orti e altre
colture, ma è difficile convincerli, perché non si va
facilmente contro la tradizione, che non aiuta lo
sviluppo".

"Per ogni momento della vita dei campi c'è una serie di
riti, che a volte frenano il progresso agricolo. Noi
abbiamo alcune macchine agricole che usiamo solo per i
campi della missione, perché anche per i cristiani è
difficile andare contro le usanze, per paura di vendette
e ritorsioni. Se si fa qualcosa cosa contro la tradizione,
c'è sempre la paura di offendere gli spiriti. Certe
colture nuove sono rifiutate per questo motivo. È
l'elemento culturale che blocca o favorisce lo sviluppo.
Nel mondo pagano c'è paura di qualsiasi novità".

"Leggendo la Sollicitudo rei socialis (1987) - continua
padre Fumagalli - mi ha colpito una frase di cui sperimento
la verità: "Quando la Chiesa adempie la sua missione di
evangelizzare, essa dà il suo primo contributo alla
soluzione dell'urgente problema dello sviluppo" (n. 41).
Ogni giorno tocco con mano che quando i Felupe diventano
cristiani migliorano la loro vita, sia personale che
familiare e di villaggio... (perché) progrediscono
anzitutto nell'attenzione alla persona: questo è alla
base di ogni progresso".

"Vivendo in Europa, in ambiente di cultura cristiana
(anche se siamo tutt'altro che buoni cristiani!), è
difficile rendersi conto di cosa vuol dire una mentalità
e una cultura pagana. Il cristianesimo dà sicurezza,
serenità di spirito, perché il cristiano sa che Dio è
Padre e ci vuol bene. Per svilupparsi, l'uomo ha bisogno
di sentirsi amato, protetto, perdonato da Dio: il Felupe
non conosce Dio, vive nel terrore delle forze misteriose
che ci circondano, di cui ignora la natura e le
intenzioni" 13.

Piero Gheddo
[Da "La Rivista del Clero Italiano", febbraio 2001, per gentile
concessione dell'editrice Vita e Pensiero e dell'Università Cattolica]

__________


1 "Jeune Afrique", 5-11 dicembre 2000, p. 54.

2 R. Dumont, L'Afrique noire est mal partie, Seuil, Parigi
1964.

3 J. Augel, Transiçao democrática na Guiné Bissau, Bissau
1996, pp. 43-44.

4 N. Borlaugh (Premio Nobel per la Pace 1970), We need
Biotech to Feed the World, in "The Wall Street Journal
Europe", 7 dicembre 2000, p. 8.

5 Nella campagna ecclesiale per il "debito estero", la
Commissione della Cei ha trattato gli aspetti finanziari
del debito: non ha spiegato che, anche perdonato tutto il
debito, se non cambia nulla nei paesi interessati, fra
cinque anni saranno indebitati più di oggi; non ha
detto che il contributo maggiore della Chiesa italiana
allo sviluppo dell'Africa sono i 7.000 missionari,
missionarie e volontari cattolici che donano la vita per
portare agli africani il messaggio di Gesù. Questa verità
si dà per sottintesa, ma a forza di non ricordarla mai,
finisce che nemmeno più ce ne ricordiamo. La Campagna
chiedeva soldi, ma perché non si chiedono giovani e
ragazze cattolici che diano la vita come missionari di
Cristo per gli africani?

6 "Nigrizia", ottobre 1969, p. 12.

7 G. Romanato, Daniele Comboni, Rusconi, Milano 1998, p.
367.

8 Studiosi giapponesi e indiani incominciano ad
interrogarsi: perché tutto quello che è moderno (valore
della persona umana, uguaglianza di tutti gli uomini,
diritti dell'uomo e della donna, democrazia, giustizia
sociale, scoperte scientifiche, progresso economico, ecc.)
ci è venuto dall'Occidente cristiano?
Perché prima dell'incontro con gli occidentali i nostri
paesi di antica civiltà erano statici, volti al passato e
non al futuro?

9 A. Kabou, Et si l'Afrique réfusait le développement?,
L'Harmattan, Paris 1991.

10 Paolo VI sviluppa questo pensiero nella Populorum
Progressio, dove parla della "visione cristiana dello
sviluppo" (nn. 12-21, 39-42, 74-75, 81-82). Stranamente,
della PP si citano i testi sui temi economici e politici,
quasi mai quelli che parlano dello "sviluppo integrale"
e spiegano l'influsso positivo del Vangelo nel cammino
dei popoli.

11 SIR (agenzia della CEI), 2 febbraio 2000.

12 Nel volume di P. Gheddo, Missione Bissau, I 50 anni del
PIME in Guinea-Bissau (1947-1997), EMI, Bologna 1997, p.
460.

13 La testimonianza di padre Fumagalli è alle pp. 300-304
del volume citato.