Le due civiltà: nord e sud in Italia,
uno studio di Claudia Petraccone
I padri del Risorgimento così antimeridionali
di Roberto Schena

Come mai l’Italia non ha ancora fatto la fine della Iugoslavia? Come mai non si è disintegrata in tanti pezzi quanti sono i suoi popoli, dopo un’unificazione forzata e congiunture disastrose, dalla Grande guerra al fascismo? Quale miracolo può essersi ripetuto ogni giorno nel tenere unito uno Stato così profondamente composito e svogliato? Niccolò Machiavelli, cinque secoli orsono, nel Principe, aveva individuato nella Chiesa il principale ostacolo all’unificazione dell’Italia, mentre contemporaneamente Francia e Spagna realizzavano i loro progetti. La Penisola, perduta la diligenza della storia, ha creduto quindi di recuperare il tempo smarrito assaltando il treno a vapore. Ma davvero la Chiesa era l’unico ostacolo?
Nonostante l’attuale sofisticatissima civiltà dei media, poco conosciute restano le profonde obiezioni su modi e metodi con cui si stava realizzando e continua a essere tenuta in piedi, l’unità politica del Belpaese. La visione critica dei fatti e dei protagonisti, che pure oggi qua e là emerge, continua a essere tenuta in sordina; in sua sostituzione c’è il niente, l’annichilimento delle culture reali, il vuoto espressivo su cui aleggia la lingua nazionale, lo spreco di retorica patriottica. E poi si dice che gli italiani leggono poco, o che non vanno al cinema (a vedere film di Cinecittà). Misteri Politici Resta da chiedersi come mai ciò non abbia prodotto il sottosviluppo e vi siano stati, anzi, enormi progressi, identificabili però non in tutte, ma solo nelle aree geografiche del Nord, che hanno trovato nuovi motivi di solidarietà, di fatto basati su una cultura antistatale. Senza l’Italia, dunque, non ci sarebbe una Padania. Già durante il Risorgimento, ogni personalità della cultura, della politica, dell’industria, anzi, ogni singolo “italiano”, da Nord a Sud, se non manifestò apertamente la propria contrarietà al processo “ineluttabile”, ebbe comunque modo di esprimere dubbi, perplessità, scetticismo; perfino molti fra i più accaniti sostenitori di Roma capitale, presenti in tutti gli schieramenti politici, sinistra, destra, monarchici, repubblicani, socialisti e liberali, non poterono fare a meno di chiedersi se non avessero sbagliato nel dare forma a un tale ibrido geopolitico. Giuseppe Garibaldi compreso, che si era ritirato sdegnato a Caprera. E cosa dire di Vittorio Emanuele II, il quale si rifiutò di andare ad abitare a Roma?
Massoneria in Crisi
La massoneria del Nord, che pure aveva entusiasticamente aderito al Risorgimento, dopo i fatti non fece che lacerarsi, dando origine a più “orienti”, il maggiore del quale ebbe sede a Milano e dette forte sostegno alle clamorose proteste culminate nel 1898, terminate con le cannonate di Bava Beccaris. Alle ondate di critica pose fine l’autoritarismo fascista, mentre la Guerra fredda impose la priorità di altre esigenze. E, difatti, riemersero con l’avvicinarsi della crisi comunista, per riesplodere con la Lega negli anni ’90. Un recente libro-documento sul drammatico passaggio di una nazione costruita non sulla volontà dei popoli, ma sull’imposizione e sull’artificiosità degli eventi diplomatici, è Le due civiltà - Settentrionali e meridionali nella Storia d’Italia, di Claudia Petraccone, curato da Laterza, editore non certo sospetto di secessionismo: la verità emerge ormai anche grazie a studi trasversali ben poco ortodossi. Ed eccola la verità: “Negli anni che precedettero l’unificazione, i rapporti tra l’Alta Italia e il resto della penisola furono molto scarsi”. Così inizia lo studio della Petraccone. Gli italiani del nord conoscevano il sud solo tramite i resoconti di viaggi il più delle volte redatti da scrittori stranieri. La Penisola era nota in tutta Europa per le sue forti differenze naturali, che ingeneravano grandi diversità culturali ed etniche. Quando nel 1833 Giacomo Leopardi si trasferì a Napoli, dopo una prima impressione favorevole per la bellezza della città e l’indole degli abitanti, dovette ricredersi e definire la sua permanenza “odiosa”; lamentò di essere capitato in un paese “pieno di difficoltà, veramente barbaro, assai più di quanto possa credere chi non vi sia mai stato”. Un giudizio forse troppo pesante, ma certo significativo della diversa mentalità. Altri viaggiatori italiani, come nel 1848 il fiorentino Gino Capponi, che scriveva in francese, si fermavano al Regno delle Sicilie, perché quest’ultimo doveva ancora passare un periodo di fermentation prima di mettersi alla pari col resto dell’Italia. Solo il nord avrebbe potuto bien s’unir, unirsi bene.

Nel Sud Solo “Plebe Vaiuolosa”
Il milanese Giovanni Visconti Venosta, autore fra l’altro di un noto resoconto delle Cinque giornate, nel riportare di un viaggio al sud nell’estate del 1853, esprime giudizi da togliere il fiato: “Era penoso vedere quella plebaglia così priva di dignità e talora d’onestà. Quello sciame di pitocchi, di oziosi, che a ogni passo si aveva tra i piedi, uno spettacolo insoffribile, tristissimo”.
Il torinese Cesare Balbo notava nel 1855 i popoli italiani essere differenti fra loro come e forse più dei vari popoli del nord e del sud Europa. E così via. Massimo D’Azeglio, primo ministro sabaudo, registra con impotente drammaticità lo sviluppo degli eventi. Egli aveva soggiornato a lungo a Napoli e nel 1860 scriveva: “In tutti i modi, la fusione con i napoletani mi fa paura, è come mettersi a letto con un vaiuoloso”. E non è che uno tanti giudizi pesantissimi espressi a proposito dei partenopei, che a differenza dei siciliani, nel panorama italiano restarono per lui sempre “un’ulcera”; l’autore di Ettore Fieramosca, tra i massimi esponenti del moderatismo liberale, che scoprì il genio di Cavour chiamandolo a far parte del suo governo negli anni del Risorgimento, fece di tutto pur di ritardare l’annessione del Regno delle due Sicilie. Quattro anni dopo, a unità fatta, D’Azeglio notava del Parlamento, con impressionante lucidità, come “abbiamo sopra” centocinquanta deputati meridionali “e tutto questo perché si è fatta l’Italia senza averla mai studiata né conosciuta”. E ancora: fermare l’Unità al nord, o a Roma, “alla meglio o alla peggio” si sarebbe potuto guidare e aiutare le classi meridionali più avanzate: “Ma ora!”. Un linguaggio sicuramente “leghista”, peraltro allora molto diffuso, all’ordine del giorno in tutti i ceti sociali del nord.
Nino Bixio ebbe modo di osservare a Bronte, il 10 agosto 1860: «La Sicilia non dà soldati, non paga imposta, e se delle domande di impieghi se ne facesse tela vi sarebbe da coprire l’intera isola». Negli stessi giorni, prendeva a cannonate i contadini illusi dall’arrivo dei garibaldini: la tragedia vera, l’unità, non poteva più essere fermata, doveva anzi essere promossa con il piombo. Un altro politico liberale piemontese, Costantino Nigra, filologo, segretario di D’Azeglio e poi di Cavour, ambasciatore in Francia per dieci anni, nel 1861 scrisse a Cavour: «Mi avete mandato tra i negri. Meglio, mille volte meglio i negli dell’America del Sud».
Fame di Impieghi
Il giorno dopo l’annessione del Regno delle Due Sicilie, ci si rende conto della realtà. Un giornale liberale, “l’Opinione”, sempre nel 1861, scrive: «La caccia agli impieghi che a Napoli si è fatta sotto la dittatura (di Garibaldi, ndr) probabilmente continuerà dopo l’inaugurazione del governo diretto da Vittorio Emanuele». E la Gazzetta del popolo: «a Napoli tutti domandano uffici pubblici, tutti vogliono vivere a spese dello Stato». Un uomo di Cavour, Cassinis, nota: «Tutti domandano impieghi, pensioni, danaro ad ogni modo. In Napoli se v’ha un sentimento pubblico è quello dell’autonomia: non per sé, non come modo di ordinamento politico, ma in quanto essa può meglio giovare al grande e loro unico intento: pensioni e impieghi». Negli stessi termini si esprimevano funzionari statali, soldati e ufficiali dell’esercito piemontese di occupazione, i quali non vedevano l’ora di tornarsene a casa. La risposta del governo piemontese fu molto dura: il sud venne trattato alla stregua di una colonia “da far progredire a suon di calci e cannoni”, come disse un generale impegnato nella lotta al brigantaggio. Calci e cannoni furono gli argomenti usati lungo tutto il secolo per fermare l’antirisorgimento e terrorizzare ogni eventuale opposizione.

Parlamento Spaccato su Base Regionale
Fatalmente, subito dopo l’unità, i parlamentari si divisero su base regionale. Ancora nell’agosto del 1875 Salvatore Nicotera, deputato della Sinistra e ministro degli Interni (1891-92) annotava l’odio dei deputati lombardi (“meno tre”) verso tutti i colleghi che appartenevano all’Italia meridionale.
Contemporaneamente, è ancora l’Opinione a scrivere: “Chi entra a Montecitorio scorge due popoli, due razze tra loro ben distinte e divise: la razza nordica, a destra, la razza meridionale, a sinistra”. E non sono che pallidi esempi dei commenti allora in voga. Le accuse più frequenti riguardavano il pesante tributo di tasse che il nord era costretto a pagare, mentre dal sud, che invece era molto più esigente nel richiedere finanziamenti, ne arrivavano parecchio meno. Ben presto, i deputati del sud fecero blocco unico; il quotidiano napoletano Roma (significativo il nome della testata), ne era l’organo ideologico. Non è un caso se, tra i problemi politici anche allora più citati, vi era la difficoltà di raggiungere il pareggio di bilancio, o l’instabilità delle maggioranze e dei governi, una caratteristica tutta italiana che dura ancora oggi. Seriamente si parlava di una scarsa tenuta dell’unità nazionale. Ma al di là delle molte lettere private, di qualche attento articolo, di pur notevoli episodi di “brigantaggio” tuttavia rimasti isolati (e strumentalizzati...) la protesta contro l’unità non alzò mai la voce. Questo perché il blocco meridionale dei deputati riuscì in gran parte nell’intento di egemonizzare la “sinistra sociale” e a far leva sui deputati provenienti da altre aree del Paese, soprattutto del centro e perfino dello stesso nord, non certo sottosviluppate come il Mezzogiorno, ma non ancora capitaliste, non altrettanto evolute, per questo strettamente attaccate al movimento risorgimentale guidato dalla massoneria ufficiale, le cui logge (ma questo il libro della Petraccone non lo dice) divennero il vero laboratorio dell’unità italiana.

Perché l’Unità Ha Tenuto
Gran parte dell’Italia era analfabeta, poco informata e molto sottosviluppata: aveva quindi tutto l’interesse a rimanere attaccata al nord, le cui industrie, nonostante l’insofferenza degli abitanti per l’impatto con il Mezzogiorno, poterono crescere se non altro grazie alla politica protezionista in voga in tutti i governi europei, italiani compresi.
Si comprende come l’unità d’Italia realizzata in quelle condizioni, oggi non sarebbe possibile. Nonostante il progresso tecnologico, l’espansione delle aziende e la qualificazione della forza lavoro, il tenore di vita delle masse settentrionali rimaneva ipotecato da un pesante sistema di tassazione che impedì alla Padania di crescere alla stregua delle altre nazioni europee: meno servizi pubblici e infrastrutture, meno accumulo dei risparmi, meno benessere.
Inoltre, i meridionali che ormai controllavano - già a un decennio dall’unità - la politica nazionale, occuparono progressivamente i posti disponibili negli impieghi statali, dal vertice dello Stato all’umile carabiniere. Nell’ultima fase del turbolento XIX secolo, Milano divenne l’anticapitale per eccellenza; slogan quali “Roma ladrona” erano già stati coniati da un pezzo; e fu questo il vero movimento bloccato da Bava Beccaris. Le differenze antropologiche tra nord e sud cominciano a essere studiate da fior di scienziati del nord, soprattutto massoni dissenzienti, i quali arrivavano a conclusioni sconfortanti circa l’inferiorità congenita della razza meridionale, visibilmente incapace di aggregarsi in modo moderno attorno all’idea di Stato. Teorie fedelmente riportate dal libro della Petraccone, che oggi verrebbero bollate senza mezzi termini come razziste, quando non leghiste, ma che sono significative di un clima di esasperazione. Alla Padania, che ormai era nata come concetto, anche se non di nome, è mancato un contesto internazionale per giungere a imporre sulla Penisola uno Stato federale: appigli potevano offerti dagli imperi centrali, ma presto sarebbero crollati in tanti pezzi.



Era il 1860,ma sembra oggi!
Profetiche le parole sul pubblico impiego nel Meridione.

Ehi,ma com'è a scuola non insegnano certe affermazioni dei cosiddetti "padri della Patria" itagliona?