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Discussione: Le difficoltà....

  1. #1
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    Predefinito Le difficoltà....

    ....oggettive di Abu Mazen.

    Neppure il sanguinoso attentato suicida di Gerusalemme porterà il primo ministro palestinese Mahmoud Abbas (Abu Mazen)
    a perseguire inesorabilmente gli attivisti di Hamas e della Jihad islamica. Né lui né i suoi ministri all’interno del governo palestinese
    useranno la forza per contenere i fanatici islamici; non confischeranno neppure le loro armi. Abbas e il suo ministro agli affari della Sicurezza, Mohammed Dahlan, sono senza dubbio sotto forte pressione da parte degli americani, che si aspettano
    un’azione di questo tipo; anche il governo israeliano insiste su questo punto, ma nella presente situazione, nella West Bank e nella striscia di Gaza, semplicemente non è possibile.

    A Gaza, apparentemente, non dovrebbe essere un problema per Abbas e Dahlan mettere a tacere Hamas e Jihad con la linea dura. Là, le forze di sicurezza pagano circa cinquantamila persone. Molte di queste portano armi e, quantitativamente, sono molto più numerose di quelle che possiedono armi nelle organizzazioni islamiche. Fonti di intelligence, sia israeliane sia palestinesi, stimano che i membri dei gruppi armati di Hamas e Jihad (le brigate al Qassam e le brigate al Quds) siano diverse centinaia,
    forse migliaia. Quindi non dovrebbero esserci problemi per l’Autorità palestinese nell’affrontarli.
    Ma la questione non riguarda soltanto il numero di soldati presenti nei due schieramenti.
    L’opinione pubblica è molto importante, e a Gaza ci sono segni che indicano che il livello del sostegno pubblico alle organizzazioni
    islamiche non è inferiore a quello del supporto all’Autorità palestinese.
    Inoltre, se Abu Mazen decidesse di usare la forza contro i musulmani radicali, quasi sicuramente la percentuale di sostegno a loro favore aumenterebbe, e Abu Mazen sarebbe considerato un traditore, al servizio di Israele nel favorire una guerra civile.

    Gli attivisti di Hamas e Jihad hanno spesso provato di non dare segni di cedimento.
    Circa un anno fa, per esempio, alcuni membri di Hamas, del clan di al Aql, del campo profughi di Nuseirat, uccisero Rjah Abu Lehiyya, un ufficiale superiore delle forze di sicurezza palestinesi. Lo rapirono in una strada principale di Gaza e lo giustiziarono perché l’anno prima aveva aperto il fuoco per disperdere degli studenti sostenitori di Hamas, uccidendone tre.
    Gli agenti della sicurezza palestinese che andarono al campo profughi di Nuseirat ad arrestare gli assassini, furono attaccati da
    centinaia di abitanti del luogo e fuggirono. Per molti mesi, rappresentanti dell’Autorità palestinese negoziarono con il clan di al Aql e con Hamas per calmare le cose.
    Un altro incidente è avvenuto poche settimane fa, quando un missile è stato lanciato sull’ufficio del generale Moussa Arafat, il capo dell’intelligence militare, che si è miracolosamente salvato.
    Questi sono esempi della determinazione dei fanatici musulmani, il cui portavoce, Abed al Aziz al Rantisi, ha dichiarato con grande cinismo, dopo l’attacco terroristico a Gerusalemme, che questo episodio non dovrebbe essere visto come la fine della hudna.
    “La hudna continua, ma anche la nostra risposta ai crimini del nemico sionista continua”, ha detto Rantisi, che ha completamente
    giustificato l’attacco terroristico. (Ieri, dopo la risposta militare israeliana all’attentato di martedì, Hamas e Jihad hanno proclamato la fine della tregua, ndr).

    In contrasto con la determinazione islamica a Gaza, la fiacchezza e la titubanza delle organizzazioni di sicurezza palestinesi sono
    evidenti. Tornando indietro, quando le televisioni palestinesi filmarono gli arresti degli attivisti di Hamas a Gaza, i poliziotti
    palestinesi furono ripresi con il viso coperto. Non si trattava della polizia segreta, ma di agenti regolari. Forse nascosero le loro
    facce per l’imbarazzo di quello che stavano facendo e forse perché avevano paura che gli arresti venissero poi vendicati.
    Questa è la situazione a Gaza, dove le organizzazioni di sicurezza sono state duramente danneggiate. Nella West Bank, tuttavia, il sistema di sicurezza palestinese è stato quasi completamente spazzato via nell’operazione Muro di difesa della primavera del 2002. L’eliminazione del sistema di sicurezza
    palestinese nella West Bank ha nei fatti trasferito la responsabilità della sicurezza nelle città della regione dalle mani dell’Autorità palestinese a quelle delle forze di difesa israeliane.
    Di conseguenza, è persino difficile criticare Abu Mazen e Dahlan perché non stanno sopprimendo con forza le organizzazioni
    islamiche a Nablus, Jenin, Hebron.
    Abu Mazen può, quindi, mettere in guardia Hamas, essere in collera con gli attivisti e interrompere i contatti con loro. Ma se proverà ad affrontarli sarà, per quanto lo riguarda, un atto di suicidio politico, e forse non soltanto politico.

    Danny Rubinstein
    Copyright Haaretz - Il Foglio quotidiano
    Traduzione di Rolla Scolari

    saluti

  2. #2
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    Predefinito Obbierttivo....

    ........Arafat

    Gerusalemme. Le cose sono andate così. L’inviato americano, John Wolf, è a colloquio, un concitato colloquio, con Mohammed
    Dahlan, ministro della Sicurezza interna del governo di Abu Mazen; gli spiega che questa è l’ultima occasione, che deve
    ordinare un’azione contro i terroristi che hanno ordinato la strage sull’autobus. Dahlan inveisce contro l’inviato di Bush, a un certo punto lo ricopre di insulti, la solita accusa di stare dalla parte di Israele, gli insulti vengono ricambiati, l’americano minaccia
    Dahlan, sta perdendo gli unici amici del popolo palestinese, lui per primo non gli crede più.
    Niente da fare, alla fine il palestinese conclude che non ha i veicoli per un’operazione di polizia.
    Chiede tempo, la frase preferita sua e del suo premier, più
    di due mesi.
    Wolf rinuncia, torna esasperato a Gerusalemme, fa sapere ad
    Ariel Sharon che è libero di agire, comunica la stessa cosa alla Casa Bianca.
    Nei colloqui subito dopo la strage, il presidente americano non aveva chiesto al primo ministro israeliano di rinunciare alla risposta, gli aveva chiesto di aspettare qualche ora, il tempo di una verifica estrema con Abu Mazen.
    All’alba di giovedì 21 agosto, Shaul Mofaz, ministro della Difesa
    israeliano, dà l’ordine di colpire un dirigente di Hamas. L’obiettivo è l’ideologo del terrorismo, già una volta mancato, Aziz Rantisi, ma questi sta nascosto come un topo nelle fogne, niente telefoni cellulari né contatto alcuno già da mercoledì. Così tocca a Ismail Abu Shanab, trovato a Gaza, e l’ordine è di andare avanti, fino a spaventare Hamas e gli altri abbastanza perché di nuovo siano pronti a cedere, come hanno fatto nel giugno scorso, a inventarsi un’altra tregua. E’ pure già arrivato un inviato egiziano, uomo di Omar Suleiman, non ancora Suleiman in persona, sarebbe inutile. Con tutti i rischi che la scelta comporta. Le carte di Hezbollah rese note a Washington sono chiare sui propositi prossimi venturi dei
    terroristi, gli esperti di intelligence israeliani hanno facile previsione nell’immaginare le prossime due settimane piene di attacchi a militari e civili.
    Shabat a caccia di capi di Hamas, fabbriche di esplosivi a Gaza e in West Bank, basi di missili. I vari gruppi si starebbero già riunendo, Hamas e Jihad con quelli più direttamente riconducibili
    al controllo di Yasser Arafat, Fatah e le brigate di al Aqsa.
    Per l’esercito israeliano il segnale è stato il missile Qassam lanciato ieri mattina dalla zona Sud di Gaza, dove comanda un signore della guerra, Abu Sema Dana, fedele al vecchio rais, il quale ha così sospeso il cessate il fuoco.
    Già, ancora e sempre Arafat, al quale il segretario di Stato americano, Colin Powell, la cui diplomazia a tutto campo prende in questi giorni botte da orbi, ha rivolto uno stravagante messaggio, faccia qualcosa, dimostri che non ostacola la lotta contro il terrorismo, base del processo di pace.

    Il premier palestinese non vuole rischiare
    Nonostante le affermazioni contrarie di Mohamed Dahlan, il no all’arresto degli organizzatori della strage del bus è venuto il
    20 agosto proprio da Arafat. Da lui sono andati il premier e il suo fido ministro, chiedendogli l’autorizzazione e l’autorità necessarie.
    Questa è la situazione da sei mesi, mai i nuovi dirigenti moderati hanno avuto il coraggio di cominciarla proprio dal presidente complottista la ripulitura promessa.
    Perché Abu Mazen ha accettato l’incarico se non intendeva rischiare?
    Ancora e sempre Arafat. La frase di Powell ha irritato non poco il governo israeliano, non è l’intera road map fondata sull’esclusione
    dalle decisioni di un leader al quale occasioni ne sono state date tante, fin troppe, che ha dimostrato di non volere la pace, di
    giocare sempre su due tavoli, di non voler accettare neanche un accordo vantaggioso e irripetibile, come quello di Camp David,
    tre anni fa? Non ha in un discorso ufficiale il presidente Bush sancito l’esclusione del rais dalla scena diplomatica e politica, almeno per quanto riguarda gli Stati Uniti?
    Poi il Consiglio dei ministri si riunisce a Gerusalemme e decide che si avvicina il tempo di agire direttamente contro Arafat, perché rappresenta l’ostacolo principale a una guerra dei palestinesi di buona volontà contro i palestinesi terroristi.
    Tutti d’accordo, anche il più liberal, Avraham Poraz, responsabile degli Interni. Di più, il Consiglio si dichiara incoraggiato dall’appello
    del segretario Powell, perché è evidente che si è trattato di pubblico avviso, ultimo avviso, l’immunità diplomatica del rais è finita. Un segnale subito, o sarà lasciato alla decisione di Israele.

    da il Foglio

    saluti

  3. #3
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    Predefinito La prova di....

    ....forza


    Il governo israeliano interpreta l’appello del segretario di Stato americano Colin Powell rivolto anche a Yasser Arafat perché aiuti il premier palestinese Abu Mazen a fermare i gruppi terroristi come l’ultimo, estremo tentativo di salvare la road map.
    Ma come ha detto in un’intervista alla Repubblica Dennis Ross, mediatore (Bill Clinton presidente) in Medio Oriente, è sempre più evidente che Arafat ostacola il suo premier e il dialogo con Israele. Di qui, l’ultimo avviso. Ariel Sharon lo dice da anni, la Casa
    Bianca ne è convinta, giornali di ogni ispirazione lo scrivono, l’idea si sta diffondendo perfino nell’Europa refrattaria alle novità:
    Arafat è un problema, Abu Mazen la flebile speranza.
    Ma come ha scritto, nel suo editoriale principe, il New York Times: i leader palestinesi hanno promosso l’illusione che i gruppi radicali potessero trasformarsi in pacifici partiti politici. Un’illusione, appunto. “Questa fantasia è andata in pezzi con le 20 innocenti vittime” dell’attentato a Gerusalemme.

    Adesso il premier non ha scelta: la linea dura contro Hamas e Jihad è l’unica opzione, per “mostrare che egli è volenteroso
    non solo di denunciare i terroristi, ma anche di controllarli”.
    Shlomo Avineri, professore di Scienze politiche alla Hebrew University of Jerusalem, sul Financial Times del 21 agosto, ha
    descritto l’altro scenario negativo che si profila all’ombra degli scontri, reali o presunti, nella leadership palestinese:
    “I palestinesi sono capaci di mettere in piedi un sistema di governo che non si riveli un altro Stato fallito?”. Avineri spiega che “la sovranità è il monopolio di Stato sul legittimo uso della forza. Ogni volta che questo monopolio viene con successo messo in dubbio o non esercitato, lo Stato scompare”.
    E’ quello che è successo all’Unione sovietica, in Jugoslavia, in Libano negli anni 80 e in Liberia.
    Nell’accettare la road map, “il primo ministro palestinese, si è impegnato a far valere la propria autorità contro le diverse
    milizie… Questo non è accaduto”.
    Ed è comprensibile la riluttanza di Abbas al confronto con i diversi gruppi armati, alcuni dei quali, come le brigate al Aqsa, rami della
    sua organizzazione, al Fatah: “Un tale confronto può facilmente portare a un conflitto intestino, forse anche a una guerra civile,
    e i palestinesi si ricordano – benché siano restii ad ammetterlo – che nella loro rivolta contro gli inglesi, nel 1936-39, furono più i palestinesi uccisi dai loro fratelli che quelli caduti nella battaglia contro i dominatori stranieri o la comunità ebraica”.

    L’esempio di Ben Gurion
    I palestinesi, però, dicono che le azioni israeliane hanno ostacolato la loro capacità di contrastare i gruppi armati. “E’ vero solo in parte – scrive Avineri – le organizzazioni paramilitari sono state tollerate dall’Autorità palestinese sin dalla sua costituzione, e le loro violente manifestazioni anti israeliane… sono state fatte passare di continuo alla televisione palestinese. Agli attentatori
    suicidi sono stati accordati, con il passare degli anni, funerali ufficiali e alle loro famiglie sono state passate dall’Autorità palestinese pensioni speciali; il messaggio alla popolazione è stato chiaro. Persino ora, gli apparati di sicurezza palestinesi hanno a loro disposizione 10 mila uomini armati, che potrebbero essere utilizzati per controllare parte dei focolai di militanza. Quello che manca è la volontà politica”. E se altri palestinesi
    “dicono che le milizie armate verranno affrontate una volta raggiunta l’indipendenza. Si sbagliano.
    Non costruiranno mai uno Stato coerente se non monopolizzano
    l’uso della forza adesso. Questo è il vero test della costruzione di una nazione e della leadership. David Ben Gurion – conclude
    Avineri – primo premier di Israele, dovette affrontare questa sfida nel giugno 1948, appena qualche mese dopo la fondazione di
    Israele e nel mezzo di una guerra, nella quale Israele si trovò attaccata dai suoi vicini arabi. La sfida venne dall’organizzazione
    sotterranea di Menachem Begin, l’Irgun, che… portò una massiccia partita di armi
    nel paese per i propri membri… con la fermezza che lo contraddistingueva, Ben Gurion usò la forza per ostacolare il movimento Irgun e mise immediatamente fuori legge le sue formazioni semi indipendenti. L’esercito usò la linea dura, delle persone furono uccise a Tel Aviv, malgrado tutto prevalse
    l’autorità dello Stato e Israele sorse con un esercito, non due o tre.
    Questo garantì anche che Begin diventasse un leader di un partito
    parlamentare e che alla fine fosse eletto primo ministro, piuttosto che comandante di una milizia semi legale. Qualcuno consigliò
    a Ben Gurion di rimandare il confronto al termine della guerra… Se avesse ascoltato quel consiglio, probabilmente Israele non sarebbe riemersa dal conflitto del 1948 come una coerente democrazia…
    Di certo uno dei problemi è che Abbas non è Ben Gurion: come vice di Yasser Arafat è stato per anni una grigia figura della burocrazia, non un leader pubblico. La tragedia palestinese
    è aggravata dal fatto che per decenni Arafat non ha tollerato alcun leader alternativo o un successore…
    La maggior parte degli israeliani è oggi d’accordo che uno
    Stato palestinese, esistente a fianco a Israele… ma nessun paese potrebbe accettare che uno Stato fallito – un secondo Libano – nascesse ai suoi confini”.

    da il Foglio

    saluti

 

 

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