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    Predefinito Kamikaze, i guerrieri senza ritorno

    I loro aerei venivano caricati con 250 chilogrammi di esplosivo. Per questo la tecnica di decollo era curata con particolare attenzione nei corsi di addestramento, tenuti all'inizio nelle Filippine, poi a Taiwan. Per l'atterraggio, invece, non c'era nessuna lezione: per chi si alzava in volo con quegli aerei non era previsto ritorno.

    Erano i kamikaze giapponesi, destinati all'ultima disperata difesa contro l'avanzata americana. Il loro esordio avvenne il 25 ottobre 1944 e il primo a immolarsi fu il capitano Seki Yukio. La tecnica era abbastanza semplice: tre aerei compivano l'attacco suicida, preferibilmente contro delle portaerei, altri due fungevano da scorta ed erano condotti dai piloti più abili: dovevano infatti essere capaci di tornare indietro. Alcuni marinai americani sopravvissuti a quegli attacchi ne hanno dato una descrizione sconvolgente. George Blond, per esempio, raccontò che la rampa di lancio dell'«Enterprise» si piegò in quattro come una buccia di banana, mentre decine di suoi colleghi venivano dilaniati dall'esplosione.

    I resti del pilota giapponese divennero quasi reliquie, trofei di una guerra che aveva raggiunto l'inconcepibile: il suicidio dei soldati. Inevitabile il raffronto con gli uomini-bomba palestinesi, a cui è stato dato il nome dei piloti suicidi giapponesi della seconda guerra mondiale. Ma le differenze fra gli uni e gli altri sono profonde, come spiega Leonardo Vittorio Arena, docente di Filosofie dell'Estremo Oriente all'Università di Urbino, nel saggio «Kamikaze. L'epopea dei guerrieri suicidi» (Mondadori, 322 pagine, 18,00 euro), che segue il successo di «Samurai» (Mondadori, 2002). Al professor Arena chiediamo se in Giappone si sia cominciato a pensare agli attacchi suicidi di fronte alla graduale avanzata americana nel Pacifico, o anche prima.

    «Gli attacchi suicidi, per la verità - risponde - hanno una lunga storia in quel Paese. Li si potrebbe far risalire non solo alla guerra russo-giapponese del 1904-1905, ma addirittura all'era Tokugawa, durata dal 1600 al 1868. Ma certo l'avanzata americana era micidiale; e il Quartiere Generale giapponese pensò, dopo lunga esitazione, di adottare la "strategia speciale" che oggi chiamiamo kamikaze e che era, lo dico subito, una strategia del terrore, e non terroristica. Bisogna sempre ricordare che parliamo di una tattica del sacrificio di sé stessi assai radicata nella cultura nipponica, molto lontana dalla nostra tradizione impregnata di individualismo».

    Non c'è però il rischio di dare una giustificazione perlomeno culturale a una tattica così estrema ? Per dare ragione, in altre parole, ai molti giapponesi contemporanei che accusano di terrorismo le bombe di Hiroshima e Nagasaki più che i kamikaze ?

    «Non si tratta di giustificare quella tattica, quanto di metterne in rilievo i presupposti, che non esistono in altre culture. I kamikaze lottavano contro i militari, ricordiamolo, non contro i civili. Altro discorso è quello fatto da Suzuki Daisetsu, il grande interprete dello zen, che rintraccia un nesso tra il nazismo e i kamikaze: anch'essi erano il risultato della convinzione dell'esistenza di una razza superiore e della conseguente esasperazione del nazionalismo e del militarismo. C'erano degli innegabili presupposti culturali all'alleanza tra Germania e Giappone».

    Dalle sue pagine sembra emergere qualche dubbio sul fatto che almeno una parte dei soldati che decollarono per le missioni suicide fossero realmente volontari. E così?

    «La questione dell'adesione volontaria o meno a quelle missioni è una delle più spinose. In Giappone l'individuo è assorbito dal gruppo, ha senso solo all'interno del gruppo. Ciò è ancora più vero per il militare, che non ha bisogno di ordini espliciti. Anche velate pressioni da parte dei superiori possono spingere ad accettare una missione suicida. In ogni caso, alla fine i volontari furono molti, assai più numerosi degli aerei disponibili».

    Cosa li differenzia allora dagli uomini-bomba palestinesi?

    «Innanzitutto, ripeto, i giapponesi non erano terroristi. Nel mondo islamico, poi, la vita e l'individuo hanno un altro significato: manca una tradizione del suicidio, considerato anzi un grave peccato. Infine, se è vero che i piloti giapponesi credevano in una sopravvivenza, dobbiamo fare attenzione a non scambiarla semplicisticamente col Paradiso dei musulmani. I giapponesi si davano appuntamento, per dopo la morte, al tempio dei caduti, dove avrebbero acquisito una sorta di stato tutto mentale, dall'alto del quale avrebbero vegliato sul destino del Giappone. Tutt'altra cosa dagli islamici, che credono in una concreta resurrezione in Paradiso, immerso nella dimensione reale descritta dal Corano. I libri che mettono sullo stesso piano i kamikaze giapponesi e i terroristi di Al Qaeda peccano gravemente di superficialità».

    Giuliano Polidori

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