Intervista a Domenico Fisichella
Intervista
a cura di
Federica Fantozzi
06.09.2003
«An sui giudici non sta con Berlusconi»
ROMA - Senatore Fisichella, le sembra credibile che le parole di Berlusconi sui giudici siano soltanto frutto di una «battuta infelice», di una «traduzione inappropriata», dell’ennesima «strumentalizzazione»?
«Mi è parso di capire che almeno uno dei due giornalisti (Boris Johnson direttore dello "Spectator" e Nicholas Farrell editorialista della "Voce di Rimini", ndr) conosca molto bene l’Italia visto che ci abita da diversi anni, e dunque appare poco plausibile che si tratti di un errore di traduzione. Che poi la conversazione fosse destinata alla pubblicazione, era evidente dato che intercorreva appunto con dei giornalisti. Ritengo perciò fragili queste giustificazioni. Certo, l’intervista conteneva valutazioni di ordine storico e politico che hanno una loro legittimità. Ma le espressioni sui magistrati e le loro turbe psichiche non si giustificano assolutamente. Ci sono responsabilità che riguardano tutti i cittadini e altre, specifiche e maggiori, che riguardano le istituzioni e i loro vertici».
Le valutazioni storiche cui fa cenno riguardano i processi ad Andreotti?
«Mi riferisco più in generale al giudizio sulla Dc che ha svolto un ruolo di grande rilievo per la nostra storia e la cui vicenda non può essere esaurita in una sorta di realtà scellerata dal punto di vista morale. È stata un’esperienza più ampia e importante rispetto a taluni singoli episodi di malcostume che hanno investito peraltro anche altri partiti».
A Berlusconi è stato rimproverato di offendere la memoria di giudici uccisi dalla criminalità, quali Falcone e Borsellino. Condivide queste critiche?
«Non c’è dubbio che la magistratura abbia pagato un contributo di sangue alla lotta contro la mafia e la criminalità organizzata. E anche se si possono criticare, e sono stati criticati, taluni segmenti della magistratura accusandoli di aver tenuto comportamenti politicamente condizionati, sta di fatto che ci sono sempre gli strumenti offerti dall’ordinamento giuridico per neutralizzare e sanzionare eventuali scelte professionali improvvide. Viceversa, per i giudici uccisi, che hanno pagato il prezzo definitivo sull’altare del loro impegno contro la criminalità, non c’è possibilità di resurrezione. Almeno sul piano dell’immanenza. E credo che questa sia una differenza da mettere in conto».
Il comunicato del Quirinale sulla vicenda segna la fine del «presidente silente ma non assente» rispetto a Palazzo Chigi? Vede un brusco cambio di marcia nei rapporti fra le due istituzioni?
«Non lo vedo da parte del Quirinale che segue la linea costante della rivendicazione di certi valori fondanti della democrazia e delle istituzioni rappresentative. In ragione di questa linea sono stati compiuti interventi su temi cruciali quali il pluralismo dell’informazione. E sulla stessa linea credo si sia mosso il Colle in questa più recente vicenda. Non immagino, cioè, che sia il Quirinale a muovere attacchi o a compiere azioni belliche verso altre istituzioni o verso i loro titolari».
E viceversa, invece?
«Se accade, il Colle svolge l’opera che gli compete per ristabilire gli equilibri turbati. In questo caso certamente lo ha fatto. C’erano dichiarazioni che per la loro immediatezza e ampiezza di prospettiva - e parlo dei giudizi sui magistrati complessivamente intesi - si prestavano al rischio di una crisi istituzionale grave fra governo e magistratura. Dunque il Quirinale è intervenuto per ricondurre i rapporti tra le istituzioni alla fisiologia democratica».
Salvo timide eccezioni, governo e maggioranza tacciono. Il motivo è l’imbarazzo?
«Si può pensare all’imbarazzo. Si può pensare alla speranza che il trascorrere dei giorni produca la dimenticanza di questo episodio. Non credo che questa situazione sia passata senza disagio. Ma forse si confida che il sistema dei media possa mettere rapidamente la sordina contribuendo a ridimensionare nell’opinione pubblica l’incidenza di questa vicenda».
Mentre Il Secolo d’Italia ieri titolava «Berlusconi la “spara” grossa», Fini è tra quelli che tacciono. Qual è, secondo lei, la posizione di An?
«Non so quale sia la posizione del partito poiché non c’è stata nessuna riunione. Ma se conosco la destra italiana, e credo di conoscerla abbastanza bene, dubito che questa esternazione del presidente del Consiglio abbia riempito di entusiasmo soprattutto la base di An ma anche la sua classe dirigente».
I ripetuti inviti dei presidenti delle Camere ad abbassare i toni appaiono inutili e quasi controproducenti. Come si evita il rischio, da lei paventato, di una crisi istituzionale?
«Ho l’impressione che assistiamo a una fase della nostra vita pubblica in cui tutte le regole vengono messe in discussione e anzi considerate un ostacolo da superare. Colgo dei segni che ho già definito come percorsi da una vena sovversiva: si vive la realtà come una successione di emergenze. E siccome nella storia, che pure ha le sue varianti e variazioni, ci sono già stati lunghi momenti in cui la politica vissuta come corteo di emergenze ha dato risultati inquietanti, chi conosce la storia oggi ha molti motivi di preoccupazione».