Squadrismo giornalistico
di Furio Colombo
l titolo del Foglio (pagina 2) è: «In Iraq i cronisti Tv erano al servizio del raìs, compresa un’italiana».
Il titolo di Libero apre drammaticamente in prima pagina: «Giornalista Rai amica di Saddam».
Il Giornale non rinuncia a far parte dello squadrone punitivo, ma solo a pag. 13 e con un titolo che addossa la responsabilità ad altri: «L’inviato del New York Times: a Bagdad giornalisti senza dignità».
Viene in mente la frase di Emilio Gentile, in Fascismo, Storia e interpretazione (Laterza, 2003): «Ciò che volevano era la militarizzazione della politica, che è stato un fattore caratterizzante di tutti i fascismi. Intendo con ciò che tutta la vita individuale e collettiva doveva essere organizzata secondo i principi e i valori della concezione integralista della politica. È una nuova definizione di identità» (pag.239).
Ma poi diventa inevitabile cercare il testo originale del giornalista John Burns, due volte Premio Pulitzer.
In quel testo si vede che Burns è un personaggio molto occupato con il proprio mito, che non risparmia accuse di debolezza verso il nemico a celebri colleghi americani, ma è anche umano e generoso al punto da rivelare ai dirigenti iracheni del Ministero delle Informazioni la data esatta in cui quel ministero sarà bombardato. Tradisce un segreto del Pentagono ma salva un sacco di persone. Della giornalista italiana - a cui Il Foglio e Libero non esitano a dare il nome di Giovanna Botteri - dice più volte «una amica», «una vecchia amica». È una definizione che - ovviamente - indica legami che risalgono nel tempo. E vuol dire stima. Infatti il fervore morale con cui Burns condanna i cedimenti e le esitazioni dei suoi colleghi, difficilmente gli consentirebbe di definire «l’amica di Saddam» una sua vecchia amica. Il contesto non è mondano, è drammatico. E la descrizione del pericolo da cui Burns si sente circondato attribuisce per forza al gesto della giornalista italiana un tratto eroico. Stiamo parlando di un regime che - quando si spazientiva - eliminava anche persone di famiglia (per esempio, i generi di Saddam Hussein).
Poi c’è l’episodio che riguarda «una star della televisione italiana» e che Il Foglio identifica in Lilli Gruber, a cui viene attribuito il grido, diretto ai militari americani: «L’opinione pubblica vi considera invasori. Voi cosa avete da dire?». Fingendo di dimenticare (Il Foglio) che quella normale e legittima domanda era stata fatta, senza urla, davanti a una telecamera, proprio come la risposta del militare Usa.
Poi però mi sono letto una ventina di articoli che Burns, in quegli stessi giorni (lui indica marzo e aprile 2003), aveva inviato al suo giornale. Sono dei buoni pezzi, carichi di tensione e di dramma, molto simili, quasi uguali, giorno per giorno, a ciò che i giornalisti italiani Bianchi, Gulli, Maisano, Battistini, Pasero, Dell’Uva, il nostro Toni Fontana (e la Gruber, e la Botteri) stavano inviando in Italia. Leggendo, mi sono accorto anche di una certa differenza di tono del Foglio e di Libero,che cercano di puntare al tradimento (inevitabile risultato della militarizzazione della politica) e de Il Giornale, il cui corrispondente di guerra era stato catturato vicino a Bassora come il nostro. Da quel momento si è creato, fra giornali e direttori, un rapporto di reciproca informazione e anche di solidarietà. Ognuno passava tutte le notizie che aveva agli altri, gli inviati del Giornale o del Corriere - che avevano più mezzi per comunicare e avevano sul posto altri giornalisti non prigionieri - facevano sapere notizie, dati, indicazioni, attese, speranze a nome di tutti. E i telefoni satellitari della Botteri e della Gruber hanno dato a tutti noi (giornali e famiglie) le notizie rassicuranti nei momenti peggiori (per esempio dopo un bombardamento).
L’Unità, Il Messaggero, Il Resto del Carlino, Il Giornale, Il Corriere, Il Mattino, Il Sole 24ore hanno pubblicato editoriali diversi e opposti sul senso e la necessità di quella guerra. I rispettivi inviati hanno visto le stesse cose e - poiché non sono ancora militarizzati - le hanno raccontate con scrupolo, passione e umanità. Forse sono questi i valori comuni a cui ci si riferisce quando si parla di appartenenza alla stessa civiltà.
Burns, che ha scritto le stesse cose dei nostri colleghi (trovate tutto in rete, se volete) stava parlando non della guerra ma del rapporto fra corrispondenti e burocrazia nei luoghi senza libertà. Il suo testo (quello tratto dal libro Embedded di cui si sta discutendo) non ha lanciato una accusa di tradimento alla sua «vecchia amica» italiana. Ha spiegato che è stato salvato da lei, con un certo rischio.
Penso che - quando saprà della titolazione italiana - sarà il primo a meravigliarsi di essere caduto nell’ingranaggio del «giornalismo militarizzato» in cui, se non sei con loro, sei contro di loro. «È la coscienza nuova, il nuovo orgoglio maschio e guerriero della razza che ritorna» (Il Popolo d’Italia, 4 ottobre 1921) a produrre questi clamorosi sfasamenti di prospettiva.
Dopo tutto si tratta di donne irrazionali che urlano a pacati militari, di donne che si avventurano, in tempo di guerra, su scale di alberghi orientali in cerca di uomini a cui dire: «Perché non vieni nella mia stanza?».
Dopo tutto si tratta di giornaliste della Rai a cui si possono dare impunemente due schiaffi. Il ministro Gasparri vi ringrazierà. E poi - Dio mio - è la prima volta che si trova un giornalista famoso, di lingua inglese, che non dice male di Berlusconi.