Nel 1950 avevo 10 anni e abitavo a Torino, in una casa vicino al Po, una delle poche rimaste in piedi dopo i bombardamenti.
Al piano di sopra abitava una signora anziana, sola fino al giorno in cui arrivò dalla Bulgaria la figlia Elena, una donna sui 40 anni, con una figlia di 8, di nome Tatiana. Malgrado la bimba non parlasse all’inizio una sola parola d’italiano, diventammo subito amici (i bambini non hanno bisogno d’interpreti). Io avevo sempre sognato una sorellina minore, lei trovò un amico cui appoggiarsi in un mondo sconosciuto.
Sentivo la signora Elena raccontare a mia madre che aveva dovuto divorziare dal marito, un ingegnere bulgaro, Si erano conosciuti e sposati quando lui frequentava il Politecnico di Torino, dopo la laurea l’aveva seguito a Sofia. Avevano avuto due figli, il maggiore un maschio e Tatiana di qualche anno più giovane.
Durante la guerra, la monarchia bulgara, alleata ai tedeschi, aveva mantenuto una pace relativa nel paese, ma poi arrivarono i sovietici.
Il padre di Tatiana, sospetto perché aveva studiato in un paese fascista, perse subito il posto che aveva nel Genio civile, e gli fu tolta la casa in cui abitava. Per quattro o cinque anni vissero di stenti, guadagnando qualche soldo facendo lavori di pulizia, abitando tutti e quattro in una sola stanza, con cucina e servizi in comune. Vivevano nel terrore che qualcuno andasse a riferire di qualche lamentela alla polizia del regime. Bastava poco per essere prelevati e sparire senza lasciare traccia, talvolta qualcuno riferiva assolute falsità al solo scopo di ottenere una vendetta privata.
Lei alla fine si decise a chiedere aiuto al consolato italiano: le suggeriscono di chiedere il divorzio dal marito, e alla fine ottenne il visto d’uscita per se e la figlia minore, e tornò in Italia.
Per anni le lettere del marito e del figlio, o quelle spedite dai parenti del marito, arrivarono con il testo completamente cancellato dalla censura, solo i saluti e la firma, poi più niente: le lettere ritornavano indietro con la scritta “destinatari sconosciuti”.
Persi di vista Tatiana e sua madre circa 10 anni dopo, nel 1960, quando la mia famiglia si trasferì, e non ebbi più notizie di loro sino all’anno scorso, quando una ricerca su Internet ed il cognome di Tatiana, invero unico in Italia, mi consentì di riallacciare i rapporti.
Così potei parlare con la signora Elena, 92 anni, ma ancora molto lucida. Mi raccontò che il marito ed il figlio erano morti, dopo essere stati deportati, ma di questo era riuscita ad avere notizie solo molti anni dopo, quando la cortina di ferro aveva cominciato ad aprire le sue ferree maglie.
Quello che non riusciva a capire, e che la offendeva profondamente, era la visione in TV di tante bandiere rosse con falce e martello, sventolate durante le manifestazioni: “Possibile “ si chiedeva “che in Italia non abbiano ancora capito cos’è il comunismo?”
Ciampi dice di non dimenticare, e io non ho dimenticato la signora Elena, così come ricordo mio padre, tornato dai campi di internamento in Germania, magro come solo nei documentari su Auschwitz si vedono esseri umani ridotti così, ma comunque uno dei soli tre sopravvissuti su 44 internati con lui.
Certo, non dobbiamo dimenticare: tutto però, non solo quello che fa comodo.
Grazie per l’attenzione.