Telekom e il partito serbo
Mandato da Marco Cavallotti Giovedì, 28 Agosto 2003, 106 uur.
Avranno preso i soldi? Li avranno fatti prendere da amici per ritrovarli poi donati alle casse del loro partito? Avranno corrotto o finanziato politici e funzionari della vacillante ex –Jugoslavia? Lo sapremo – forse – a conclusione di indagini e inchieste tutt'altro che semplici. E finché non avremo delle condanne, mi par meglio tacere. Del resto, il massacro mediatico è già iniziato e dovrebbe indurre anche l'Opposizione a qualche ripensamento, se non altro di fronte al disastro d'immagine che, pur con mezzi incomparabilmente più limitati e circoscritti rispetto a quelli disponibili nella campagna antiberlusconiana, già colpiscono Mortadella, Ranocchio e Cicogna.



Un massacro che, malgrado le levate di scudi e le difese più o meno d'ufficio, prontamente riflesse dalla stampa politically correct dell'intero continente, non può che indebolire l'immagine internazionale del nostro paese, danneggiandoci tutti.
Ma un fatto è certo: con la benedizione e l'acquiescenza – anzi, pare, grazie all'iniziativa di alcuni nostri importanti rappresentanti politici di quegli anni –, l'Italia e la Telecom si sono imbarcate in un affare assolutamente insensato, dalle prospettive fallimentari e dal senso politico oscuro, visto che, pochi mesi dopo l'acquisto delle quote Telekom Serbia, proprio un'alleanza comprendente il nostro Paese ha bombardato Belgrado e le sue centrali telefoniche...
Eppure i pareri contrari e i richiami alla ragione non erano mancati; e per fortuna, viste le crisi collettive di amnesia, alcuni rimangono testimoniati o addirittura scritti nero su bianco. Ma l'affare doveva essere fatto per forza, a quanto pare, e vorremmo almeno che chi lo ha promosso abbia il buon senso e la dignità politica di spiegarne le ragioni.
Intanto però, fra tanto vergognoso silenzio, vien voglia di provare a indovinare il perché di quel disastro annunciato, perpetrato a nostre spese. Tralasciando, per le ragioni di cui sopra, le ragioni di bassa cucina – ci penseranno, spero, i giudici –, un ripasso della storia dei rapporti itali-serbi fra XIX e XX secolo potrebbe aiutarci a capire.
La Serbia, cuore della nascente Jugoslavia, aveva assunto durante il risorgimento dei Balcani il ruolo – ed anche il nome – di Piemonte Slavo: dunque di promotore e di nerbo militare per la nascita dello Stato degli Slavi meridionali. Ma il partito Serbo in Italia trovava nei passati anni Novanta numerosi fautori non solo fra i "nazionalisti" giacobini, che ritenevano che lo stato centrale e autoritario instaurato nei Balcani costituisse lo strumento per una crescita veloce e controllata; ne trovava anche, ed è meno sorprendente, fra i compagni di sempre, che prima avevano visto in Tito un riferimento per le vie nazionali al socialismo e per la ricerca di un'improbabile e mai "scoperta" terza via, e poi continuavano a riconoscere in Belgrado uno dei possibili modelli e referenti del comunismo internazionale in fase di riassestamento dopo il crollo dell'impero sovietico. Il richiamo della foresta. Per questo, basta leggere gli interventi usciti in quei giorni ad opera della sinistra diessina, dei rifondatori e dei duri e puri ancora ufficialmente comunisti. Insomma, vecchi massoni mazziniani di sinistra – a modo loro epigoni della tradizione risorgimentale –, socialisti di sinistra nostalgici della programmazione, comunisti tout court, continuisti del Ministero degli esteri, avvezzi al gioco di sponda con Belgrado nelle questioni balcaniche, si sono trovati d'accordo a ci hanno provato. Con buona pace delle migliaia di morti massacrati e gettati nelle fosse comuni, del principio di autodeterminazione dei popoli (mazziniano anch'esso), dei più elementari principi di civiltà e di tolleranza.
Sarebbe ora che ce lo spiegassero per bene: alcuni di loro finirebbero anche per farci una figura meno trista e meno vergognosa.