Segnando il terzo anniversario dell'Intifada dell'Aqsa
di Jennifer Loewenstein





Fin dal 1996, tre anni dopo la firma degli accordi di "pace" di Oslo, i leaders militari israeliani tracciarono dei piani di emergenza per la riconquista della Cisgiordania e la distruzione dell'Autorità Palestinese. Chiamarono il loro piano "Campo di Spine" e nella primavera del 2002 il governo Sharon cominciò effettivamente a realizzarlo con il nome di "Operazione Scudo Difensivo". Questa serie di operazioni militari annullarono le distinzioni amministrative per il governo separato e congiunto in alcuni segmenti della Cisgiordania (Aree A, B e C) che erano stati stabiliti con l'accordo di Oslo ed inflissero il colpo di grazia alla leadership dell'Autorità Palestinese. Nel nome della sicurezza, l'esercito israeliano causò danni irreparabili alla società civile popolare e democratica palestinese sostenuta da diverse ONG e da istituzioni politiche ed educative.

I soldati saccheggiarono uffici, distrussero computers e hard drives, rubarono ed in molti casi bruciarono informazioni statistiche e sociologiche di decenni conservate in cartelle di carta e su dischetti per il software. In alcuni casi, distrussero gli uffici ed i quartier generali di queste organizzazioni, incluse la Tv e la radio palestinesi, in maniera così accurata da lasciare allibiti persino i cittadini più incalliti.

L'annientamento del campo profughi di Jenin nell'aprile 2002, l'assedio ad Arafat nel suo compound, che continua fino ad oggi - ed e' corroborato dalla recente decisione, approvata dagli USA, di ucciderlo o espellerlo - e la costruzione del Muro di Apartheid in corso in tutta la Cisgiordania, attestano il successo simbolico e letterale della visione dietro il "Campo di Spine" e l' "Operazione Scudo Difensivo", una visione a lungo incoraggiata dai precursori ideologici e compatrioti di Ariel Sharon, siano essi del Likud che del partito Laburista.

Oggi l'attenzione in Israele e' concentrata sulla guerra contro Hamas, un pretesto per fare nella Striscia di Gaza - già un enorme ghetto - ciò che e' stato fatto in Cisgiordania, e per completare il grande sforzo già in corso, che si chiama "annessione de facto" dei Territori Occupati. Israele proclamerà il suo diritto esclusivo a controllare la terra e le risorse di questi territori per "motivi di sicurezza" e le loro frontiere interne ed esterne senza la responsabilità degli abitanti palestinesi che ci vivono. Le agenzie umanitarie internazionali continueranno a pagare il peso finanziario di questa occupazione "deluxe", mentre sempre più palestinesi saranno costretti ad andare via o ad accettare sempre più sfruttamento e miseria. Coloro che vogliono negare la realtà di questa agghiacciante politica di pulizia etnica e di apartheid attraverso inedia legalizzata, strangolamento, omicidi e indifferenza, stanno solo ripetendo la propaganda già rampante in occidente, che dipinge le vittime come perpetratori di terrorismo.

Nella piccola e densamente popolata Striscia di Gaza, il processo di re-consolidamento del controllo israeliano sarà difficile e sanguinoso, poiché avrà bisogno di tattiche quali l'istigazione alla guerra civile, orchestrata da Israele e dai suoi intermediari palestinesi auto-proclamatisi, a cui poi Israele darà la colpa. Ahmad Qureia, comunque, come il suo predecessore Mahmud Abbas, e' destinato al fallimento. Mentre, non visto, cerca di formare il suo nuovo "governo", c'e' da chiedersi in quali idealistici pensieri e' immerso per credere che il suo ruolo di Primo ministro dell'AP stampato da Israele potrà fare qualcos' altro oltre che prestare una mano a Sharon per spianare col bulldozer la sua strada verso il Grande Israele. E' triste vedere come Qureia sia pronto ad essere usato come un altro strumento umano per i disegni imperiali di Washington e del suo agente israeliano. E per quale obiettivo? Davvero Qureia crede che il suo fato possa essere migliore di quello di Arafat? Gli sarà ordinato di governare un regime militare autoritario il cui compito primario sarà quello di garantire l'esistenza di una Palestina non democratica, satellite di Israele. L'eventuale fallimento nello schiacciare ogni resistenza a questo regime porterà anche al suo crollo.

Tutte le meditazioni e gli appoggi a parole alla "Road-map" non hanno nulla a che vedere con il favorire la pace e molto a che vedere con l'approvazione dell'asse Bush-Sharon. Ogni meccanismo per la morte graduale della nazione palestinese e' a posto: l'espansione degli insediamenti, le invasioni quotidiane, la distruzione della terra palestinese, i coprifuoco persistenti, blocchi stradali e checkpoint umilianti che dividono famiglie, amici e comunità gli uni dagli altri. La pervasiva politica di immiserimento, dispossesso e divisione ha avuto l'effetto di de-nazionalizzare un popolo - non nella coscienza ma nell pratica - mentre i palestinesi vengono spinti a forza in un mondo anti-moderno, in cui impiegano giorni o settimane per fare ciò che altri fanno nello spazio di un mattino. E questi sono i fortunati, coloro che sono sopravvissuti all'azione letale dei militari israeliani e delle famigerate prigioni nel deserto.

Il 29 settembre 2003, tuttavia, segnerà il terzo anniversario dell'Intifada dell'Aqsa, una triste occasione per chiunque sperasse che la rivolta potesse preannunciare un cambiamento rivoluzionario e il perseguimento della giustizia. Invece, mentre le notizie ci ricordano che molti israeliani sono morti in atroci attacchi kamikaze, nessuno ci ricorda che i palestinesi morti per mano d'Israele in atti di terrorismo legalizzato da quando e' iniziata la rivolta sono quatto volte più numerosi, e che l'80% dei palestinesi uccisi erano civili disarmati. I nostri politici, i media e gli educatori non permettono che noi capiamo che la resistenza all'occupazione e' un diritto e che coloro che rifiutano di accettare le insopportabili circostanze in cui sono costretti a vivere e lavorare rappresentano l'ultimo raggio di speranza per un futuro accettabile.

Vediamo filmati di carriarmati israeliani che rotolano nei campi profughi, di mitragliatori di elicotteri Apache che lanciano missili contro automobili e strade affollate per "eliminare i terroristi", di soldati israeliani armati ed equipaggiati che raccolgono civili sotto la minaccia dei mitra, di aerei F-16 che volano bassi sulle città per bombardarne case e negozi sulla base di "informazioni d'intelligence", ma quando i palestinesi vengono presi in stretti tunnel tra Egitto e Gaza, mentre trasportano armi, oppure mentre lanciano granate rudimentali contro gli insediamenti colonici illegali, oppure quando i ragazzini hanno il coraggio di lanciare pietre e bottiglie molotov contro i carriarmati corazzati, la reazione comune e' l'indignazione.

Da quando, mi chiedo, e' accettabile che solo una parte abbia armi durante un conflitto? Da quando le azioni di una superpotenza militare contro il popolo che opprime e cerca di distruggere sono definite "auto-difesa"? Da quando e' legittimo assassinare impunemente coloro che sono stati giudicati colpevoli senza processo e gli sfortunati passanti che si trovavano sul sentiero della morte? Da quando la demolizione di centinaia di case e lo sradicamento forzato di intere famiglie passa sotto il silenzio della comunità internazionale, o viene distrutto l'ambiente vitale di un villaggio o viene confiscata terra in nome della "sicurezza", allo scopo di rubare le risorse naturali della terra per i coloni illegali o per i cittadini ebrei di Israele? Da quando e' lecito che un popolo disperso da 2000 anni abbia il diritto di "tornare a casa", mentre ad un popolo in esilio da 55 anni questo diritto non viene riconosciuto? Per quanto tempo ancora inveiremo contro l'uso della violenza da parte di coloro che sono sottoposti ad essa ed a tutte le sue possibili forme ogni giorno della loro vita? Nonostante le prospettive siano buie, non dobbiamo abbandonare la lotta per la liberazione né dimenticare la data che segna la sua più recente incarnazione in Palestina.







La sola coscienza detta a molti di noi il bisogno di una resistenza non violenta, e il pragmatismo suggerisce che essa sia l'unico modo per impedire ai palestinesi di commettere un suicidio nazionale, eppure la non violenza e' una ricetta non facile da prescrivere ad un popolo che resiste in Palestina al terrorismo israeliano finanziato dagli USA. Mentre Israele non ha alcuno scrupolo nello schiacciare i palestinesi militarmente per ogni singolo atto di resistenza violenta e terrorismo che possano commettere, e' chiaro che Israele non ha ugualmente nessuno scrupolo nell'assassinare coloro che resistono pacificamente per realizzare i suoi obiettivi razzistico-nazionali. La lotta per la Palestina e' andata ben oltre la battaglia per la terra ed i diritti di proprietà: uomini, donne e bambini affrontano le tenaglie dei bulldozers, la dinamite degli squadroni della morte, i proiettili di soldati e coloni, bombe e missili di carrarmati semplicemente perché esistono. Una volta sembrava un oltraggio che bambini che lanciavano pietre fossero uccisi da militari dal grilletto facile. Ora e' accettabile uccidere bambini troppo vicini ad un muro o gente ferma ai checkpoint, che cammina per strada o che siede in casa.

In un ambiente in cui la violenza e' la pratica comune anche contro gente non armata e non aggressiva, gli atti di resistenza violenta e non violenta sono ugualmente suicidi. A meno che il governo degli Stati Uniti non faccia in modo che Israele sia considerato responsabile di ogni atto di assassinio e profanazione che commette, ben pochi palestinesi potranno razionalizzare la resistenza attraverso la disobbedienza civile. E' dunque dovere della comunità internazionale, ed in particolare del popolo degli Stati Uniti, convincere il popolo di Palestina che la resistenza non violenta può funzionare; che non solo i loro morti non saranno invano ma che non dovranno più morire per aver avuto il coraggio di resistere all'ingiustizia. Tocca a noi mostrare loro che non chiuderemo gli occhi, mentre gli USA ed Israele superano ogni limite di terrorismo di stato e pulizia etnica. Il nostro silenzio di fronte a tutto ciò annichilisce la speranza.

Dobbiamo capire che le tattiche come l'attuale "guerra ad Hamas" non sono altro che scuse per distruggere la Palestina. E' un altro pretesto di Sharon per utilizzare una forza letale contro una popolazione imprigionata. E' l'anteprima per una invasione massiccia di Gaza che avverrà, probabilmente, questo autunno. Con i carriarmati israeliani che circondano ogni città e campo profughi della Striscia, l'accesso ai centri della resistenza saranno più facili e sanguinosi. Gaza condividerà il destino della Cisgiordania, o peggio ancora. Israele può sostenere un altro regime fantoccio, con delinquenti come Mohammed Dahlan, il pupillo dell'America, per fare il lavoro sporco per suo conto; o può semplicemente evitare del tutto il bisogno di un' "Autorità palestinese". Dopo tutto, c'e' una buona ragione per il fatto che "Campo di Spine" ha avuto come bersaglio l'AP: una volta eliminata la leadership moderata e collaborazionista, pochi obietteranno contro gli attacchi indiscriminati contro i "gruppi islamici estremisti" come Hamas e Jihad Islami. Infatti Sharon ha già dichiarato che il suo regime mandatario dell'AP e' "inefficiente nello smantellare le infrastrutture del terrorismo" (leggi la resistenza islamica).
L'eliminazione dell' "Autorità" darà ad Israele la luce verde che aspetta per entrare nelle città e nei campi profughi di Gaza e per realizzare un altro "Libano" contro i civili ed il resto della resistenza organizzata.

Si noti che la distruzione di Hamas, il più popolare gruppo di opposizione in Palestina, avrà due risultati certi: l'aumento del supporto popolare verso la resistenza islamica a Stati Uniti ed Israele e l'ulteriore erosione della società civile democratica in Palestina ed altrove.

Questi risultati faranno avanzare la visione di Sharon, una visione condivisa in grande scala da gente come Bush, Rumsfeld, Wolfowitz e molti altri. Possiamo vederne il riflesso nelle azioni americane in Iraq e nelle sue intenzioni per la Siria, l'Iran, l'Afghanistan ed il Pakistan. Come individui, abbiamo una scelta da operare: allo stesso modo dei palestinesi, possiamo collaborare o resistere.