E di nuovo Luciano tirò fuori l’accetta(corrieredellasera)
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PERSONAGGIO
di GIAN ANTONIO STELLA
C'era una volta l'U.r.c.a e Massimo D'Alema si vantava di esserne il capufficio. Ieri pomeriggio, memore del ruolo, si è dunque affacciato sullo sconquasso intorno a Luciano Violante, Silvio Berlusconi e la mafia per dire con aria compassata: «Sinceramente mi sono chiesto su che basi si è voluto montare a freddo questo caso».
Mai come stavolta, tuttavia, il fantomatico Ufficio Riparazioni Cazzate Altrui è sembrato inadeguato alla bisogna.
Tutto autorizza a dire, infatti, che sparando sul Cavaliere la tesi che «la mafia oggi non ha motivo d'aver paura e non per responsabilità delle forze dell'ordine, ma per responsabilità del presidente del Consiglio», il capogruppo diessino abbia commesso qualcosa di più che un crimine. Ha fatto un errore. Al punto che molti esponenti dell'Ulivo si sono guardati bene dal dargli ragione: arrangiati.
Ma come, proprio adesso? Con la maggioranza lacerata dall'idea di Fini di dare il voto agli immigrati, il debito pubblico salito a 1.378 miliardi di euro, i sindacati ricompattati contro la riforma delle pensioni, i sondaggi foschi per il capo del governo compreso quello casareccio e devastante di Domenica In , il presidente della Confcommercio Sergio Billé così furente da dire che i commercianti «ne hanno le tasche piene», le bacchettate incessanti tra Fazio e Tremonti e l’inflazione «percepita» al 6%? Proprio adesso doveva uscirsene con quella frase? Fosse spiritoso, anche se su un tema ustionante come questo facile non è, Berlusconi a Violante dovrebbe mandare una torta, con la panna e le candeline e una scritta con gli svolazzi: «Grazie». Alle dieci di ieri sera, tra le note d’agenzia, quelle dedicate alla polemica scatenata da Violante erano 219 e avevano spazzato via tutto: il voto agli immigrati, il condono che dà il mal di pancia a larghe fasce di An e dei centristi, il calo della produzione industriale.
La Casa delle Libertà si è ricompattata intorno al Cavaliere sentendosi ognuno offeso nell’onor proprio. Fini è stato messo nelle condizioni peggiori per accettare in Parlamento sui diritti agli stranieri i voti delle sinistre. E come non bastasse è stata offerta la possibilità di chiedere «l’isolamento degli estremisti» a cultori della scazzottata verbale come Sandro Bondi. Un capolavoro. Con l’aggravante, ricorda chi sostiene di lasciar perdere i temi della giustizia finora disastrosi sotto il profilo elettorale per lasciare piuttosto Berlusconi «sgovernare in santa pace», della recidiva.
Un ricordo che a Violante brucia ancora. Ricordate? Era la vigilia delle elezioni del 27 marzo 1994 e sulla Stampa comparve una sua intervista: «Quello che vorrei da Berlusconi sono delle risposte precise su alcuni punti. Perché ad esempio non dice chiaro che non vuole i voti di Piromalli?». E ancora: «Berlusconi a proposito della richiesta di arresto di Dell’Utri dice ad alta voce: " Se noi vinciamo le elezioni queste cose non capiteranno più". Ebbene questi sono dei segnali. Bastano discorsi del genere a far dire alla mafia: quelli sono bravi picciotti».
Scoppiò il finimondo. Lui negò d’aver mai usate quelle parole, si dimise dalla presidenza dell’Antimafia, disse di essere caduto in una trappola. Sarà. Il fatto è che, nonostante abbia cercato di accreditarsi da presidente della Camera come uomo di ricucitura e di dialogo a costo di scontentare un pezzo della sinistra con le aperture ai «ragazzi di Salò» o le riflessioni sulle foibe, nonostante s’indigni per l’accusa della destra di essere «il capo del partito delle Procure», nonostante si sia sforzato in ogni modo di liberarsi dell’accostamento appiccicatogli da Cossiga con Andrej Vishinsky, il pm nei processi stalinisti nel 1936, Violante, quando parla di Berlusconi, usa (ricambiato) l’accetta. Come fece con la Süddeutsche Zeitung, quando sostenne che il Cavaliere parla con «il vocabolario di un vecchio dittatore sudamericano» e ha «la stessa cultura politica di Haider: populismo, nazionalismo, razzismo».
Sono accuse legittime? Opinioni contrastanti. Sono politicamente utili? Si è già visto: no. Eppure il punto centrale è un altro. Nella lotta alla mafia c’è chi si è guadagnato i galloni sul campo e nessuno, neppure i suoi più acerrimi nemici, mette in dubbio la dedizione che Violante ha speso, anche rischiando, su questo fronte. Ma neppure se fosse lui il Nemico Numero Uno del crimine organizzato sarebbe autorizzato a parlare di questi temi come ha fatto: tutto il male sta di là, tutto il bene sta di qua. Non è così. Occorre ricordargli che Isola Capo Rizzuto, Pompei o Cinisi sono solo alcuni dei Comuni «rossi» sciolti per mafia negli ultimissimi anni? Che il vecchio sindaco diessino di Gela Franco Gallo si dimise polemizzando col capogruppo regionale diessino Calogero Speziale tra accuse reciproche di ambiguità nei confronti di certi ambienti e che il nuovo sindaco Rosario Crocetta ha appena denunciato di «sentirsi isolato» e non solo da Roma? Che secondo la magistratura uno dei prestanome di Totò Riina sarebbe l’uomo che gli affittò per dieci anni la villa della latitanza e cioè Giuseppe Montalbano, figura di spicco tra gli imprenditori di sinistra isolani?
O che l’uomo di maggior peso elettorale dentro la Quercia siciliana era fino a pochi mesi fa «Lillo» Crisafulli, filmato da una telecamera mentre si incontrava per parlare d’appalti in un hotel con il «padrino» Raffaele Bevilacqua che teneva in riga come fosse lui il capo vero? Certo, ciò non consente a nessuno di dire che la sinistra è marcia. Ci mancherebbe. Così come nessuno nega a Violante il diritto di chiedere che la Casa delle Libertà si liberi di certi figuri impresentabili, di pretendere che il governo faccia di più contro il degrado della Sicilia, di accusare chi ha ridotto così certe aree del Mezzogiorno sempre più angosciate, come denunciano i vescovi calabresi, dal crescente assedio mafioso. Ma il problema è un po’ più complesso di come è stato dipinto in questi giorni. E il monopolio del Bene l’ha solo qualcun altro. Un po’ più in alto.