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Discussione: I nemici del....

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    Predefinito I nemici del....

    ....Papa polacco

    Karol il Garrulo, baciatore del Corano” è critica oltre i limiti del buon gusto e del buon senso, del resto viene da Hutton Gibson, babbo di Mel, una delle mille figure estreme nel variegato mondo del tradizionalismo cattolico.
    In occasione del “mancato” Nobel per la Pace, i sacerdoti lefevriani della Fraternità sacerdotale di San Pio X hanno diffuso un comunicato in cui ringraziavano Dio per lo scampato pericolo di vedere il Vicario di Cristo accomunato a massoni e agenti del mondialismo.

    Ma i tradizionalisti “tradizionali” erano contro il pontificato già prima, dal suo inizio si potrebbe dire.
    Più interessante è notare l’attivismo recente di associazioni e
    gruppi riconducibili a posizioni “di destra” da Alleanza cattolica al romano Centro culturale Lepanto, a siti e agenzie di stampa via Internet quali Zenit che non di rado hanno incalzato, soprattutto sui temi della pace e dell’Islam, la linea del Vaticano.
    Su questi temi, hanno tutti come sicuro punto di riferimento don Gianni Baget Bozzo: “Mi sembra che sulla guerra abbia vinto Bush, non il Papa, e il suo dialogo con l’Islam non ha certo avuto successo”, ci dice.
    Peraltro Baget Bozzo si dichiara “grande ammiratore” di Giovanni Paolo II, per le sue “grandi vittorie” dottrinali, tutte nel segno della restaurazione post conciliare. Eppure in questi ultimi anni il partito della critica antiwojtyliana di segno conservatore è andato sviluppandosi proprio su una tesi opposta a quelle di Baget Bozzo, quella degli eccessivi cedimenti nei confronti dei nemici della Chiesa che avrebbero contrassegnato un Papa carismatico sì, ma anche troppo generoso.
    Un partito che coinvolge fette della gerarchia (per lo più tacitamente) e intellettuali laici di spicco. La data di nascita della fronda a destra potrebbe essere il 2 novembre 1993, quando in un’intervista con Jas Gawronski rimasta celebre, Giovanni Paolo II si trovò ad annunciare il programma del decennio successivo:
    “Alla fine di questo secondo millennio si deve fare un esame di coscienza: dove stiamo, dove Cristo ci ha portati, dove noi abbiamo deviato dal Vangelo”.

    Iniziava la stagione dei mea culpa, iniziavano voci di dissenso per quella che nel migliore dei casi veniva interpretata come un’eccessiva arrendevolezza nel tentativo di riconciliarsi con il mondo. Fra gli ecclesiastici, il cardinale di Bologna Giacomo Biffi ebbe il coraggio di esporsi personalmente:
    “La Chiesa, proprio come Chiesa, ha dei peccati?”, si chiedeva nel 1995. “No, la Chiesa considerata nella verità del suo essere non ha peccati, perché è il Cristo totale”.
    Vittorio Messori, nel 2001, attaccò così sul Corriere: “La misura è ormai colma, questo Papa sta esagerando… Giovanni Paolo II travisa il passato della Chiesa”.
    L’arco delle critiche è ampio, c’è chi ad esempio non digerisce il nuovo rapporto con gli ebrei. Un recente libro segnalato quasi solo da Sandro Magister nel suo sito web si intitola “Il mistero della Sinagoga bendata”. Sotto l’ammicco hollywoodiano del titolo il teologo Enrico Maria Radaelli tira bordate al cattolicesimo d’oggi, per aver offuscato e annacquato la fede. A far le spese delle accuse sono tanti alti prelati, da Martini allo stesso Ratzinger (non si è mai conservatori abbastanza).
    Ma è significativo che lo stesso Wojtyla sia imputato di voler “
    giudaizzare” il cristianesimo e criticato per aver pregato al Muro del Pianto.

    Ma dopo l’11 settembre a finire sotto accusa è soprattutto il dialogo con l’Islam. Il sociologo delle religioni Renzo Guolo, nel suo recente “Xenofoni e xenofili. Gli italiani e l’Islam” traccia una mappa dello spostamento “lepantino” della gerarchia cattolica italiana, passata in pochi anni dalla politica dell’accoglienza alle dure critiche sui matrimoni misti, sui rischi sincretistici, e a una maggiore attenzione per le persecuzioni subite dai cristiani nei paesi musulmani. Da Biffi a Ruini passando dallo stesso Martini, tutta la gerarchia avrebbe rivisto il proprio atteggiamento.
    Tranne il Papa, scrive Guolo, rimasto fedele a una linea
    “oltranzista dialoghista” sempre meno accettata nella gerarchia. La recente partecipazione con cui è stata celebrata la beatificazione di Marco d’Aviano, il cappuccino che nel 1683 guidò la riscossa di Vienna assediata dai turchi, la dice lunga.
    Il “partito di Lepanto” c’è, ed è tutt’altro che in ritirata. Ma se si allarga lo sguardo, c’è addirittura un’onda lunga conservatrice
    antiwojtyliana, secondo il vaticanista Sandro Magister.
    Lunga quanto? La data di nascita potrebbe stavolta essere l’incontro interreligioso di Assisi del 1986, “che è stato un vero intoppo nel pontificato, ha dato troppo l’impressione del cedimento – ovviamente al di là delle intenzioni del Papa e ha ricompattato gli oppositori, costringendo negli anni Wojtyla a un ‘ripiegamento’ se non dottrinale, almeno di indirizzo pastorale”.
    Secondo Magister, non sono in molti quelli che escono allo scoperto, ma dietro ai Biffi o ai Maggiolini c’è molto più consenso di quel che si ammette.
    Un altro esempio sarebbe il crescente fastidio per l’eccessiva spettacolarizzazione del pontificato, sia a livello di esposizione mediatica che di contesto liturgico. “I balli africani alla beatificazione di Comboni non sono piaciuti a tutti, e sono lontani i tempi in cui si guardava con indulgenza alle performance del Papa durante i suoi viaggi. Del resto non è un mistero che monsignor Piero Marini, maestro delle cerimonie e gran coreografo del pontificato, abbia più di un nemico in Curia, Ratzinger in testa”.
    Il variegato fronte critico “neoconservatore” peserà sulla definizione del prossimo pontificato.
    Il successore di Wojtyla avrà un mandato molto più ristretto sul dialogo religioso, soprattutto nei confronti dell’Islam, e anche nella liturgia e nell’immagine complessiva della Chiesa ci saranno aggiustamenti, nel segno del rispetto delle tradizioni.
    Insomma il partito che ha mal digerito il protagonismo carismatico di Wojtyla tesse la sua tela e raccoglierà i suoi frutti. Dietro la svolta (o “la corsa all’arroccamento”, come ha scritto qualche tempo fa il vaticanista Marco Politi) c’è anche una certa sensazione di “risveglio” che attraversa molti settori della Chiesa, soprattutto dopo lo spavento islamico post 11 settembre.
    Ma c’è anche l’interrogativo angoscioso sul destino del cattolicesimo dopo Wojtyla.
    Monsignor Maggiolini ci ha scritto addirittura un libro, dal titolo “Declino e speranza del cattolicesimo”. “Non so che cosa troveremo sul piccolo schermo televisivo allorché saranno spenti i riflettori sul bianco che domina ora… Dio ce la mandi buona”.

    Maurizio Crippa

    su il Foglio

    saluti

  2. #2
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    Predefinito

    Sentite cosa scriveva ieri Polly Toynbee sul Guardian di Londra, giornale della sinistra liberal, e capirete perché è interessante ragionare laicamente sui nemici del Papa. “Questo Papa è una figura odiosa, sì, e per buone ragioni”.
    “E’ un Papa ultraconservatore imbevuto dell’ethos meschino della Chiesa polacca, che ora risorge sgradevolmente nel suo vecchio nazionalismo, antisemitismo e antifemminismo”. “Lo si loderà giustamente per la sua ferma opposizione al comunismo e per il suo sostegno a Lech Walesa.
    Egli è entrato nella sempre crescente mitologia secondo la quale è stata l’estrema destra occidentale con le sue proprie mani a demolire la cortina di ferro – l’asse Reagan, Thatcher, Wojtyla – negando con questo il ruolo della socialdemocrazia che si è opposta al comunismo altrettanto vigorosamente”. “Un’Europa occidentale irreligiosa ignora in prevalenza gli strani rituali e le credenze ancora in voga presso una minoranza sempre più rapidamente in declino”. “Nessuno arriverà a contare quanta gente è morta di Aids per colpa del potere di Wojtyla, quante donne sono morte di aborto, quanti bambini sono morti di fame in famiglie troppo numerose per nutrirli. Ma è ragionevole supporre che queste morti silenziose, non computate, invisibili siano altrettanto numerose di quelle causate da un qualunque tiranno o dittatore degno degno di questo nome. Forse ciò avviene attraverso l’inganno e non per via del male, ma ai morti questo poco importa”.
    Polly Toynbee prosegue con altre considerazioni sull’omosessualità della maggioranza dei preti, sulla pedofilia come diretta conseguenza della sessuofobia della Chiesa, e sull’odio teologico della Chiesa per le donne.

    Ecco spiegato come meglio non si poteva il papismo del Foglio. D’altra parte Gerard Baker ha scritto sul Financial Times (come abbiamo fatto noi in passato) che bisogna chiamare questo Papa Giovanni Paolo il Grande, un papa Magno, e che Wojtyla è “uno dei grandi simboli di odio per le élite che si proclamano liberal”. Infatti solo l’odio può spiegare certi errori madornali, più etici che di semplice interpretazione.
    Un Papa antisemita, quello del mea culpa e della visita in Sinagoga?
    Paragonare la sua offensiva contro il comunismo con l’azione della socialdemocrazia europea, il cui campione Willy Brandt orchestrò per anni la sua Ostpolitik sotto la sorveglianza della spia sovietica Guenther Guillaume?
    L’irreligiosità dell’Europa secolarizzata, che è un problema per chiunque abbia testa e pensiero, intesa come sberleffo e sarcasmo?
    Predicare l’amore sponsale o la castità equivale a condannare a morte per Aids tanta gente quanta ne ammazza un tiranno? Accettare per autentiche le odiose banalità e le aggressioni orchestrate ai danni della Chiesa con la campagna sulla pedofilia? Abbracciare l’accusa di antifemminismo contro un Papa mariano?

    C’è poco da fare. Il Papa ha i suoi nemici, sono tanti e agguerriti, sperano in una svolta liberale della Chiesa dopo di lui, sebbene non sappiano in che cosa mai possa consistere.
    E’ normale che sia così. Gli eccessi apologetici nascondono la verità di un pontificato politicamente e spiritualmente significativo, che ha richiamato e richiama drammaticamente a un ripensamento intellettualmente solido, fondato su altro che non sul dizionario politicamente corretto, del rapporto tra religione e politica, tra libertà e autorità, tra modernità e tradizione.
    Questo pontefice è padre e fratello di tutti coloro che non si accontentano della fragilità menzognera della post modernità e del post comunismo.
    E’ compagno di strada, il più autorevole, il più colto, il più forte nello spirito e nella carne, di chiunque non abbia chiuso gli occhi nella dogmatica ideologica della lotta di classe o del self interest, le due dimensioni ingannevoli della tragedia del Novecento. Dare una base all’obbligo politico come garanzia del diritto alla libertà: un Papa magno e un Papa filosofo.
    Da amare per le ragioni che gli attirano l’odio.

    Giuliano Ferrara su il Foglio

    saluti

  3. #3
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    Predefinito I gay non....

    .....perdonano

    Nessuna concessione etica o legislativa, e il mondo omosessuale lo combatte

    E’un’inimicizia profonda e reiterata, ossessiva e financo violenta quella che separa i gay e il capo della Chiesa cattolica apostolica romana. Un’avversione prepotente, indubitabile e senza appelli anche se con molte, inevitabili e – almeno per chi è gay e cattolico – sanguinose contraddizioni.
    Urbis et orbis Giovanni Paolo II viene infatti ritenuto il nemico pubblico numero uno per avere più e più volte ribadito che l’esercizio dell’omosessualità è peccato orrendo, ripugnante e imperdonabile tanto che qualcuno della Curia sogna e opera perché tale peccato – in attesa della condanna eterna – possa di nuovo essere rubricato tra i delitti del codice umano e dunque punito con pene adeguate.
    I militanti gay hanno da tempo individuato nel Papa polacco la quintessenza dell’omofobia persecutrice, colui che di dritto o rovescio manda a morire ammazzati milioni di persone per aver interdetto l’uso del preservativo, o conduce al suicidio sciami di adolescenti che non sanno rispondere alla condanna perentoria dei propri impulsi.

    Karol Wojtyla è anche descritto come, se non proprio l’autore, sicuramente l’ispiratore di ogni ostinata manovra politica tesa a impedire il riconoscimento delle coppie di fatto, per non parlare delle adozioni.
    Del resto per la dottrina cattolica le cose sono chiare: dopo aver accettato obtorto collo (molto obtorto) che l’omosessualità è pulsione indomabile e irriducibile è stato stabilito che “di per sé” essa non apre le porte dell’inferno, il problema vero consistendo nel suo esercizio sessuale, in quella fornicazione tra uguali sessi che sarebbe quintessenza inaccettabile del vizio.
    Teoria che ha fatto imbufalire gli omosessuali di tutto il mondo, soprattutto quelli organizzati e incattiviti da secoli di vessazioni, silenzi, omicidi e accuse infamanti. Una guerra che ogni giorno fa le sue vittime su entrambi i fronti.

    Il 13 gennaio del 1998 Alfredo Ormando, uomo alla ricerca disperata di una vita decente, dalla siciliana e nativa San Cataldo salì sul treno e giunto a Roma si diede fuoco in piazza San Pietro, bruciante protesta contro il dolore e la colpa, la mancanza di amore e una Chiesa che per lui non fu né madre né matrigna ma ritenuta cupa e feroce responsabile della propria infelicità di vivere.

    Nell’anno di grazia 2000, Giubileo della cattolicità mondiale, i gay italiani vollero tenere fede al rito annuale del Pride, manifestazione che di solito attraversa gioiosamente e senza eccessivi ingorghi le città designate. Il Vaticano, risentito per quella presenza giudicata offensiva in coincidenza con l’Anno Santo, chiese (e fu lì lì per ottenere dalle riverenti autorità capitoline) la proibizione di una marcia che invece non solo si tenne ma vide anche una inaspettata e strabordante partecipazione internazionale, sessualmente e politicamente originale e trasversale. Mai e poi mai i gay avrebbero potuto ricevere dono più gradito, pubblicità più gratuita, favore più generoso dai propri nemici.

    La “lezione dell’Anno Santo”
    La Chiesa imparò l’amara lezione e da quel momento fece molta attenzione a non mettersi più di traverso, almeno non in modo pubblico e risoluto. Il che naturalmente non vuol dire che rinunciò a predicare la peccaminosità del comportamento gay, a premere sulla politica perché non promuovesse i presunti diritti delle persone omosessuali e a mal vedere la pretesa esibizione di quell’identità che finalmente dichiara di essersi liberata dalle tenebre incatenatrici del silenzio e della vergogna.
    Quindi la Chiesa, e sopra a tutti il Papa, ha ribadito: i gay sono da compatire, perfino da accogliere e consolare ma nulla hanno di cui essere orgogliosi e se proprio insistono a essere quel che sono farebbero bene a mantenere una sicura castità.
    Facile gioco hanno gli omosessuali a rimproverare alla Chiesa e al suo sovrano contraddizioni evidenti, schizofrenie, bugie e doppie se non triple morali come già dieci anni fa Thomas Migge descrisse in “Può mai l’amore essere peccato?”, un invidiabile reportage in cui si narravano allucinatorie vicende umane di sacerdoti omosessuali.
    Ed essendo una guerra senza risparmio di colpi, una delle battaglie più cruente è stata combattuta negli Stati Uniti dove l’interdetto cattolico nei confronti del condom ha incattivito gli animi e una campagna capillare e maliziosa ha messo nei guai seri una parte non trascurabile del clero tanto da dissanguarne le casse, essendo quelli obbligati a pagare un risarcimento record a più di 550 persone riconosciute vittime di abusi sessuali da parte di sacerdoti.
    Daniele Scalise

    saluti

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    Predefinito Il partito scientista lo accusa di....

    ....legiferare conyto la verità

    Bene su ogm e trapianti, male quando si toccano i fondamenti dell’Essere

    La vita, il suo inizio e la sua fine, la tutela dell’embrione e l’eutanasia, con tutto quello che ne consegue in termini di ricerca scientifica e di pratica medica, di costrizione delle libertà del singolo e di evoluzione della società.
    E’ questo il terreno di scontro che per 25 anni ha opposto Karol Wojtyla a una parte dell’accademia scientifica del composito mondo laico: la bioetica.
    La critica laica a Giovanni Paolo II non quella di un atteggiamento complessivamente antiscientifico, l’apertura sulle biotecnologie agroalimentari (Ogm) e sugli xenotrapianti (trapianti di organi fra animali e uomini) costituiscono esempi significativi.
    Nemmeno, si potrebbe dire, quando il Papa proclama l’intangibilità dell’embrione in vitro in quanto persona a pieno titolo e non mero aggregato di cellule.
    Lo scontro si infiamma quando il Papa chiede che questo principio venga recepito nelle legislazioni.
    Per Tristram Engelhardt, cristiano ortodosso, filosofo libertario e medico, docente alla Rice University di Houston, Texas, tra fondatori della bioetica, ....

    ....“il Papa si è preoccupato più di influenzare le scelte dei legislatori che i cuori degli uomini. L’errore che gli imputo è di aver male utilizzato 25 anni che erano decisivi per la bioetica. Si è occupato più di politiche sanitarie che di far capire agli individui che i principi della bioetica cattolica avrebbero potuto cambiare le loro vite. Ha puntato sulle leggi e sulla ragione e non sull’amore e la santità. Probabilmente avrebbe mandato dei filosofi dei poliziotti persino nel Paradiso terrestre. Si è concentrato sullo Stato, sulla filosofia sulla ‘legge naturale’ che non ha nulla a che vedere con la volontà di Dio, ma è una mera impresa umana conforme agli interessi sociali del momento, uno strumento che giustifica comportamenti che sono culturalmente accettabili in un tempo contingente”.

    Le conseguenze di questo orientamento ai divieti imposti per legge, accusano i laici liberali o di sinistra come Demetrio Neri, Carlo Flamigni e Giovanni Berlinguer, si vedono soprattutto nella ricerca e nella sperimentazione. Non che queste vengano bloccate, è irrealistico, ma, operando in condizioni difficili (legislazione non favorevole carenza di finanziamenti) si sviluppano più lentamente e in condizioni peggiori, con tutte le conseguenze negative per le persone implicate: malati, handicappati, donne non fertili.
    Oltretutto legiferando così, accusano i laici, si instaura un darwinismo sociale basato sulle disponibilità economiche e sulle conoscenze, una discriminazione tra chi sa dove andare per accedere a certe tecniche o a certe pratiche e chi no.
    Il paradosso per Cinzia Caporale, responsabile della bioetica alla Fondazione Einaudi e membro del Comitato nazionale per la bioetica, è che il Papa “fonda questa sua intransigenza su argomenti che io laica non esito a definire biologisti, in un certo senso materialisti.
    Spesso la costruzione della posizione morale e l’affermazione di verità assolute si basano troppo fortemente sui dati scientifici che però, non dimentichiamolo, sono falsificabili, riformabili.
    Il valore dell’embrione, ad esempio, dipende davvero così fortemente dalla pretesa ‘perfetta’ continuità genetica con l’adulto? E poi se poi si scoprisse che questa identità genetica non esiste, avrebbe meno valore? E inoltre, non è materialistica una visione che scava nelle molecole, che giustifica divieti etici guardando al dettaglio della biologia, che cavilla su tecniche e composti chimici… Quella vaticana è talora una bioetica imponente che poggia su piedi d’argilla, la scienza procede e le verità scientifiche si stratificano.
    Sono più interessata all’antropologia, al fondamento teologico piuttosto che alla tutela religiosa della salute o alla spiegazione del mondo in termini molecolari ”.

    Il richiamo “eccessivo” sull’eutanasia
    Poi l’eutanasia. Il richiamo del Papa, dice Caporale, “è eccessivo”.
    “Qui si tratta di una persona gravemente sofferente, già in fin di vita, che fa i conti con la propria coscienza. Non riesco poi a comprendere le remore riguardanti il testamento biologico, che è tutt’altra cosa rispetto all’eutanasia. Si tratta di uno strumento che permette di lasciare le proprie volontà circa le terapie cui si vuole essere sottoposti se si dovesse perdere la capacità di intendere e di volere. Cioè delle preferenze del diretto interessato che nella sua autonomia magari vuole rinunciare al prolungamento forzoso e artificiale della propria agonia. Di un atto di umiltà. Il Papa dovrebbe piuttosto preoccuparsi della superbia tecnologica insita nel volersi aggrappare alla vita a tutti i costi con tutti i mezzi.

    Se poi pensiamo che anche Madre Teresa, che domani sarà beatificata, disse: ora basta, non curatemi più”.

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    Predefinito Le femministe, la donna,....

    .....la madonna

    Quell’imbarazzo di scontrarsi con un Papa fin troppo maschio

    Quando Karol Wojtyla, dopo essersi scusato “corigetemi se sbaglio” con la folla di piazza San Pietro, sbigottita dalla sua gioventù e dalla sua bionditudine polacca, si affidò a Dio e alla Madonna perché l’aiutassero a reggere quel peso immane, per “fortuna” era il 16 ottobre 1978 e la legge 194 sull’aborto era già in vigore da pochi mesi.
    Su quel tremendo diritto femminile, che per lui è radice di ogni violenza e di ogni guerra, inammissibile sempre, perfino per sgombrare il grembo di povere suore fecondate da stupratori etnici, tra lui e le donne, anche di fede, il dissidio resta assoluto. Ma se da un lato le più avvedute non pretendono più che il Santo Padre dica sì all’aborto, dall’altro egli sembra essersi ormai accontentato, da politico qual è, di riaffermare con saldezza il principio, ungendolo del crisma dell’infallibilità ma rinunciando alla battaglia per farne legge dello Stato.
    Questo muro, lo sa, non l’abbatterebbe.

    Dopo la bonomia di Giovanni XXIII, i tormenti montiniani, la bizzarria del Giovanni Paolo di passaggio, in Karol Wojtila le donne del 900 incontrarono perr la prima volta un Papa maschio, che dietro la sua neuta assolutezza rivela una grande capacità di imperio virile. U maschio robusto che scia, rampica, fa politica, prega con risolutezza, non transige, e invecchia come i maschi più testosteronici, spezzandosi violentemente sotto successive stroke.
    Il rapporto di Wojtyla con le donne è informato da questa forte impronta di genere, da una differenza sessuale su cui egli stesso edificherà, nella lettera apostolica Mulieris Dignitatem, 1988, la teoria geniale del "genio femminile". Un maschio così integrale e privo di dubbi suscita nelle donne sentimenti contraddittori, rabbia e cedevolezza, rivolta e fascinazione. La sua enoprmità storica mette soggezione, rivoluzionario e conservatore, contro il comunismo e le sregolatezze del capitalismo.
    Fa breccia il suo pacifismo furente, che zittisce perfino Dio.
    Di piazze femministe antipapa non se ne sono viste molte.
    Di più le nordiche. E le americane, suore e teologhe, che durante la visita negli Usa protestano violentemente contro la chiusura sul sacerdozio femminile (anch’essa decretata infallibilmente).
    Ma qui da noi, nell’occhio del ciclone seduttivo, poca roba.
    Otto parlamentari che non vanno ad accogliere il “nemico delle donne” durante la recente visita alla Camera. “E certo, le radicali”, ricorda Roberta Tatafiore: “Bonino, Aglietta, Parachini. Sulla questione dei diritti sessuali”.
    Nessuna concessione su contraccezione, omosessualità, divorzio, celibato dei preti.
    Fecondazione solo omologa, castità come unica profilassi contro l’Aids.
    Nessuna tenerezza per il corpo incline al piacere, da sfinire per i sentieri di montagne scabre perché l’anima possa più agevolmente liberarsene.
    E’ qui la quintessenza della maschilità wojtyliana.
    Un corpo, perfino il suo, malato, sfibrato, da esorcizzare con l’indifferenza, da trascinare da un capo all’altro del mondo contro il parere dei medici.
    Un fermo storico, quello sul corpo, mentre il mondo tutt’intorno accelera, e per sua stessa ispirata azione politica.
    Cadono regimi, si sfanno e rifanno confini. Ma i confini della morale sessuale non cedono e si rinsaldano.
    Una desensualizzazione del corpo che rende possibile, come nota Lucetta Scaraffia, una sorprendente confidenza fisica con le donne: “Le sue vecchie compagne di scuola le ha abbracciate. E’ stato mano nella mano con Madre Teresa”. Una foto del 1994 ritrae l’incontro di Wojtyla con la femminista Maria Antonietta Macciocchi. Lui le carezza il viso, lei gli sorride, in ginocchio, trasfigurata. Alla Mulieris Dignitatem Macciocchi dedica un’entusiasta esegesi nel suo “Le donne secondo Wojtyla”. La lettera è il climax del “femminismo” seduttivo di Giovanni Paolo II.

    Per la prima volta si parla di primato delle donne, di genio femminile, di differenza sessuale, idee che entrano in vertiginosa risonanza con la teoria femminista della differenza sessuale della francese Luce Irigaray.
    Angelo Scola, attuale patriarca di Venezia, ricorda Franca Fossati, che al “Papa maschio” dedicò una cover di Noi donne, “aveva studiato il femminismo della differenza. Molta linfa fu presa da lì”. Rosa Rossi, autrice di saggi su Teresa D’Avila e Giovanni della Croce, insieme a Ida Magli Magli è tra le poche a resistere: “Quel grazie alle donne occulta l’oppressione femminile, non va accettato.

    Quella donna geniale, modello per tutte, è la Madonna.
    Non la Maria di carne, ma un pensato di uomo”. Fin troppo banale vedere nel marianesimo di Wojtyla “totus tuus”, affidato alle mani di quella Madre che a suo dire interviene perfino a deviare la pallottola di Ali Agca, l’ipostatizzazione della memoria di una madre scomparsa quando Karol aveva 8 anni. L’immagine di suo padre che si alzava la notte a dire il rosario, mischiando in sé la fede e una struggente nostalgia notturna per il corpo accogliente della moglie. Una solitudine maschile che in questa dea madre depotenziata e addomesticata colloca ogni consolazione.
    Luisa Muraro, studiosa di mistica femminile, si lamenta di “questi uomini così attaccati a Maria, che le tolgono l’aria, come se volessero accaparrarsela”.
    Anche se in verità, dice, la recente visita del vecchio Papa malato alla Madonna di Pompei l’ha sinceramente commossa.

    Marina Terragni

  6. #6
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    Predefinito La deriva....

    ....americana

    Attorno ai preti pedofili una guerra a Roma, ai dogmi e ai sacramenti


    Forse non sarà la ultima spina di Papa Wojtyla, ma certamente lo scandalo che ha colpito la Chiesa cattolica americana nel 2002 è stata una delle ferite più profonde del suo lungo pontificato. Nell’aprile dello scorso anno convocò tutti i cardinali americani a Roma esprimendo il suo dolore alle vittime per “questo peccato orrendo agli occhi di Dio”.
    I casi di preti accusati di omosessualità o pedofilia sono infatti molte centinaia e diversi vescovi – almeno nove sono stati costretti a dimettersi per scandali personali. Molte diocesi sono state condannate a pagare decine di milioni di dollari e la mole dei casi all’esame dei tribunali continua ad aumentare.
    Proprio in questi giorni di festa, il Papa è ritornato ancora sul doloroso argomento invitando i vescovi a essere, “fermi, tempestivi, giusti ed imparziali” nei confronti di crimini commessi da sacerdoti.
    Uno degli attori principali di questo dramma è stata la stampa che ha attaccato non solo la gerarchia cattolica ma anche la dottrina e la morale cattolica con una tale violenza che, se fosse stata rivolta contro altre comunità religiose o istituzioni o minoranze razziali, non sarebbe stata tollerata.
    Ma il pregiudizio anticattolico resta negli Stati Uniti l’unico pregiudizio “politicamente corretto”. Le firme più importanti del giornalismo si sono improvvisamente scoperte dottori in teologia, morale e storia e hanno discettato sul futuro della Chiesa.
    Si è discusso su quali dogmi eliminare e sull’effetto negativo dei sacramenti (la confessione istillerebbe lassismo morale).
    Il rigido universo calvinista senza perdono, la mentalità massone dell’uomo che si autocrea e la stampa in gran parte di sinistra: tutti si sono uniti per spiegare alla chiesa cattolica che fare.
    Quale la loro diagnosi finale?
    Il problema non è né l’omosessualità e neanche la pedofilia: la colpa è del celibato e del voto di castità che Wojtyla “si intestardisce” a mantenere.
    La soluzione? Eliminare celibato e castità, accettando preti sposati e preti omosessuali “praticanti”, riformando quindi radicalmente la morale e la tradizione cristiana.
    Questo è proprio quello che gran parte della Chiesa anglicana sta facendo, ordinando come vescovi candidati che vivono apertamente con un partner omosessuale. Che questa sia la strada da percorrere è cosa dubbia: nonostante queste misure così “moderne”, la Chiesa anglicana sta gradualmente sparendo e fiorisce ormai solo nei paesi del Terzo mondo (però in versione ultraconservatrice).
    Per dimostrare che la connessione tra celibato e pedofilia è fasulla, basterebbe ricordare la quantità astronomica di abusi sessuali nelle famiglie o come i circoli pedofili richiamino insospettabili signori con moglie e prole.
    Si parla poi di pedofilia, ma in realtà si tratta di omosessualità: gli abusi sessuali contestati ai preti si riferiscono infatti per la stragrande maggioranza non a bambini ma a relazioni con adolescenti o minorenni. Tuttavia il dolore di Wojtyla ha una radice più profonda: l’attacco alla dottrina cattolica proviene infatti dal cuore della Chiesa stessa.
    Morto il cardinal Bernardin, per anni grande manovratore della Conferenza episcopale americana; caduto l’arcivescovo Weakland per una relazione omosessuale venuta alla luce, la guida dell’ala liberal della Chiesa americana è passata al cardinale di Los Angeles, Roger Mahony.
    Convinto che la Chiesa debba allinearsi ai tempi, Mahony ha istituito un “Ufficio per gay e lesbiche” (unica diocesi americana a farlo) e ha dichiarato che bisogna studiare come le coppie gay o lesbiche possano “avere accesso a certe prerogative e benefici che spettano alle coppie unite da un contratto matrimoniale” (The “Limit on Marriage” Initiative, 1999).
    Il direttore di quest’ufficio sostiene che “non permettere a un omosessuale l’unione con un altro essere umano è una violazione della nostra natura”. Il cardinale di Los Angeles recentemente ha dato il via a una serie di discussioni tra i preti sul “celibato opzionale”.
    Mahony è anche il grande protettore di Gerald Coleman, rettore del seminario di San Francisco, per il quale ha scritto una introduzione piena di lodi al suo libro “Homosexuality”.
    Coleman sostiene, contraddicendo Ratzinger, che “l’omosessualità, essendo un fatto naturale, non è un disordine morale” (“The Vatican Statement on Homosexuality”, Theological Studies, 1987).

    Anche un altro seminario americano, quello di Chicago è governato da un rettore di matrice simile a quella di Coleman, John Canary. Se si pensa che circa quarantacinque diocesi americane mandano i loro seminaristi a studiare a San Francisco e altre cinquanta a Chicago, si puo capire la dimensione del problema: più del cinquanta per cento delle diocesi americane invia seminaristi in due seminari dove si insegna che la vita gay è naturale e non un disordine.
    E il problema è presente anche in tanti altri seminari di minori dimensioni.
    Se l’insegnamento e l’atmosfera nei seminari non verranno corretti, la Chiesa potrebbe trovarsi a guardare con nostalgia alla crisi del 2002. Le nuove nomine papali di cardinali si inseriscono su questo sfondo: il neo cardinale di Philadelphia, Justin Francis Rigali, è infatti intimo amico di Mahony fin da quando erano seminaristi.
    Rigali non si è finora pronunciato sulle questioni di fondo, e vanta una buona “salatio” romana: ma se si allineasse a Los Angeles vi sarebbe il rischio di una deriva della Chiesa americana su posizioni sempre più lontane da Roma e dalla tradizione. Questa la spina che trafigge Giovanni Paolo II: dietro questa crisi vi è una volontà evidente di smantellare elementi centrali della tradizione per creare un nuovo tipo di Chiesa in linea con lo Zeitgeist.
    Già alcuni anni fa il cardinale Bernardin aveva parlato della crisi delle vocazioni come di una opportunità per smantellare il vecchio edificio ecclesiastico e ricostruirlo su basi nuove: insomma, lasciamo bruciare la suburra per ricostruirla più bella e più moderna. Questi atteggiamenti richiamano le parole di Ralph Waldo Emerson, vate dell’americanismo: “Dio costruisce il suo nuovo tempio nei cuori sulle rovine delle Chiese e delle religioni”.
    Il Papa invece per il futuro non vede “rovine di chiese” e ha concluso con queste parole l’incontro con i cardinali Usa: “Tanto dolore, tanto dispiacere, deve portare a un sacerdozio più santo, a un episcopato più santo e a una Chiesa più santa”.

    saluti

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    Predefinito I cori di Managua e....

    ....il prete sandinista

    Gutiérrez, Boff, Betto. Dai successi di Medellin al vento polacco di Puebla

    La teologia della liberazione non è solo conveniente ma utile e necessaria”.
    Chi l’ha detto? Non Ernesto Cardenal: il pretepoeta che da ministro sandinista della Cultura, durante la visita di Giovanni Paolo II in Nicaragua del marzo 1983, si vide rimproverare in pubblico: “Usted tiene a reglar su posición con la Iglesia”, gli disse con l’indice destro puntato il Papa, ai cui piedi Cardenal si era inginocchiato.
    Fu l’inizio di un’escalation che avrebbe visto successivamente il Papa attaccare la “Chiesa popolare” filosandinista durante la messa; venire contestato dalle madri dei “martiri della rivoluzione”; gridare loro “silencio, silencio!” mentre agitava la mano coi fogli dell’omelia; non rivolgere la parola al capo della giunta sandinista Daniel Ortega in un quarto d’ora di attesa fianco a fianco all’aeroporto.
    L’anno dopo il governo di Managua avrebbe ordinato l’espulsione di dieci sacerdoti stranieri e l’arresto di uno nicaraguense, mentre nel 1985 Cardenal e gli altri due religiosi ministri sarebbero stati sospesi a divinis.
    Proprio ricordando questi eventi, di recente Daniel Ortega ha offerto le sue clamorose scuse.
    Ma Ortega ora è il leader di un Fronte sandinista che da tredici anni cerca di tornare al potere per via elettorale, mostrando un nuovo volto moderato.

    La frase sull’indispensabilità della teologia della liberazione non risale neppure a Leonardo Boff, il teologo brasiliano condannato dal Vaticano nel 1985.
    Né a Gustavo Gutiérrez, il peruviano che dell’intera teologia della liberazione è un po’ il padre, e che è finito sotto processo tra il 1983 e l’84.
    No. Che “la teologia della liberazione è non solo utile e conveniente ma anche necessaria” l’ha detto lo stesso Giovanni Paolo II.
    Nella Lettera indirizzata alla Conferenza episcopale brasiliana il 9 aprile 1986: seguita d’altronde di pochissimo al documento
    “Istruzione su libertà cristiana e liberazione” con cui nel marzo di quello stesso anno si era notevolmente ammorbidita la dura condanna contenuta nella “Istruzione su alcuni aspetti della teologia della liberazione”, del settembre 1984.
    Si noti bene il dettaglio: “alcuni aspetti”.

    Il principale di questi aspetti era il marxismo: non solo nel senso della sua adozione come strumento di analisi, ma anche come apprezzamento positivo o addirittura adesione a esperienze statuali facenti riferimento al socialismo reale.
    Idea che Wojtyla vedeva come il fumo negli occhi, prima ancora che come pontefice, come polacco, figlio di una nazione vittima del totalitarismo nazista e sovietico.
    Ma va detto che su questo punto la stessa teologia della liberazione si presenta divisa.
    Per un Frei Betto autore di un libro-intervista alla Gianni Minà su Fidel Castro e la religione, c’è pure un Gutiérrez che nel 1990 ha appoggiato pubblicamente la candidatura di Mario Vargas Llosa e che ha sempre detto di considerare la sua opzione per il “socialismo” in chiave puramente pragmatica.
    “L’importante è combattere la povertà”, ha spiegato. “Se un governo riesce a combatterla grazie al liberismo, allora viva il liberismo”.
    Forse più insidioso ancora del marxismo in sé, dal punto di vista di Giovanni Paolo II, era però il tentativo di regimi e partiti di utilizzare la teologia della liberazione per spaccare la gerarchie e i fedeli su opzioni che finivano per opporre una “chiesa popolare” alla “Chiesa di Roma”.
    C’è il precedente della “Chiesa patriottica cinese” che ha sospinto i fedeli nella clandestinità; prima ancora nel tempo, il modello di riferimento è lo scontro con la Rivoluzione francese sulla Costituzione civile del clero.

    Il paradosso del buon rapporto con Cuba
    Di qui il paradosso che ha visto Giovanni Paolo II scontrarsi duramente con Ortega, che aveva inserito Dio nella Costituzione sandinista e manteneva comunque un certo margine di pluralismo politico ed economico, mentre invece ha gestito con aplomb impeccabile il difficile doppio incontro di Roma e dell’Avana con Fidel Castro: ateo dichiarato fino al punto di interdire il Natale, nonché totalitario compiaciuto e non pentito.
    Fidel ha spedito in galera più di un prete e ha perfino infiltrato vari doppi agenti in tonaca. Ma non ha mai preteso di seminare zizzania: né obbligando i vescovi a costituirsi in una “Chiesa cattolica patriottica cubana”, e neanche nominando ministri i preti contestatari dei vescovi a lui ostili.
    Il resto è storia. La parabola della teologia della liberazione il cui culmine fu la Conferenza generale dell’episcopato latinoamericano di Medellin nel 1968 andò a sbattere alla Conferenza di Puebla (1979) con il vento nuovo polacco.
    Joseph Ratzinger e la storia degli anni 80 fecero il resto.

    Maurizio Stefanini

    saluti

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    Predefinito Martini, Danneels, Kasper, Lehmann...

    ..... e il ribelle O’Brien: todos cardinales

    Quello di Giovanni Paolo II è stato letto da molti osservatori come un pontificato di “restaurazione” in senso conservatore dopo le sbandate liberal del post Concilio.
    E in questa sua opera Karol Wojtyla ha voluto al suo fianco, fin dal 1981, il cardinale Joseph Ratzinger cui ha affidato il compito di custode dell’ortodossia, di prefetto della Congregazione per la fede.
    Ed è stato proprio il porporato bavarese, che non a caso è il più longevo tra i stretti collaboratori wojtyliani, a difendere e mantenere in questi ventidue anni la “linea” del pontificato.
    Un campo dove la linea di difesa ha funzionato pressoché alla perfezione è stato quello della teologia della liberazione (Tdl), che fu “sterminata”, in senso ecclesiastico ovviamente.
    Su altri campi invece Giovanni Paolo II ha adottato una politica più morbida, di cooptazione si potrebbe dire, nel tentativo di riassorbire le correnti ecclesiastiche potenzialmente più “pericolose” riguardo ad alcuni temi qualificanti del suo pontificato, come alcuni aspetti della morale e della cosiddetta “collegialità”.
    E’ stato infatti lo stesso Wojtyla a promuovere al cardinalato figure che su questi temi sono state percepite come contrarie rispetto alla sua linea.
    Basti pensare a Carlo Maria Martini che per anni, quando era ancora arcivescovo di Milano, è stato dipinto come il candidato anti-wojtyliano per il dopo-Wojtyla e che aveva velatamente auspicato un terzo Concilio Vaticano per una svolta più collegiale alla Chiesa.
    Oppure al porporato belga Godfried Danneels, arcivescovo di Bruxelles, che alcune settimane fa ha paventato l’ipotesi di una curia romana laicizzata in cui i ruoli direttivi potessero essere affidati anche a delle donne.
    Oppure ai due cardinali tedeschi Walter Kasper, già vescovo di Stoccarda e ora “ministro dell’ecumenismo” a Roma, e Karl Lehmann, vescovo di Magonza, i quali non molti anni fa si sono mostrati più che possibilisti riguardo alla riammissione alla comunione dei divorziati risposati, laddove invece Wojtyla ha sempre mantenuto sull’argomento una linea di ferma intransigenza.
    Kasper poi negli anni scorsi è entrato in polemica diretta con Ratzinger su un tema apparentemente astruso, come quello della priorità ontologica tra la Chiesa universale e le Chiese locali, ma dalle comprensibilissime ricadute concrete. In pratica Kasper si è dichiarato a favore di una “devolution collegiale” nei confronti delle Conferenze episcopali, mentre Ratzinger ha difeso a spada tratta la centralità del ruolo della curia romana.
    Qualche settimana fa, poi, anche Lehmann ha dialettizzato con il braccio destro di Papa Wojtyla, criticando i giudizi negativi che Ratzinger aveva dato sull’ultimo raduno dei cattolici tedeschi Katholichentag.

    Personalità influenti sull’intellighenzia
    Martini, Danneels, Kasper, Lehmann, sono tutte personalità di un livello superiore alla media, sono teologi sofisticati che hanno grande presa sull’intellighenzia cattolica, ma che, almeno finora occupavano una posizione sensibilmente minoritaria all’interno del Sacro Collegio degli elettori del Papa. Ma dopo il Concistoro di martedì prossimo il numero dei porporati che si riconoscono in questa componente più liberal crescerà sensibilmente. Riceveranno la berretta con la porpora infatti vecchie volpi progressiste della Curia Romana, come Francesco Marchisano, che ha imposto condizioni particolarmente onerose per celebrare la vecchia messa in latino nella basilica vaticana di cui è arciprete, oppure come il giapponese Stephen Fumio Hamao, “ministro vaticano dei migranti”, che un paio di anni fa firmò un appello di vescovi ultraprogressisti per la convocazione di un nuovo Concilio. Sempre il 21 diventeranno poi cardinali anche titolari di diocesi di tendenza simile, come il francescano spagnolo Carlos Amigo Vallejo, arcivescovo di Siviglia, e soprattutto lo scozzese Keith Michael Patrick O’Brien, arcivescovo di St. Andrews ed Edimburgo.

    Quest’ultimo è da sempre favorevole all’abolizione del celibato
    ecclesiastico e per una politica più tollerante nei confronti dei contraccettivi e dei sacerdoti e vescovi gay.
    Tutte posizioni chiaramente in contrasto con la “linea” wojtyliana. Dieci giorni fa O’Brien è stato obbligato da Roma a recitare pubblicamente una solenne professione di fede in cui ha anche promesso si difendere “sempre e dovunque” la posizione ufficiale della Chiesa proprio sui temi del celibato, della contraccezione e dell’omosessualità.
    Senonché ieri l’altro ha concesso una intervista al Daily Telegraph in cui ha ribadito che per lui la questione del celibato rimane una questione aperta.

    saluti

  9. #9
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    Predefinito Comunisti e post non gli perdonano....

    di avergli reso la vita molto difficile

    Più anni passano dal 1989, più evidente diviene una contraddizione.
    Karol Wojtyla è il Papa che ha condotto alla sua fine il comunismo, come modello storico riconosciuto sovrano indiscusso di una parte del mondo.
    Eppure proprio tra molti sedicenti comunisti si dichiara simpatia e sostegno al modo con cui Giovanni Paolo II esercita il suo magistero su temi come il mercato o la guerra.
    Ai miei occhi di povero laico liberale “berlisniano”, per capirlo bisogna far piazza pulita di un’incomprensione radicale che perdura, su “questo” Papa, sul campo comunista e post.

    La prima radice ha a che fare con l’ipocrisia del comunismo occidentale. Esso proviene da una storia illuminista di utopia collettivista e razionalista, che ha creduto che la “raison a toujours raison” marxiana fosse la diretta filiazione del Geist hegeliano e del “non esiste l’individuo, solo la collettività” fichtiano.
    Si è poi immedesimato nell’unico comunismo vero – quello realizzato e costruito sul dominio della terra e del sangue da Lenin e dai suoi imperiali successori – e alla sua caduta la variante occidentale se ne è ritratta riscoprendo le proprie origini – con “vie nazionali” e togliattismi di maniera – per continuare poi a definirsi comunista malgrado il crollo dell’impero realizzato.
    E’ questo, il comunismo che di Wojtyla applaude il presunto antioccidentalismo, per restarne nemico dichiarato invece in campo etico.
    Un comunismo tutto radical-chic e occidentalista, una sparuta minoranza di fanatici incroci tra le facezie di Voltaire e i roghi di Giovanni di Leida: alla Paolo Flores d’Arcais per intenderci.

    Niente di tutto questo è paragonabile invece al campo del comunismo vero, quello irriducibile ad altro che al bolscevismo e a suo sanguinoso impero transcontinentale.
    Quell’impero è stato sconfitto dal piccolo Lolek e dalla sua croce indomita, nel nome della più grande tradizione non solo spirituale, ma nazionale e popolare incarnata dal suo primo maestro, quell’Adam Stepan Sapieha, discendente delle più nobili famiglie polacco-lituane, che Giovanni Paolo II indicherà non a caso come “vero re senza corona della Polonia”.
    Della drammaturgia giovanile wojtyliana a molti è cara “La Bottega dell’orefice”, così appealing nei suoi temi dell’amore.
    Ma ho sempre pensato che sia nel “Fratello del nostro Dio”, invece, il fondamento.
    Nello scontro tra Adamo-Frate Anziano e lo Straniero, quest’ultimo è Lenin, e la confutazione della rivoluzione in nome di una solo sedicente libertà già in quel testo è assoluta, insuperabile.
    Una confutazione che non si nutre solo del primato della persona sull’utopia della storia cui gli uomini possono per il comunismo essere tranquillamente sacrificati.
    Ma che è fatta della tradizione, di terra, cultura, lingua e nazione.
    Per questo, per “Lolek” Jalta fu e rimase sempre un errore inaccettabile, una resa ingiustificata.

    Da parroco a vescovo polacco, non ha condiviso mai il realismo con cui il primate Wyszynski trattava con le autorità del regime polacco, neppure quando l’esito amaro dell’esperienza più barricadera di Midzentsky in Ungheria nel 1956 sembrò confermare che ad alzare troppo la testa si rischiava poi una persecuzione ancor più dura dopo la sconfitta.
    Non ha condiviso la versione petrina del realismo andreottiano per cui l’Europa era e sarebbe rimasta divisa, quella versione che rendeva Paolo VI e il suo cardinale Casaroli con la loro Ostpolitik idoli dei comunisti occidentali, il primo esangue maritainiano a un passo dal cedere alla crisi di senso della modernità, il secondo teorico di accordi minimalisti coi regimi in cambio di qualche concessione.
    Wojtyla seppe dare schiaffi all’Europa della grandeur che trattava con Mosca e Varsavia anche solo da povero vescovo.

    Nel 1967, quando de Gaulle tributò il suo omaggio a Gomulka, non si recò dal primate per non offendere il regime, ma chiese appuntamento al vescovo Wojtyla.
    Questi lo fece ricevere dal sacrista, e lo mise alla porta.
    E volete che un uomo così, al Cremlino, non sapessero dalla notte stessa della sua elezione, che era la vera e letale minaccia all’impero comunista?
    Assai più temibile dello stesso scudo stellare di Reagan.
    Dopo lo schiaffo della lettera a Brez¡nev del Papa e della prima delegazione ufficiale di Solidarnosc ricevuta a San Pietro, che nell’autunno inverno dell’80 lanciarono l’ultima battaglia nella guerra contro l’impero rosso, il compagno Andropov – uno che sapeva il fatto suo di minacce all’impero e come sventarle – decise che a mali estremi solo estremi potevano essere i rimedi.
    Il killer era abile. Ma fallì.
    Gli unici comunisti veri sono quelli che ammettono che Lolek li ha sconfitti.
    Non una volta. Per sempre.
    Oscar Giannino

    saluti

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    Predefinito

    Non attraversa un periodo felice, il dialogo ecumenico tra Vaticano e Chiesa d’Oriente. I contrasti col patriarca russo, Alessio II, che accusa i cattolici di proselitismo in terra ortodossa, non accennano a rientrare. Ultima “pietra dello scandalo” in ordine di tempo, la decisione vaticana di elevare a diocesi le amministrazioni apostoliche di Astana e Almaty, in Kazakistan. Una dichiarazione di ostilità, a giudizio del patriarcato russo, che già in passato aveva protestato per l’istituzione di diocesi cattoliche a Mosca, Novosibirsk e Karaganda.
    Il Vaticano, da parte sua, nega di fare opera missionaria in terra russa, e sostiene che i suoi fedeli sono parte di minoranze esistenti dai tempi degli zar, uscite dalle catacombe dopo la caduta del comunismo.
    L’accusa di proselitismo è il macigno per ora inamovibile sulla strada della realizzazione del grande desiderio del Papa polacco di visitare la Russia, terra di martiri cristiani strappata alla dittatura anche grazie a lui.
    Sta di fatto che Wojtyla ha dovuto rinunciare al viaggio in Mongolia, durante il quale avrebbe voluto fare tappa in terra russa, nella speranza di poter incontrare Alessio II. “Questo viaggio così desiderato non è nei disegni del Signore”, ha concluso Giovanni Paolo II, e la sua è suonata quasi come una dichiarazione di resa.
    La rottura diplomatica tra la Prima e la Terza Roma si riverbera in tutto il mondo che fa riferimento al patriarca moscovita. Dopo l’espulsione dalla Russia di alcuni preti cattolici e di un vescovo, poche settimane fa, un altro gravissimo episodio. La Chiesa ortodossa georgiana, attraverso il suo capo, l’arcivescovo Zenone, si è opposta alla conclusione di un trattato tra l’ex Repubblica sovietica e la Santa Sede per la regolamentazione dei rapporti con la minoranza cattolica. All’ultimo momento, ad accordo concluso e con la delegazione vaticana già nella capitale, il governo ha negato la firma, pressato dalle manifestazioni scatenate dall’appello di Zenone contro un trattato che avrebbe consentito “al Vaticano di rafforzare la propria influenza in Georgia, di costruire un numero indefinito di chiese e di fondare seminari”.
    Sono i sintomi più clamorosi dell’ostilità a un Papa che, nel mondo del cristianesimo orientale, molti considerano un politico più che un pastore d’anime.

    Non è un caso, se la prima visita di Giovanni Paolo II in un paese ortodosso, la Romania, poté avvenire soltanto nel giugno del 1999 (era il suo ottantaseiesimo viaggio), dopo più di vent’anni di pontificato.
    In quell’occasione, il presidente Constantinescu riuscì a convincere il riluttante patriarca Teoctist a invitare il Papa a Bucarest. Ma Teoctist non volle che il pontefice visitasse le zone, come la Transilvania, in cui vivono gli uniati (fedeli al Papa di Roma ma di rito ortodosso, altro motivo di contenzioso con Alessio II, che accusa gli uniati ucraini di ostacolare, anche con violenza, gli ortodossi).
    Giovanni Paolo II si è potuto recare in paesi a maggioranza ortodossa semplicemente in qualità di capo di Stato estero, invitato dai governi, e mai come autorità religiosa.
    E’ andata così anche per la visita in Georgia, in Kazakistan e in Armenia, e in quelle, recentissime, in Azerbaigian e in Bulgaria. Qui, non nella capitale ma a Veliko Tarnovo, non sono mancati manifesti ostili al “Papa eretico”.
    Ed è ancora niente, a confronto con quello che è avvenuto nel 2001 all’arrivo del pontefice in Ucraina, con il metropolita Volodymyr che abbandonò polemicamente e platealmente la capitale.
    Lo stesso patriarca di Atene, Christodoulos, nel 2001 aveva dovuto fare buon viso a cattivo gioco su pressione del governo greco, revocando in extremis il veto stabilito nel 1999 ai viaggi papali.
    Quando, sull’Areopago dove aveva predicato Paolo di Tarso, il pontefice chiese scusa per il saccheggio di Costantinopoli nel 1204 dai parte dei crociati, Christodulos diede il via a un applauso liberatorio che sembrò sancire una svolta svolta positiva.
    Oggi, nonostante esista, in Grecia, una minoranza assimilabile ai “vecchi credenti” russi, irriducibilmente ostili a qualsiasi apertura alla Chiesa di Roma, sembra più forte il partito del dialogo con Roma. Partito che può contare soprattutto sul patriarca di Costantinopoli, Bartolomeo I, primus inter pares del mondo ortodosso.
    Che, pur non negando i problemi aperti con la Chiesa d’Occidente (di cui ha parlato diffusamente in un’intervista al Foglio, lo scorso 8 maggio), nel suo messaggio d’augurio per i venticinque anni di pontificato di Karol Wojtyla ribadisce che “malgrado i momenti difficili, siamo sempre disposti a proseguire il dialogo per la piena unione, perché, come dice Luca, quello che è impossibile per gli uomini è possibile per Dio”.

    Nicoletta Tiliacos

    saluti

 

 
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