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    Predefinito Scuola Italiana : Anno Zero

    Mandato da Il Pungolo Venerdì, 17 Ottobre 2003, 11:53 uur.
    Non basta annunciare una riforma, bisogna fare in modo che attecchisca in un terreno fertile,quale,purtroppo non è oggi la società in cui viviamo
    Bisogna poi rimotivare tutti gl’insegnanti, trasformando gradualmente molti di loro da impiegati parastatali a liberi professionisti, pagandoli di più in base ai meriti conseguiti sul campo
    di Renato Tubère - www.ilpungolo.com


    Charles Peguy, scrittore francese particolarmente attento all’impatto del cattolicesimo con la società in cui visse, nel 1903 scriveva così: “Le crisi del sistema scolastico sono crisi di civiltà.”
    La legge delega 28 marzo 2003 n. 53, altresì nota come riforma Moratti, approvata in Parlamento a larga maggioranza, sembra ispirarsi a queste parole ponendosi obiettivi di fondo piuttosto ambiziosi, che provo a riassumere.
    Uno di questi è senza dubbio la libertà di scelta fra indirizzo statale e privato/paritario, senza i pesanti condizionamenti economici del passato prossimo e remoto, ma con un progetto concreto da realizzare.
    Mi riferisco alla nascita di una vera e propria filiera dell’istruzione nazionale, che abbia come capisaldi irrinunciabili il ritorno all’insegnamento nelle aule scolastiche delle materie fondamentali per ogni allievo e la rivalutazione della formazione professionale regionale.
    Questo segmento è ritenuto indispensabile, per costruire un rapporto finora mai esistito con il mondo del lavoro, soprattutto in sede europea, come dimostra la direttiva sottoscritta da tutti i ministri dell’Istruzione a Copenhagen nel novembre del 2002.
    Per farcela il sistema scolastico italiano deve tornare ad educare, vale a dire fare ogni sforzo lecito per inserire nella realtà quotidiana l’allievo attraverso contenuti e metodi di sapere al passo coi tempi.
    Bisogna poi rimotivare tutti gl’insegnanti, trasformando gradualmente molti di loro da impiegati parastatali a liberi professionisti, pagandoli di più in base ai meriti conseguiti sul campo.
    Una democrazia che voglia essere protagonista effettiva dell’era della globalizzazione deve battersi a tutti i costi perché le famiglie investano liberamente per l’educazione dei propri figli.
    Non basta però annunciare una riforma, bisogna fare in modo che attecchisca in un terreno fertile, quale purtroppo non è oggi la società in cui viviamo.
    Qui, infatti, casca l’asino! La crisi della famiglia, causata dalla decadenza protrattasi nel tempo di valori come la fiducia ed il rispetto reciproco fra i suoi componenti, sta creando nuovi protagonisti in negativo della società civile italiana.
    Basta pensare alla figura del liceale odierno: un adolescente amorfo perché abbandonato dai suoi genitori al pascolo perenne fra videogames, telefonini e vacanze cosiddette di studio, mai abituato a dialogare, a confrontarsi, ad imparare qualcosa di utile dai suoi cari.
    I principali artefici di tale disfatta, i genitori appunto, per scaricare la propria coscienza credono al valore taumaturgico della semplice iscrizione ad un liceo: l’adolescente in questione ne dovrà uscire, secondo le loro insane intuizioni, promosso a pieni voti e pronto a frequentare un qualsiasi corso di laurea nella più vicina sede universitaria.
    Ecco come il mitico Sessantotto, fortemente rimpianto nel discusso film “The Dreamers” dal regista Bernardo Bertolucci, ha ridotto la scuola italiana: ad una fabbrica costosa quanto inefficiente di disoccupazione giovanile, di illusioni pericolose da spegnere, d’indottrinamento e non di educazione alla vita!
    Il governo Berlusconi ha il dovere adesso di rilanciare, sul piano culturale, il diritto allo studio, e di valorizzare i primi contatti dello studente col mondo del lavoro.
    Oggi meno di un italiano, fra i 25 ed i 64 anni d’età, dispone di un diploma di scuola secondaria.
    Il deserto delle idee, creato da chi ha malgovernato tanto a lungo il mondo dell’istruzione, deve lasciare il posto ad un giardino: ma troveremo oggi braccia e menti disposte a farlo rifiorire?

  2. #2
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    Predefinito La guerra fra poveri tra precari vecchi e nuovi

    Mandato da Manuela Pozzolini Venerdì, 17 Ottobre 2003, 11:54 uur.
    «E’ mia profonda convinzione che, ogni qualvolta si presenti l’occasione di praticare dell’umorismo, sia un dovere sociale far sì che tale occasione non vada perduta.» (Carlo Maria Cipolla)
    Donne incinte che svengono; signore scarmigliate che salgono su instabili panchine di legno smagliandosi le calze e smoccolando; uomini, rari, che camminano svagati vestiti nelle fogge più impensate, magari calzoni corti e calze lunghe… Che sia un gruppo di profughi al momento della distribuzione dei viveri da parte di generosi volontari? No, è una massa di precari il dì delle nomine, nel quale si decide la sorte di ciascuno per l'anno scolastico.
    Ricordo ancora il giorno in cui assunsi il primo incarico di questo tipo per insegnare “lettere negli istituti di istruzione secondaria di II grado”: 5/10/’98 e sul mio diario è scritto «giornata campale!». La lista delle scuole disponibili, attaccata a una porta, era stata aggiornata al giovedì precedente, quindi posti appetibili potevano già essere stati occupati da altri colleghi; l'appello, invece delle 9.30, è cominciato alle 10.20, ma la mia classe di concorso ha iniziato la scelta effettiva dopo le 11; io ero la 45° circa fra i 200/300 convocati della nostra chilometrica graduatoria A050. Mi sono seduta a decidere della mia sorte che erano quasi le 16 – avrei preso anche un posto come docente ad Alcatraz, a quel punto –; ormai c'era poco da pensare poiché rimanevano due sole opportunità: ho puntato il dito alla cieca su una e mi sono trovata benissimo, cosicché in questi sei anni di precariato vi sono ritornata altre due volte.
    Nel '99 si ripete il solito mercato. L'appello parte sempre in ritardo, si rivedono le stesse facce: la professoressa di mezza età accompagnata dal marito; quella, con mamma al seguito, che tiene informata la nonna dello sviluppo della situazione tramite cellulare; due anziani genitori che si aggirano smarriti con la delega della figlia… Intanto, l'ansia sale perché, essendo anche nel '99 fra le ultime a scegliere, i colleghi più avanti in graduatoria occupano i posti su cui avevi appuntato lo sguardo cupido.
    Sono le occasioni in cui ti chiedi chi te l'ha fatto fare di uscire dal piccolo, angusto mondo dell'istituto privato in cui sei stata per nove anni. La risposta è semplice: Berlinguer. È lui, novello Copernico, che ha un'idea rivoluzionaria: fino alla metà circa degli anni '90 insegnare, per esempio, sei mesi in una scuola statale dava un punteggio pari a quello che si aveva stando in una privata. Così un anno valeva 12 e il precario vive sì per lo stipendio, ma, soprattutto, agogna a questi punti che sono quelli che gli consentono, a mano a mano che si aggiorna la graduatoria, di avanzare per ambire al ruolo. Il ministro statuisce che un anno nel privato dà sei tacche, ma nello Stato 12; però la legge ha funzione retroattiva, sicché mi vengono tolti la metà dei punti che mi avevano già conteggiato e io, alla fine di questa esperienza, quando decido di compiere il grande salto, credevo di aver insegnato nove anni, invece ne ho prestati, in soldoni, quattro e mezzo.
    Convinta che in quasi tutto nella vita si possa vedere il positivo, colgo l'occasione per uscire da una piccola scuola, dove ero apprezzata, per mettermi alla prova. Non cambio di un ette il mio comportamento, le relazioni con gli studenti, l'impegno, la preparazione pomeridiana delle lezioni e tutto fila liscio.
    Nel frattempo, dal momento che avevo superato il concorso ordinario nelle materie letterarie, mi iscrivo a quello riservato per conseguire un'altra abilitazione, in filosofia e storia. Perché mi sottopongo a un simile tour de force in un periodo in cui soffro di un’ernia inguinale? Per il punteggio, ovviamente, dato che questo ulteriore attestato mi fa salire di tre gradini.
    Intanto i precari vengono divisi in fasce, A, B, C e D, come le squadre di calcio; io sto nella terza, non nella seconda, perché nel lasso di tempo fissato ho accumulato meno – pochissimo, ma meno – dei 360 giorni nelle scuole di Stato che sono il discrimine per la collocazione nelle zone d'eccellenza, A e B appunto, oppure fra i reietti.
    E veniamo ad oggi: il bravo prof viene solo dalle scuole di specializzazione; il cosiddetto sissino, dopo la laurea, sostiene una selezione, si iscrive alle succitate, pagando per due anni, si sobbarca un corso impegnativo, sostiene un esame che lo abilita all’insegnamento e si inserisce in graduatoria con tutti i conteggi inerenti ai suoi titoli e con 30 punti, una sorta di bollino qualità come il marchietto blu delle famose banane; tanto per distinguerlo dai precari storici, ormai abbrutiti da 10/15 anni di vita raminga (ma avrebbe fatto questa fine anche quel gentleman di Baldassar Castiglione) e incattiviti sino alla ferocia (ma si sarebbe ridotta così anche quella santa di Madre Teresa di Calcutta). “30” significa due anni e mezzo di lavoro negli istituti statali e si sa che, specie all'inizio della carriera, ci vuole molto più di quel tempo per accumularli, con tutte le incertezze psicologiche e le difficoltà economiche e familiari che la situazione comporta.
    Di qui la lotta estiva fra poveri, il bonus di 18 punti dato ai precari storici e poi tolto, l'incapacità del ministro Moratti di comprendere questo mondo, che finora guarda dall'alto del suo efficientismo, non rendendosi conto che i cambiamenti che ha attuato e attuerà riguardano esistenze che fanno capolino dietro i numeri e le classifiche…
    Manuela Pozzolini

    http://www.legnostorto.com/node.php?id=8965

 

 

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