90 anni, la moglie malata. Contro di lui un accanimento unico



Agostino Bertani
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«Già dai primi mesi de mi presenza a Roma come un detenuto, ho avuto l'intenzione di scrivere un libro sul caso mio. Al principio lo avevo pensato come una eredità per i figli e nipoti, ma mano a mano che ho potuto capire che qui non si ha trattato d'un processo per trovare la verità, ma di una ennesima persecuzione al tedesco cattivo, l'idea del libro è cambiata».
Inizia con queste parole - nella forma a metà tra lo spagnolo e l'italiano, con qualche antichissimo suono tedesco, con cui l'autore l'ha scritta - la prefazione di Erich Priebke al suo libro, appena stampato, che ha per titolo "Autobiografia"(a cura dell'associazione "Uomo e Libertà'', via Panisperna 209, 00184 Roma, telefono 06-47821743, sito Internet www.priebke.it, e-mail: info@uomoeliberta.it).
E così continua: «Sono stato condannato ad una pena perpetua, i giudici, per pochi anni che mi restano, mi hanno rifiutato i benefici della legge come condoni e amnistie, perché li hanno considerati esclusivamente per pacificare li italiani a fine della guerra. Già un presidente della Repubblica mi ha negato la grazia. Giorno dopo giorno il sogno di rivedere mi dolce Alice prima di morire diventa sempre più lontano. Lei è molto malata dall'altra parte dell'Oceano, ci siamo sposati nel 1938 anch'essa nata nel 1913, c'eravamo conosciuti, entrambi orfani, a 13 anni, quando la ragazza fu accolta nella casa di mia zia. Quest'anno 2003 siamo sposati da 65 anni».
Naturalmente soltanto le breve prefazione del volume, che occupa due pagine, è riprodotta senza correzioni, così come l'ha scritta lui di suo pugno. Ma tutto il resto del poderoso saggio (che conta ben 896 pagine, costa 20 euro e ha allegata una videocassetta dal titolo "Vae victis'', "Guai ai vinti" con le parti fondamentali - ed anche più drammaticamente eloquenti - dei processi subiti da Priebke in Italia e conclusisi con la sua condanna all'ergastolo) è un documento storico di una precisione assoluta, per la cui stesura Priebke è stato aiutato da Paolo Giachini, fondatore dell'Associazione "Uomo e Libertà'', ma soprattutto colui che si è sobbarcato l'impegno umano di ospitare in casa sua, a Roma, l'ergastolano cui sono stati concessi gli arresti domiciliari, persuaso che si sia compiuto non un atto di giustizia, ma una ingiustizia, nei confronti di questo vecchio di novant'anni che, alle Fosse Ardeatine, ubbidendo a un ordine, uccise due dei 335 ostaggi sparando loro una rivoltellata alla nuca.
Per chi si occupa di storia, i paragoni sono fin troppo facili. Bernard Jope, il pilota della Luftwaffe che il 9 settembre 1943, premendo un pulsante, ammazzò 1352 marinai e ufficiali della corazzata "Roma'', è stato per tutta la sua vita lavorativa uno stimato comandante della Lufthansa e nessuno si è mai sognato di chiederne l'arresto: se è ancora vivo, ha oggi 89 anni, due meno di Priebke. Friedrich Engel, il capo della Gestapo di Genova che ordinò la strage del Turchino e che sovrintese personalmente alle torture che massacrarono un eroe della Resistenza ancora oggi in vita, il generale medaglia d'oro al valor militare Alberto Li Gobbi, è vivo e vegeto, ultranovantenne, nella sua casa ad Amburgo. Sì, vabbé, a Torino lo hanno condannato all'ergastolo, ma la Germania, alla richiesta di estradizione, ha risposto ciccia. E potremmo continuare all'infinito, ricordando, per esempio, le medaglie d'oro assegnate agli attentatori di via Rasella che uccisero - oltre a 33 poliziotti altoatesini più 9 morti in seguito alle ferite - 5 passanti romani tra cui il ragazzo Pietro Zuccheretti, di 13 anni, che ebbe la testa staccata dal busto.
Per Priebke, invece, si fece un'eccezione. Indicato fin dall'inizio, senza alcuna prova, e falsamente, come un boia nazista, autore di deportazioni e torture, braccio destro di Himmler (da lui neppure mai personalmente conosciuto), questo anziano ex ufficiale delle SS che si era rifatto un'esistenza in Argentina, a Bariloche, dov'era da 40 anni preside di una scuola privata, fu immediatamente estradato, fin dalla prima richiesta della magistratura italiana. Il governo argentino presieduto da Menem fu ben felice di consegnare lo sventurato emigrato tedesco in cambio di una pietra tombale messa sulla questione dei desaparecidos di origine italiana. Da un articolo di Maurizio Chierici sul "Corriere della Sera"del 10 marzo 1998: «Priebke è stato spedito a Roma dal presidente Menem con una proposta poco segreta al governo italiano del tempo: noi vi diamo il nazista e voi dimenticate madri e mogli di piazza di Maggio. Vi regaliamo Priebke una tantum, ma dimenticate i poveri soldati argentini». (Che succederà adesso? Perquisiranno la scrivania di Chierici? O la nostra?)
Ma lasciamo perdere. Non finiremmo più. E proviamoci - sia pure con la certezza di non poter dire tutto, data la vastità della documentazione raccolta e minuziosamente descritta nel volume - a sintetizzare la colossale mistificazione operata sul caso Priebke sia dalla stampa con migliaia di titoli dal chiaro effetto subliminale ("Controllò impassibile la lista della morte'', "Uno spietato nazista da film'', "Ha sempre considerato gli italiani una subrazza meridionale''), sia dalle decine di testimonianze superficiali, inattendibili, fantasiose eppure prese per buone specie nel secondo processo, quello che condannò il vecchio ufficiale all'ergastolo. Un esempio per tutti. Un noto storico (di cui, per carità umana, non faremo il nome) aveva descritto, in un suo libro, Priebke come l'autore, nientemeno, che dell'assassinio di Bruno Buozzi. Ed ecco - ripresa dal verbale d'udienza - la sua deposizione al secondo processo: «La notte fra il 3 e il 4 giugno '44, mentre avveniva la liberazione di Roma, una colonna di quattro camion caricò i prigionieri di via Tasso per trasferirli al Nord. In uno di questi camion c'era Carlo Salinari, il comandante del Gap che aveva fatto l'attentato di via Rasella e sull'ultimo camion c'erano 14 prigionieri, tra cui Bruno Buozzi. Questo camion si fermò a La Storta, sembra per un guasto. L'ufficiale che comandava la colonna non sapeva come comportarsi, perché il camion non ripartiva. Venne dato l'ordine e i 14 vennero fucilati a La Storta. Io sul mio libro ho un po' forzato la mano, per la verità, e ho detto che era Priebke a capo di quella colonna, però la certezza non ce l'ho».
Per una dichiarazione da brividi come questa (che tuttavia, quanto meno, rappresentò un esempio di sia pur tardiva onestà), il libro ne riporta centinaia inventate di sana pianta per gettare odio e fango sull'imputato. Furono tutte prese per buone. E il vecchio Priebke fu condannato a restare fino alla morte o in una cella o in una casa di Roma, senza più speranza di poter riabbracciare la moglie malata e impossibilitata a muoversi dall'Argentina. A nulla, assolutamente a nulla, valsero prese di posizione come questa di Indro Montanelli, che riproduciamo dalla sua "Stanza"del 3 gennaio 1998: «Io non conosco quel signor Giachini che ha accolto Priebke a casa sua esponendosi al furore, anche se tutto di scena e di teatro, dei dimostranti che sfilano sotto le sue finestre con striscioni insigniti da questa nobilissima e cristianissima scritta in perfetta armonia con le feste natalizie: "Priebkle assassino, vattene da casa nostra!''. Non l'ho mai incontrato, e non so cosa sia l'associazione "Uomo e libertà" di cui è presidente. Ma il fatto che, considerando Priebke un "perseguitato'', quale nei fatti è, gli abbia offerto ospitalità nel proprio appartamento, m'induce a mandargli, attraverso questa "stanza", una stretta di mano. Quelli in cui si è cacciato devono essere davvero guai grossi: gl'insulti a cui si espone (e speriamo che rimangano solo insulti), i comprensibili malumori dei coinquilini sottoposti ai controlli dei cinquanta (dico cinquanta) carabinieri dislocati per questo servizio, che bloccano le strade e intasano perfino le scale del casamento, e tutto il resto. Complimenti, signor Giachini. L'Italia "brava gente"è lei».
Se fosse possibile controfirmare un pezzo di Montanelli, controfirmeremmo questo con convinzione. E con commozione.
Agostino Bertani
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