Americhe ed Europa si allontanano
di Sergio Romano
L’Europeo
Quando il conclave del 1978 volle che il successore di Paolo VI fosse l’arcivescovo di Cracovia, molti pensarono che il Papa polacco sarebbe stato soltanto un eccezionale interludio nella “normalità” dei papi italiani. Non capirono che l’elezione di Karol Wojtyla era il risultato (per certi aspetti persino tardivo) della costante mondializzazione della Chiesa di Roma negli anni precedenti.
È probabile che anche molti americani nello scorso novembre abbiano considerato l’elezione di un presidente “abbronzato” alla stregua di un evento eccezionale e commesso in tal modo uno stesso errore. Barack Obama non è la pallina nera improvisamente apparsa, per una combinazione di fattori eccezionali, in una lunga sequenza di palline bianche. La sua elezione è soltanto una tappa nella lunga ascesa della comunità afroamericana dalla fine della segregation (la parola americana per apartheid), durante la presidenza di Lyndon Johnson, ai nostri giorni
La presenza di Obama alla Casa Bianca avrà probabilmente l’effetto di accelerare il fenomeno e di rendere gli Stati Uniti più afroasiatici di quanto siano stati sino alla fine del secolo. Già ora, del resto, lo stile del presidente è meno occidentale di quello dei suoi predecessori.
L’omaggio a re Abdullah dell’Arabia Saudita durante il G20 di Londra (un «inchino» che qualcuno ha considerato disdicevole), la citazione di un poeta persiano nel messaggio per il capodanno iraniano, il tono rispettoso dei riferimenti all’Islam sono indicazioni di un atteggiamento nuovo. Le voci ricorrenti sul suo criptoislamismo sono false, ma Obama ha avuto con l’Islam, nel corso della sua adolescenza, una familiarità che rende le sue parole meno formali e condiscendenti di quelle abitualmente pronunciate dagli uomini di stato occidentali.
Questa progressiva “deeuropeizzazione” degli Usa è ancora più evidente in America Latina, dove le élite dirigenti, anche nel melting pot brasiliano, sono sempre state prevalentemente bianche. La situazione è cambiata dopo la crisi delle politiche liberiste che il Fondo monetario aveva imposto fra gli anni Ottanta e gli anni Novanta. La nuova sinistra non ha più, se non forse nel caso di Michelle Bachelet in Cile e di Luiz Inácio Lula da Silva in Brasile, lo stile della socialdemocrazia europea e dell’Internazionale socialista. È populista, «indigenista», e ha spesso i tratti somatici del presidente venezuelano Hugo Chávez, del presidente boliviano Evo Morales, del presidente ecuadoregno Rafael Correa. Paradossalmente continua a essere bianca, al vertice del potere, la Cuba dei Castro, ultimo frutto americano del marxismo europeo.
L’economia nel frattempo tende ad accentuare la deeuropeizzazione delle Americhe. The Economist ha osservato che i paesi più legati agli Stati Uniti (Messico, America Centrale, Caraibi) sono quelli maggiormente colpiti dalla crisi. Sono in migliori condizioni invece quelli che hanno ampliato il ventaglio delle loro attività (come il Brasile) o hanno un nuovo partner, meno arrogante e imperialista del colosso a nord del Rio Grande. Questo partner è la Cina.
Vengono alla mente gli anni in cui la Cina forniva agli Usa solo manodopera per la costruzione della rete ferroviaria. Oggi invia i suoi studenti nelle università della California o del New England e le sue missioni al sud del continente per conquistare mercati e creare intese industriali. Questi fenomeni sono inevitabili e per molti aspetti positivi. Ma renderanno gli europei del tutto irrilevanti, se gli stati dell’Ue si ostineranno a difendere le loro meschine sovranità nazionali.
(blog.panorama.it/opinioni/2009/05/08/romano-americhe-ed-europa-si-allontanano/)