Il pentito Giuffrè: Provenzano sbirro,
fece arrestare Riina
La deposizione al processo sull’ex generale Mori: «Binnu ci disse di appoggiare Forza Italia»
ROMA — Bernardo Provenzano «è uno sbirro», pensavano i mafiosi che obbedivano ai suoi ordini nei primi anni Novanta. Un capo di Cosa nostra che «vendeva» gli altri uomini d’onore per rimanere al vertice dell’organizzazione e traghettarla su nuove posizioni: non più l’attacco allo Stato con bombe e stragi, ma una «sommersione» che permettesse di riprendere a fare affari senza più guerre.
Così racconta il pentito Nino Giuffrè — un mafioso che per quasi un decennio (dall’inizio del ’93 fino all’arresto avvenuto nel 2002) ha vissuto ai fianco del padrino di Corleone, ascoltando i suoi discorsi e quelli di altri boss che gli gravitavano intorno — nel processo palermitano a carico dell’ex generale Mario Mori, imputato di favoreggiamento per un presunto, mancato arresto dello stesso Provenzano nel 1995. Nel disegno dei pubblici ministeri c’è un collegamento diretto tra l’accusa in questo dibattimento, la cattura di Riina nel gennaio ’93 con mancata perquisizione della casa in cui abitava (episodio per il quale Mori è stato già assolto) e la «trattativa» tra Stato e mafia passata anche per i colloqui tra Mori e l’ex sindaco di Palermo Vito Ciancimino. Tutti anelli di una stessa catena ricostruita ora dal pentito Giuffrè. «Tutti pensavamo che l’arresto di Riina fosse stato pilotato da Provenzano — ricorda l’ex mafioso —. Era parte di una strategia portata avanti nell’interesse di Cosa nostra. Lo stesso Provenzano diceva che Riina era diventato ingombrante, e noi ritenemmo che la sua cattura fosse un 'sacrificio alle divinità', frutto di un accordo tra lui e altre parti che hanno avuto un ruolo in quella vicenda. Del resto per noi fu un arresto indolore; c’era il rischio che andando a guardare nella casa di Riina si trovassero lettere o altri documenti compromettenti, invece non successe niente». Ovvio che per i carabinieri le cose sono andate in tutt’al*tro modo, ma la «verità» del pentito Giuffrè è questa.
Corredata dagli altri rapporti para istituzionali del boss corleonese lanciato alla riconquista di Cosa nostra dopo l’uscita di scena del suo paesano «stragista»: «Uno dei contatti di Provenzano era Ciancimino, che è sempre stato nelle sue mani. Me ne parlava sempre, lo usava per i rapporti politici e per gli appalti, e si diceva che avesse contatti coi servizi segreti. Una volta, quando gli chiesi se erano vere le voci di sbirritudine sul conto di Ciancimino, Provenzano mi rispose: 'Ma no, lui è andato in missione nel nostro interesse' ». Sottinteso, presso uomini delle istituzioni. Tra la fine del ’92 e l’inizio del ’93 furono arrestati sia Ciancimino che Riina, Provenzano riprese lentamente il controllo di Cosa nostra e disegnò nuove relazioni politiche. La Dc e il Psi (partito sul quale Riina aveva dirottato il voto mafioso nel 1987) scomparvero e si cominciò a parlare di un nuovo movimento politico. «Si trattava di Forza Italia — racconta Giuffrè — e Provenzano ci disse di appoggiarlo. La direttiva di votare questo nuovo partito, secondo quello che mi disse, era collegata alla trattativa per risolvere i problemi che avevamo in quel momento, dai continui arresti agli ergastoli, dal carcere duro al sequestro dei beni. Sosteneva che nel giro di qualche anno avremmo risolto tutto, e che con Forza Italia eravamo in buone mani». Fece dei nomi in particolare? «Quelle persone che già erano in contatto con Cosa nostra, come Marcello Dell’Utri ». C’erano rapporti diretti tra Ciancimino e Dell’Utri: «Mi pare di sì, se non ricordo male».
http://www.corriere.it/cronache/09_o...4f02aabc.shtml
da non perdere la puntata di anno zero di stasera