Articolo lungo ma estremamente interessante tratto dal Foglio del 12/11.

Ne condivido in gran parte i contenuti, alcuni li avversavo come il ritiro unilaterale dei TO (ora sempre meno). Mi piace il paragone tra l'intransigenza dei Media con Sharon, che viene presentato come il problema nel problema mentre Arafat fa la figura del povero agnello sacrificale.

Buona lettura

Una mattina mi sono alzato e c’era calma di qua e di là

Contrariamente a quel che dicono i variopinti e confusi manifestanti che si sono accaniti il fine settimana passato contro il cosiddetto “Muro della Vergogna” eretto da Israele per separarsi dai territori palestinesi, non c’è né muro né vergogna. Intanto non c’è muro: delle centinaia di chilometri che il sistema di difesa in costruzione dovrebbe coprire, solo 160 sono stati finora eretti e solo sette (quasi il 5 per cento) sono di cemento e ne assumono la forma vera e propria. Il resto è filo spinato e recinzioni metalliche leggere, rafforzate da strade di pattugliamento, sensori elettronici, postazioni militari di controllo e altri accorgimenti tesi a rendere difficile – gli israeliani sperano impossibile – l’infiltrazione di terroristi suicidi. Poi non c’è vergogna: il deturpamento paesaggistico e il prezzo che pagano i palestinesi a rimanere al di là del muro sarebbero reversibili se la leadership palestinese riconoscesse il fallimento dell’Intifada, accettasse che la violenza ha minato la causa palestinese e ritornasse al negoziato con Israele sulla falsariga della road map, che richiede lo smantellamento della struttura terroristica e una lotta efficace dei riformati Servizi palestinesi contro i terroristi. Il che non succederà fintantoché Arafat rimane al potere. Se si tratta di settimane mesi o anni dipende da molti fattori, ma soprattutto dalla sua salute. Il panorama corrente, visto che la biologia non è certo una strategia politica, continuerà dunque a essere dominato dalla barriera difensiva israeliana. Gli israeliani sperano che la barriera serva a scoraggiare definitivamente i palestinesi. Chi si oppone al completamento della barriera lo considera “il muro dell’impotenza”, come lo chiama qualcuno, perché ritenuto inefficace. Israele crea un nuovo fatto sul terreno, e per quanto lo presenti come temporaneo e reversibile, in Medio Oriente non c’è nulla di più permanente che il provvisorio. Quella barriera fomenterà altro odio, creerà rivendicazioni, incoraggerà altri al martirio. Ma, ribatte chi nel muro/barriera crede, gli impotenti sarebbero i terroristi una volta che il muro sarà completato. E con loro gli estremisti. Perché il miglior mezzo per sconfiggere il terrorismo, nel breve periodo, è il sabotaggio di chi lo pratica: occorre rendere impossibile la vita ai terroristi e creare ostacoli alla loro capacità operativa. Il che non esclude una battaglia politica per isolare gli estremisti nelle loro società. Ma almeno a breve le due cose vanno di pari passo. E chi sostiene la barriera in Israele crede che per il momento non ci sia nulla da dirsi coi palestinesi. Finiti gli anni del dialogo, gli israeliani a gran maggioranza non credono più alla possibilità di riconciliazione. La vogliono fortemente, ma non si fidano. Preferiscono una barriera, una siepe, o un recinto ai confini aperti della fiducia umana. Gaza lo dimostra: in tre anni, gli attentatori di Gaza sono rimasti a Gaza. Attaccano i soldati e le basi, i coloni e i convogli, gli insediamenti e le guardie. A Gaza. Da lì non escono. Perché c’è la barriera. C’era anche prima dell’Intifada. Ma allora i palestinesi non si lamentavano. Protestavano contro gli insediamenti o contro la mancanza di permessi d’ingresso in Israele per lavoro. O contro la chiusura del confine. O contro i posti di blocco. Non contro la recinzione a Gaza. Né lo fanno oggi. Non dà fastidio. E blocca gli attentati. In tre anni solo due assassini hanno eluso la sorveglianza israeliana: due cittadini britannici, venuti dalla fredda Albione per uccidere e morire, martiri della causa dell’Islam radicale. Sono venuti insieme all’International Solidarity Movement, i movimentisti pacifisti no global che si lamentano degli abusi delle forze israeliane e usano i loro diritti di europei e americani per protestare contro l’occupazione. Se gli israeliani avessero avuto meno cura dei loro diritti forse avrebbero individuato i terroristi che si nascondevano tra gli ingenui. Ma ai signori dell’ISM importa solo dei diritti dei terroristi che si confondono tra di loro, non delle loro vittime. Così sono venuti anche loro, due assassini di buona famiglia. Hanno sfruttato il passaporto europeo e la copertura delle anime belle del movimento e hanno
ucciso (se qualcuno dubita della possibile contiguità tra terrorismo e movimentismo, guardi ancora e pensi due volte). Ma sono stati l’eccezione che conferma la regola: la barriera a Gaza funziona, gli altri non passano. Non male come impotenza. Tra l’altro nessuno ha sollevato l’obiezione, a Gaza, che la barriera sia un ostacolo alla visione di pace di due popoli in due Stati, della spartizione della terra e della demarcazione dei confini. Nei mille accordi immaginati, a Ginevra come a Stoccolma, a Taba come a Camp David, e chissà dove ancora, forse anche adesso, mentre scriviamo, tante volte è emersa la possibilità che Israele e Palestina si scambiassero territori. La linea verde che demarca il vecchio confine del cessate il fuoco proclamato nel 1949 non è il confine internazionale. E’ un fatto provvisorio (e sulla provvisorietà mediorientale, vedi sopra). E se Israele si annettesse parte della Cisgiordania, la Palestina potrebbe ricevere territorio israeliano come compenso. Parte di quel territorio, nelle pragmatiche fantasie dei negoziatori di ambo le parti, poteva proprio essere a Est di Gaza (oltre che a Ovest, Sud e Nord della Cisgiordania), centinaia di chilometri quadrati di territorio sostanzialmente vuoto, certo desertico, ma facilmente irrigabile e arabile in tempo di pace. Manca l’acqua, ma quella manca dappertutto in Medio Oriente, e la soluzione alla mancanza d’acqua è nel Mediterraneo. Desalinizzato opportunamente per irrigare Gaza e dintorni, con impianti pagati dai dividendi della pace. In guerra ci si contende l’acqua. In pace, si unirebbero gli sforzi per trasformare la siccità in fertilità. E in tutto questo, nessuno mai sollevò il problema della barriera. Perché a Gaza, la barriera, in tempo di pace, si può spostare. E perché allora non si potrebbe far lo stesso in Cisgiordania, un domani
in cui i giovani palestinesi che oggi sognano di lacerare le proprie carni per assassinare gli ebrei, sognassero invece qualcosa di infinitamente meno eroico, meno assassino, più borghese e banale, come una laurea, un lavoro, una casa, una famiglia, un mese di vacanze all’anno, una macchina e un videoregistratore? Dicono che è l’impossibilità di realizzare quel sogno che li trasforma in assassini. Ma allora perché non fanno lo stesso i guatemaltechi, i colombiani, i brasiliani, i russi e i liberiani, che sognano lo stesso, e sanno che il loro sogno mai si realizzerà? Perché ciò che ha ucciso il compromesso in Palestina non è l’impossibilità di realizzare l’ideale banale di una vita borghese, ma il costo che quella vita comporta, cioè la rinuncia di un altro, ben più potente e glorioso sogno, che non ammette né rinunce né compromessi. Il vero ostacolo è la forma mentis Il vero ostacolo a tutto questo quindi non è la barriera, perché, come dimostra Gaza, le barriere non impediscono di immaginare un accordo e di metterlo in atto se c’è la volontà politica: si possono erigere, ma anche smontare, o spostare, le barriere. Non sono nemmeno gli insediamenti l’ostacolo. Lo dimostra il recente accordo di Ginevra, che offre una soluzione non nuova al problema, ma che la dice lunga su quali sono le vere trappole sul cammino della pace. Ginevra sostiene che Israele deve lasciare una parte sostanziale degli insediamenti, annettendone invece altri che richiederebbero una compensazione territoriale ai palestinesi. Una volta evacuati, gli insediamenti non dovrebbero però essere smantellati. Una commissione tecnica dovrebbe stabilirne il valore monetario e procedere a fare un inventario dettagliato delle proprietà. Una volta quantificatone il valore, gli insediamenti diventerebbero parte del contributo che Israele darebbe ai palestinesi per assorbire i profughi e riabilitarli. Ecco dunque, il pragmatismo fantasioso che risolve con inventiva e ingenuità un problema che appare insolubile solo nel manicheo mondo degli slogan. Le villette a schiera che sparse sul territorio oggi mettono in dubbio la praticità di uno Stato palestinese contiguo, domani offrirebbero la prima casa del profugo palestinese che rientra in Palestina. Quel che oggi appare un ostacolo, diventa domani un vantaggio. No, l’ostacolo è la forma mentis che impedisce di riconoscere che una soluzione pragmatica sia non solo plausibile, ma anche l’unica soluzione possibile. E contro una forma mentis così radicata e inflessibile da sedurre non solo i giovani senza speranza dei campi profughi, ma anche i rampolli borghesi della penisola arabica e dei sobborghi delle città industriali del Nord Europa a sopraffare il naturale istinto di sopravvivenza per assassinare innocenti sconosciuti, solo una barriera può offrire una risposta. Se la disperazione è quel che li motiva (e se fosse quella la correlazione causale, tutto il mondo sarebbe tormentato dalla piaga dei terroristi suicidi, perché di disperati è piena la terra), forse la disperazione di non passare il muro li scoraggerà prima o poi. Chi sostiene il muro non si fa certo illusioni e non considera il muro la soluzione ideale. Ma la politica non è utopia, è l’arte del possibile. E il possibile viene realizzato quando si riconosce la differenza tra ciò che si vuole e ciò che è possibile, e si accetta l’occasionale impossibilità di colmare la distanza che li separa. La forma mentis che alimenta il conflitto oggi è incapace di riconoscere quella differenza. Una forma mentis alimentata da un’illusione, come scriveva due anni orsono Fuad Ajami sulle pagine della rivista Foreign Affairs: “In un raro allineamento, si erano presentati sul cammino di Arafat un presidente americano ansioso di far del suo meglio e un soldato-statista israeliano desideroso di offrire al leader palestinese tutto quel che Israele poteva dare – e anche qualcosa in più. Arafat rifiutò quel che gli veniva offerto e tornò immediatamente nella familiare saga del suo popolo: il massimalismo, l’incapacità di capire ciò che si può e ciò che non si può ottenere in un mondo di nazioni. Pensava lui di poter contare sulla ‘piazza araba’ e la sua sollevazione, per costringere la Pax Americana a soddisfare le sue pretese. Avrebbe nuovamente guidato il suo popolo alla loro vecchia aspirazione di aver tutto, dal fiume al mare. Avrebbe dovuto saperlo, avrebbe dovuto conoscere gli equilibri di potere, è ragionevole supporre. Ma si annida ancora, nell’immaginazione araba e palestinese, l’idea, evocata dallo storico marocchino Abdallah Laroui, secondo cui ‘un certo giorno, tutto sarebbe stato obliterato e istantaneamente ricostruito, e i nuovi abitanti sarebbero andati via come per incanto, lasciando la terra che avevano devastato’. Arafat ben comprendeva il potere redentivi di quest’idea. Deve aver pensato che fosse più prudente cavalcare quest’idea, e che ci saranno sempre un altro giorno e un’altra offerta”. Arafat tornò da Camp David osannato dalla folla. Non perché non aveva ceduto alla tentazione di una proposta non abbastanza generosa, perché generosa era e perché offriva spazio per ulteriori aggiustamenti, ma perché nel suo rifiuto categorico aveva riaffermato la dignità dell’illusione di una Palestina araba, dal fiume al mare, e resistito all’umiliazione di una Palestina dimezzata, solo in parte araba, condivisa con chi gli arabi ha ripetutamente sconfitto e umiliato sul campo di battaglia. L’umiliazione che Israele rappresenta nel mondo arabo impedisce di accettare la dura realtà e sfuggire alle tentazioni di un sogno irrealizzabile. Quell’umiliazione non accetta compromessi. Quella forma mentis non offre spazi di pragmatica rinuncia. Fintantoché essa permane, c’è il muro. Poi non tutti la pensano allo stesso modo. Il dibattito sul muro in Israele non è quel confuso farfugliare isterico che si sente al di qua del mare. Il movimentismo vive di slogan semplificatori e manipolatori, e quindi liquida il tutto con un paragone – quello del muro di Berlino – che prima ancora che odioso è stupido. Chi invece col muro e con le bombe deve convivere pensa in termini leggermente diversi, umanamente e tragicamente pragmatici. Shlomo Ben Ami, intellettuale laburista e accademico brevemente votato alla politica, si oppone al muro. Che accadrà il giorno che Israele, eretta la barriera, si ritirasse dai territori? Sorgerà uno Stato palestinese che verrà rapidamente riconosciuto da tutte le nazioni della terra. E una volta che si saranno aperte 160 ambasciate a Ramallah, che ci sarà un distaccamento di guardie rivoluzionarie iraniane a Jenin e batterie di Katiusha a Qalqiliya, difficilmente Israele potrà intraprendere azioni militari contro l’infrastruttura terroristica che oggi, in qualità di potenza occupante, Israele può più o meno impunemente mettere in atto in Cisgiordania. Ben Ami non si fa illusioni, ma dice suadente che l’alternativa oggi è tra uno Stato palestinese amico e uno ostile. Un muro, seguito da un ritiro unilaterale israeliano, produrrebbe uno Stato ostile nel cortile di casa. Meglio trattare. Il precedente discusso del Libano Gli ribattono a sinistra i promotori del muro. Il muro deve essere il confine, prodotto dalla tragica constatazione che con i palestinesi non si può negoziare, ma che l’occupazione deve terminare. Il ritiro unilaterale dietro a una barriera difensiva risolverà molti problemi, anche se ne creerà degli altri. Il ritiro unilaterale dal Libano offre un esempio a entrambe le parti: chi osteggia una simile mossa, offre il Libano come dimostrazione che il ritiro del maggio 2000 ridusse la deterrenza strategica israeliana, non ha scoraggiato Hezbollah dal cercare lo scontro, ha dato ai palestinesi un modello da seguire per ottenere un simile risultato senza fare a loro volta concessioni. Se la violenza ottenesse ciò che la diplomazia aveva negato, Israele si ritroverebbe senza territori e senza pace, costretto a trattare un accordo futuro da una posizione negoziale più debole. Ma chi cita il Libano dimentica un dato importante. Il confine libanese è stato, nonostante tutte le conseguenze negative appena citate, infinitamente più calmo di quanto fosse prima del 2000. Israele non perde più inutilmente decine di giovani vite di soldati israeliani ogni anno, come succedeva quando Israele occupava la striscia di sicurezza nel Sud del Libano. Nessuna soluzione è ideale, ma il ritiro dalla Cisgiordania e Gaza otterrebbe il plauso della comunità internazionale. Forse il mondo eserciterebbe pressioni sui palestinesi finalmente, costringendoli a concentrarsi sulla costruzione di uno Stato invece che sulla distruzione dello Stato vicino. E comunque il rischio di perdita temporanea di deterrenza sarebbe compensato dalla capacità di combattere in maniera più efficace e meno discutibile il terrorismo palestinese. A destra le cose vanno diversamente. Ritirarsi è anatema, perché il ritiro non ha solo risvolti strategici ambigui, ma comporta l’abbandono degli insediamenti. Facile evacuare soldati e basi militari in Libano (il ritiro, a sorpresa e nel cuore della notte, avvenne in meno di due giorni), molto più difficile evacuare centri abitati, dove in alcuni casi anche poche centinaia di irriducibili estremisti potrebbero rendere l’impresa lunga, costosa e sanguinosa. Eppoi, anche se fosse facile evacuare gli uomini, come si fa a evacuare un sogno?Tutti questi patemi sono riflessi nelle opinioni apparentemente conflittuali degli israeliani. Secondo il sondaggio mensile del Tami Steinmetz Centre for Peace dell’Università di Tel Aviv, condotto a fine ottobre e disponibile sul sito dell’istituto, l’opinione pubblica vuole la pace ma non la ritiene attualmente possibile. Interrogati sulla possibilità di negoziati, il 71 per cento vuole un rinnovo del dialogo. Ma solo un quarto della popolazione approva la proposta di Ginevra e il 54 per cento è contrario. Soltanto il 7 per cento crede che la proposta abbia una chance di essere attuata. In quanto a chi l’ha firmata, poca la fiducia del pubblico. Solo il 18 per cento degli israeliani si fida di Yossi Beilin, mentre il 61 non lo ritiene in grado di difendere l’interesse nazionale. Quindi l’opinione pubblica sostiene la continuazione della barriera difensiva, e crede che il suo percorso debba riflettere gli interessi nazionali come definiti dal governo, non la linea verde come vorrebbero quelli che a sinistra sostengono barriera e ritiro. L’83 per cento degli intervistati sostiene la costruzione della barriera, ma solo il 19 insiste sulla linea verde, mentre il 63 crede che il tracciato debba essere determinato, unilateralmente, dal governo. E lo stesso 63 è convinto che la barriera costituirà un efficace strumento di dissuasione che ridurrà significativamente gli atti di terrorismo e un altro 19 per cento che può prevenirli. Solo il 16 non crede che la barriera serva. Ma perché gli israeliani sostengono la barriera, in definitiva? Perché hanno paura. E che cosa temono, oltre che di saltare in aria su un autobus o al supermercato? Temono quello che sempre più esplicitamente, in maniera sempre più sfacciata ed esplicita, è il programma politico dei palestinesi e del movimentismo internazionale che li sostiene e osteggia la barriera. Essi temono lo Stato binazionale, l’abbraccio mortale della fratellanza de iure che si trasformebbe in un fratricidio de facto. Interrogati sulla possibilità che, senza una soluzione politica basata sul principio di spartizione e permanendo il controllo israeliano nei territori i palestinesi diverrebbero presto una maggioranza che trasformerebbe la terra contesa in uno Stato binazionale, il 67 per cento degli israeliani si dice spaventato. La paura attraversa destra e sinistra, religiosi e laici, cosa non sorprendente visto che solo il 6 per cento degli israeliani sostiene la soluzione binazionale, mentre il 78 la osteggia. Il perché non sorprende: l’86 per cento degli ebrei israeliani non crede che in uno Stato binazionale ebrei e palestinesi potrebbero godere di uguali diritti. L’80 per cento non crede possibile garantire la sicurezza della popolazione ebraica e il 66 non ritiene che una simile soluzione assicurerebbe la realizzazione dell’identità ebraica. E ciò che colpisce nel sondaggio è che anche gli arabi israeliani la pensano così. Il 60 per cento condivide il timore che ebrei e arabi non godrebbero di eguali diritti, il 75,5 preferisce due Stati e solo il 7 si schiera a favore dello Stato unico. Gli arabi israeliani si dividono sulla questione se sia possibile garantire la sicurezza degli ebrei in uno Stato binazionale: 46 per cento di sì, 47 di no. In merito alla conservazione dell’identità ebraica, l’opinione pubblica araba non differisce significativamente: per il 53 per cento sarebbe impossibile farlo nel contesto binazionale, per il 39 sarebbe possibile. Ecco dunque lo scandalo del muro che sorge, tracciando un solco su una terra martoriata, deturpandone il paesaggio e infliggendo una ferita mortale ai sogni irrealizzabili del massimalismo. Si agitano a destra perché sanno che la barriera creerà di fatto
un confine prima o poi, e con quello offrirà le premesse del ritiro israeliano e della rinuncia al sogno della Grande Israele. Si agitano i palestinesi, che vedono nel muro la fine del sogno della Grande Palestina, riunita dalla rivoluzione permanente, glorioso e sterminato cimitero di martiri assassini e delle fosse comuni delle loro vittime innocenti, guidata da chi ha speso la vita a distruggere invece che costruire. Si agitano gli agitatori professionisti che in nome dei diritti dei popoli, del romanticismo antimperialista e del terzomondismo antiglobale nascondono i terroristi e propagano uno stupidario di slogan che farebbe sorridere se non fornisse un paravento per l’odio. Si agitano i sognatori di Oslo in Israele e Palestina, e tutti i loro ben intenzionati sponsor, che mai hanno voluto rassegnarsi alla bruttezza della realtà, sempre aggrappandosi alle fantasie di una possibile svolta moderata in una terra traversata da estremi ed estremismi. Si agitano gli ambientalisti e i fautori della pietà, che piangono per il deturpamento del paesaggio, non capendo che è meglio vedere un muro dalla collina che esser sepolti sotto la collina di fronte a un bel panorama. Che nella romantica esaltazione della morte, hanno dimenticato la prosaica dignità della vita. In mezzo c’è Ariel Sharon. Sempre lui, grande vecchio della politica israeliana, enfant terrible, bestia nera di tutti, comodo spettro dell’Eurobarometro, orco degli stupidi, fantasma degli irresponsabili commentatori che preferiscono semplificare una storia intricata raccontandola come uno scontro tra buoni e cattivi, indiani e cowboy, vittime e carnefici, lupi e agnelli, parteggiando per gli uni o gli altri, senza capire che occorre prima di tutto compiangere entrambi. Sharon del Passo Mitla, ufficiale indisciplinato nella campagna di Suez. Sharon dei raid a Gaza, brutale ma efficace. Sharon dell’inesorabile marcia sul Cairo nel ’73, generale ingovernabile che vinse la guerra quasi perduta. Sharon che distrugge gli insediamenti nel Sinai e li costruisce su ogni collina della Cisgiordania. Sharon corrotto e Sharon statista. Sharon che invade Beirut senza quasi dirlo al suo primo ministro. Che viene allontanato dalla politica per le sue gravissime omissioni su Sabra e Chatila. Che ritorna quasi per sbaglio al potere e si reinventa come erede autentico di Ben Gurion e del vecchio laburismo che egli stesso aveva lasciato alle sue spalle all’indomani del ’73. E che ammutolisce la destra, accettando lo Stato palestinese, e castra la sinistra, i cui disillusi elettori votano per lui. Strano che su Sharon nessuno punti, quando tanti si aggrappano alla speranza che terroristi come Arafat, despoti come Mubarak, satrapi come Assad e torturatori patentati come Saddam possano nonostante tutto essere interlocutori di pace. Se si possono riformare quei professionisti della tortura, del terrorismo e della repressione politica, perché non si può riformare Sharon? Già, strano, perché Sharon è prima di tutto un politico. E come tanti politici, sopravvive adattandosi alla realtà e cercando di cavalcarla. E quella realtà oggi lo costringerà prima o poi a scoprire le sue carte, a fare la storia o a diventare storia. Quali carte mostrerà il premier israeliano? Potrà Sharon, padre degli insediamenti, distruggere il progetto che con tanta assiduità ha costruito per anni? Chi crede alle sue vaghe affermazioni di “dolorose concessioni” che lui sarebbe pronto a fare spera nella svolta pragmatica di Sharon: un momento gollista, che cambierebbe il corso della storia. Chi dubita però ha il conforto dei sondaggi. I palestinesi, se volessero genuinamente un accordo e un compromesso, potrebbero riconoscere finalmente la futilità della lotta armata, accettare che solo la politica può risolvere quanto la violenza non riesce a estorcere, ritornare al tavolo del negoziato, e costringere Sharon a mostrare le sue carte. E se è un bluff, c’è la democrazia israeliana, con le elezioni e il pubblico assetato di pace e tranquillità, che manderebbe Sharon a casa. Ma i palestinesi quell’accordo non lo vogliono. E non vogliono il muro perché sanno che quanto più ebrei e palestinesi si intersecano e si violentano reciprocamente con bombe, insediamenti, posti di blocco e fondamentalismo, tanto più impossibile sarà dividerli geograficamente e politicamente tra breve. Solo la barriera può dividere quanto la follia ha ingarbugliato. Israele oggi non lotta per perpetuare l’occupazione, ma per portarla a termine. Gli israeliani lo vogliono, vogliono uno Stato ebraico, e non vogliono perdere il sogno millenario che il sionismo seppe attuare. Ed ecco perché così tanti, di fede politica diversa, oggi in Israele sostengono la barriera. Perché come successe d’improvviso un giorno di maggio di tre anni fa, presto Israele si possa svegliare una mattina vedendo al televisore le colonne di truppe che ritornano a casa, finendo l’occupazione, riparandosi all’ombra di un muro, lasciando i palestinesi al loro destino. E che scandalo sarebbe, che schiaffo ai pasdaran liberali del pensiero unico in Occidente, se a far lo scandalo fosse lui, l’orco Sharon. Lo farà Sharon? Chissà. Ma l’opinione pubblica lo vuole. E quel che sembra impensabile oggi, quel che appare un sogno per tanti israeliani ormai e un incubo al di là della barriera, potrebbe diventare lo scandalo pragmatico di Sharon. Ritirarsi dunque e lasciare ai palestinesi la responsabilità di scegliere se vorranno continuare a spendere energie, risorse e vite a cercar di distruggere Israele o se invece optare per spenderle a costruire la Palestina. Preghiamo per lo scandalo allora. Altrimenti, prima che muoia questa generazione, morirà Israele, travolto dalla fantasiosa utopia dello Stato binazionale.
Emanuele Ottolenghi

Cordiali Saluti