Un interessante riflessione sulla lista di Rekombinant.

P.G.

Dopo l'undici settembre, scrissi su RK che dell'attentato tutto si poteva
dire meno che fosse "vile". Sono consapevole che una questione
terminologica rischia di scatenare qualche persecuzione, ma una certa
coerenza linguistica mi sembra un elemento da cui non conviene prescindere.
Da un vecchio vocabolario Garzanti copio la seguente definizione:

vile - agg. si dice di persona che manca di coraggio; che e' prepotente
con i deboli e arrendevole con i potenti. Sinonimo: codardo, vigliacco,
pusillanime.

Fa riflettere che il termine vile continui a ricorrere in circostanze
analoghe a quelle dell' 11 Settembre. Sarei tentato di assecondare le
teorie neorwelliane, secondo le quali sta avvenendo una "muta" del
linguaggio. I vocaboli sono sottoposti a torsioni semantiche violentissime,
inconcepibili solo qualche anno fa.
Sul piano storico una lunga tradizione ha insistito nell'affermare che
coraggioso significa "sprezzante del pericolo". Si potrebbe fare un lungo
elenco degli eroi della storia patria: gente che metteva la mano sul fuoco,
che lanciava stampelle e via delirando. (Personalmente, ho sempre guardato
con qualche diffidenza ogni forma di eroismo. E a chi mi parla di
"codardia" del mostrare la coda degli animali in fuga rispondo con "'elogio
della fuga" di Henri Laborit).
Tuttavia e' bene soffermarsi su questo difficile crinale semantico. Il
kamikaze, prima o poi bisognera' ammetterlo, non e' per niente vile, non e'
"codardo", al contrario e' effettivamente "sprezzante del pericolo" (e
questo, dal mio punto di vista, non migliora di un punto la sua
situazione). Parlare di vilta' dei kamikaze significa compiere, con
ingiustificata disinvoltura, una pesante violazione di consolidate
convenzioni linguistiche.

Si disse subito dopo le torri gemelle, lo si ripete adesso: nella
concezione occidentale della guerra c'e' un principio base, quello della
sopravvivenza. Ogni ragionamento, ogni teoria della guerra, si fonda su un
assioma: quello che il nemico vuole vivere. Proprio per questo vuole
vincere. Fino a qualche anno fa, ci si fosse trovati di fronte un nemico
che sceglie deliberatamente di autodistruggersi, si sarebbe aperta una
profonda riflessione etica e filosofica.
Una comunita' dotata ancora di un residuo di intelligenza, di capacita'
critica, avrebbe detto: "Fermi tutti ! Sta accadendo qualcosa di anomalo,
senza precedenti. Siamo di fronte a un fenomeno nuovo e sconvolgente".
Nelle universita' si sarebbero aperte tavole rotonde. Dalle pagine dei
giornali gli opinionisti avrebbero lanciato titoli come "il nemico che
vuole morire". Ai tempi in cui gli "intellettuali" in qualche modo si
guadagnavano lo squallido appellativo, non sarebbero mancate polemiche,
dibattiti, radicali prese di posizione. Profonde riflessioni etiche. Non
c'e' stato niente di tutto questo. Fatta eccezione per Bifo e per lo stormo
rekombinante, non si segnala nessuna perplessita'. Lo scenario, dalle mura
di cinta della fortezza Bastiani, appare tranquillo. Natalia Aspesi e
Umberto Galimberti tacciono. La vilta' del terrorista e' una spiegazione
piu' che sufficiente. Guai a dubitarne.
Due giorni fa un signore in provincia di Catania ha sterminato la famiglia
e poi ha iniziato a passeggiare per il paese, armato di fucile, sparando
sulle finestre e su ogni cosa che si muoveva.
E' l'ennesimo episodio di una lunga escalation che - qualcuno avesse occhi
per guardare - dimostra che i comportamenti dei kamikaze (suicidi
micidiali, per dirla con Franco) non si spiegano con qualche idiozia sulla
religione islamica. Il Pirellone, la strage di Lugo in Svizzera, l'altra
recente strage siciliana, quella di Helsinky, Columbine. Episodi
individuali, avvenuti in occidente, rispetto ai quali le semplificazioni
che chiamano in causa il fanatismo religioso non reggono.
Accanto all'ipotesi del fanatismo religioso se ne affaccia dunque un'altra,
quella della disperazione. E si noti un fatto: la decisione di uccidere
delle persone prima di morire fa pensare che la depressione non c'entra
molto. Il depresso e' avvolto da sensi di colpa, si vuole "punire". E'
convinto di essere il responsabile principale delle sue sventure.
Qui, viceversa, abbiamo a che fare con persone che vogliono soprattutto
punire altre persone, e sono disposte, pur di poterlo fare, a pagare con la
propria vita. Qui non c'e' melanconia, c'e' furore.
Credo che riflettendo su questo aspetto ci avviciniamo a un punto cruciale
del problema.
Ci troviamo di fronte alla percezione diffusa di una persistente tortura
psicologica, di una persecuzione che non riesce a risolversi, a trovare
risposte. Il gesto kamikaze si configura, rispetto a questa problematica,
come gesto liberatorio, sebbene estremo.
Se questa chiave di lettura e' mimimamente corretta, c'e' da chiedersi se
anche il terrorismo islamico non vada inquadrato in una fenomelogia di
questo stesso genere. Con la sostanziale differenze che in questo caso
assume una configurazione "di massa". Se le cose stanno cosi', si potrebbe
iniziare a pensare che il nemico potrebbe non avere una vera identita'. O
almeno che l'identita' politica o religiosa non e' cosi' pertinente
rispetto alla reale natura del problema. E quale sarebbe dunque la natura
del problema ? Andra' cercata nel tipo di costrizioni, implicite o
esplicite, che sono all'origine dei comportamenti distruttivi (individuali
e collettivi).
Se dovessi trovare una parola che coglie il nocciolo dell'intera questione
sceglierei questa: debito.
La causa principale del suicidio micidiale sono coloro che nell'espressione
dialettale romanesca vengono definiti i "cravattari" . Con questa
espressione non si allude al venditore di cravatte. Si allude invece a chi
tira per il collo le persone. Meglio: a chi attraverso il meccanismo
economico riesce ad esercitare una "stretta" sul flusso del sangue degli
altri. In italiano, ovviamente, lo "strozzino". Nell'impero dell'economia
la figura dello strozzino, storicamente esecrata, viene elevata a nuova
dignita': esezione del credito. E' il mestiere piu' ricercato negli annunci
di lavoro sui quotidiani.
La natura del problema assume configurazioni individuali, che riguardano
vicende personali, e configurazioni collettive, che riguardano i popoli e
il debito internazionale. Esistono individui "strozzati" ma esistono anche
interi popoli strozzati.

Probabilmente "Dogville" non e' un capolavoro. Ma il film ha almeno un
grande merito: rivela in modo crudo dove si situa il limite, il discrimine,
tra solidarieta' pelosa e rispetto degli altri. Rispetto inteso nella sua
forma non retorica, sostanziale.
Il dramma della fuggiasca protagonista e' lacerante: viene progressivamente
distrutta dalla solidarieta' interessata di una comunita' rurale.
Solidarieta' che si trasforma progressivamente in una serie infinita di
piccoli e avvilenti ricatti quotidiani.
Alla fine la protagonista sceglie la vendetta e lo sterminio. Stretta
nell'alternativa tra il gangsterismo e le torture quotidiane che gli
vengono inflitte dalla torbida mediocrita' del paese, sceglie di tornare al
gangsterismo.
Ci pensi, se ancora sa pensare, la sinistra moralista.

Rattus