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Discussione: Le macerie dietro...

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    Predefinito Le macerie dietro...

    ...Andreotti

    Vite sdirupate

    PASQUALINO BARRECA
    I baffoni spioventi, l’altezza da ufficiale dei corazzieri, gli occhiali da presbite che gli ingigantiscono gli occhi, l’aria da uomo all’antica, danno a Pasqualino Barreca l’aplomb del giudice dell’Ottocento, capitato per errore nei due secoli successivi. Diventò famoso, Barreca.
    Non per avere disseminato Palermo di ergastoli e condanne a secoli di galera, ma anche di assoluzioni, in tempi in cui i pentiti non si trovavano, come si trovarono negli anni ’90, al supermercato della resipiscenza. Neanche per avere presieduto il secondo maxiprocesso contro Cosa Nostra.
    Diventò famoso suo malgrado, Barreca, il 15 di ottobre del 1991: quel giorno Pietro Vernengo, boss di corso dei Mille, era ricoverato nell’ospedale oncologico Maurizio Ascoli, una struttura sanitaria inserita nel contesto di quella terra di nessuno che è l’ospedale Civico di Palermo.
    Era affetto da una malattia grave, Vernengo: talmente grave che, nel primo pomeriggio, se la “sfilittiò”, si allontanò indisturbato, in pigiama.
    Scoppiò un caso: la mafia aveva ammazzato da neanche due mesi l’imprenditore Libero Grassi, era tornata a spadroneggiare indisturbata, i capicosca stavano tranquillamente nelle infermerie delle carceri o in ospedale e un boss poteva permettersi di fuggire così.
    Montò l’indignazione, scattò la caccia al colpevole.
    Che non fu individuato nei poliziotti che non sorvegliavano il boss, o nei loro capi che non avevano disposto la vigilanza; né nei medici che avevano sentenziato che la malattia era grave, gravissima.
    Il colpevole fu lui, Barreca, che, basandosi sulle perizie sanitarie e su una vigilanza che sarebbe dovuta essere attentissima, aveva concesso gli arresti ospedalieri: l’allora ministro della Giustizia, il socialista Claudio Martelli, chiese la testa del giudice.
    Non ci volle molto tempo, al Csm, per rendersi conto che le accuse erano infondate.
    Il caso disciplinare fu presto e inevitabilmente archiviato.
    Ma per Barreca fu comunque l’inizio della fine: nel giro di un paio d’anni gli organizzarono la festa.
    “Avvicinabile, disponibile, di lui ci si poteva fidare, ‘n te manu di…” Il repertorio più classico dei pentiti gli fu rovesciato addosso: lo proto sciolsero all’udienza preliminare, ma la procura di Caltanissetta non si arrese, fece ricorso e la Corte d’appello e rinviò a giudizio l’ormai anziano presidente.
    Che subì anni di processi: lo accusavano di aver venduto la sentenza contro Tizio e lui esibiva il documento della condanna di Tizio all’ergastolo. Dicevano che aveva “proditoriamente” assolto i tre boss - Nitto Santapaola, Mariano Agate e Francesco Mangion - accusati di avere ucciso il sindaco di Castelvetrano e lui ribatteva che le prove purtroppo dimostravano il contrario.
    Tanto è vero che nel ‘96 un mazarese, Vincenzo Sinacori, si pentì e si autoaccusò del delitto, determinando pure la condanna dei complici. Finalmente - siamo già a giugno del 1998 - il tribunale stabilì che Barreca era innocente.
    Sentenza confermata, in secondo grado, nell’aprile di quest’anno.

    LUIGI CROCE
    Contro l’attuale procuratore di Messina se la prese, una volta, Leonardo Sciascia: che nel 1983 in Parlamento, presentò un’interrogazione chiedendo perché il procuratore di Palermo, Gaetano Costa, ucciso il 6 agosto del 1980, dovette firmare da solo gli ordini di cattura del caso Spatola-Gambino-Inzerillo e se questo isolamento non fosse stato tra le cause dell’omicidio. Croce, con Giustino Sciacchitano, era il titolare del fascicolo di indagine e i due avevano ritenuto che non ci fossero gli estremi per arrestare quei mafiosi.
    La loro dissociazione fu appresa però, oltre che dai giornalisti, anche dagli avvocati dei mafiosi.
    Da qui la croce che Luigi “Gigi” Croce si è portato addosso per anni, nonostante l’assoluzione al Csm.
    La seconda esperienza, da assintumatu il magistrato, la visse quando – anche lui – fu accusato da un pentito di aver accettato che una piccola impresa edile gli facesse gratis dei lavori in casa, in vista di chissà quali future, larghe intese.
    Croce ripescò la fattura, le matrici degli assegni, gli estratti conto della banca; dimostrò insomma che i pagamenti erano stati fatti realmente: così non si arrivò mai all’udienza, perché la sua posizione fu archiviata, data la totale carenza di indizi.
    Tutto questo gli capitò tra il 1993 e il 1996, quando era procuratore aggiunto di Palermo, al fianco di Gian Carlo Caselli. Una posizione scomoda, la sua, magistrato moderato in un ufficio in cui per quelli come lui, Vittorio Aliquò o Giuseppe Pignatone c’era poco spazio. A uno a uno, i quattro pm si fecero da parte.
    Croce, comunque fu l’ultimo ad andar via: lasciò le indagini su mafia e massoneria sul commercialista di Totò Riina, Pino Mandalari. Il Csm gli manifestò la massima fiducia e gli affidò l’incarico di dirigere la procura di Messina.

    CARLO AIELLO
    La sua vicenda è emblematica di come si possa finire nel calderone delle indagini giudiziarie dirette a “far pagare” ad alcuni giudici la colpa di non avere condannato anche senza prove, anche senza pentiti, anche senza riscontri.
    Aiello fu giudice in uno dei tronconi del processo per l’omicidio del capitano dei carabinieri Emanuele Basile.
    Per arrivare a stabilire la colpevolezza dei tre imputati, Giuseppe Madonia, Armando Bonanno e Vincenzo Puccio (uno solo oggi è vivo, Madonia: gli altri sono stati inghiottiti dalla lupara bianca), ci vollero sette processi. Fioccarono assoluzioni per insufficienza di prove, si pensò a giudizi “aggiustati”.
    Ma quando si trattò di trovare un punto specifico per contestare responsabilità ai giudici, trasformati in imputati, non se ne poterono individuare.
    Un delitto eccellente quello che vide come vittima il capitano Basile, comandante la compagnia di Monreale: i killer, la sera del 3 maggio del 1980, approfittarono del fatto che l’ufficiale fosse nell’impossibilità di difendersi; accanto a sé aveva la moglie, in braccio stringeva la figlia di tre anni.
    Madonia, Puccio e Bonanno furono rintracciati, poco dopo avere sparato, in un agrumeto a poche centinaia di metri dal luogo del delitto: dissero che erano lì per un’avventura galante, li portarono via in ceppi ma più d’una volta furono poi assolti e scarcerati, fino alla definitiva condanna, arrivata quando già Bonanno e Puccio erano stati mandati a espiare in eterno, dai loro stessi complici, all’altro mondo.
    Anni dopo, si scoprì che a mollarli lì, in quell’agrumeto, era stato Giovanni Brusca, cuor di leone, che avrebbe dovuto portarli via, ma, preso dal panico, si era allontanato senza aspettare.
    Una voce, una maldicenza.
    Come un’altra maldicenza volle che Aiello avesse aggiustato il processo, in uno dei gradi di giudizio. Tre pentiti (Gaspare Mutolo, Salvatore Cancemi e Francesco Marino Mannoia) dissero che il giudice, facendo eseguire una perizia sul terriccio trovato sotto le scarpe degli imputati (per confrontarlo con quello dell’agrumeto) avesse trovato il cavillo per assolvere.
    Avevano dimenticato un dettaglio: quella perizia l’aveva chiesta la parte civile. Prosciolto dal gip, Aiello dovette affrontare il ricorso in appello. All’udienza di secondo grado però fu la stessa procura generale a chiedere e a ottenere la conferma del proscioglimento.

    saluti

  2. #2
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    ALFONSO GIORDANO
    Provarono a mascariare pure lui, Giordano, l’icona del maxiprocesso, l’uomo che aveva accettato la guida del primo, storico giudizio contro la mafia, mentre altri si defilavano ed evitavano il dibattimento nato dalle dichiarazioni di Tommaso Buscetta e istruito da Giovanni Falcone.
    Avendo al proprio fianco Piero Grasso, oggi procuratore di Palermo, Alfonso Giordano guidò la Corte d’assise per un anno e dieci mesi, fino al dicembre 1987. Le condanne, i boss tentarono di cancellarle disperatamente, fino alla sentenza definitiva della Cassazione (30 gennaio del 1992), che segnò la rottura degli equilibri, l’inizio della stagione di omicidi eccellenti e stragi, contro ex amici e nemici di sempre.
    Il primo tentativo di mascariare Giordano risale alla prima metà degli anni 90.
    Balduccio Di Maggio, quello che disse di avere assistito al bacio tra Andreotti e Totò Riina, parlò di un suo presunto rapporto con Antonio Mattina, coinvolto nell’operazione Golden Market. Mattina era un colonnello medico, incaricato di eseguire le perizie sui tanti boss e picciotti malati che ogni giorno, a turno (gli imputati erano 467) tentavano di far rinviare le udienze, in vista della scadenza dei termini di custodia cautelare.
    I pentiti parlarono di regali al medico, per tentare di corromperlo, di perizie aggiustate per ottenere scarcerazioni legate a motivi di salute.
    Di pressioni che lui, buon amico di Giordano, avrebbe dovuto fare sul presidente.
    Mattina fu assolto a Palermo – dopo una condanna in primo grado, un anno per corruzione – e Giordano prosciolto in istruttoria, a Caltanissetta.
    Un altro pentito, Francesco Marino Mannoia, aveva pure parlato del tentativo di corrompere il presidente con i proventi del sequestro del gioielliere Claudio Fiorentino.
    Ma erano accuse indimostrate e indimostrabili, stabilì il gup nisseno.
    Che però valsero a rallentare la carriera di Giordano, il quale fu spedito (1996) a presiedere la Corte d’appello di Lecce. Tornò due anni dopo a Palermo. Dove visse, agnunatu, fino al giorno della pensione.

    GIOVANNI BARRILE
    Nella sua storia si specchiano e si sintetizzano le contraddizioni della magistratura palermitana, le nemesi storiche cui va incontro chi denuncia e poi finisce denunciato.
    Barrile, alla fine degli anni 70, denunciò un collega, Luigi Urso, accusandolo di avergli raccomandato il figlio del proprio pescivendolo, imputato di contrabbando di sigarette. “Cosa ho fatto di male?”, chiese Urso al Csm, che aprì un procedimento disciplinare contro di lui: “Non favorii mafiosi, ma mi interessai di quel signore solo per motivi umanitari”.
    Non furono molto umani, al Csm, quando radiarono Urso dalla magistratura. Barrile invece proseguì la carriera, segnata anche da una polemica con il collega Giustino Sciacchitano: nel rinviare a giudizio gli imputati di un omicidio, quello dell’albergatore Carmelo Jannì, il giudice istruttore scrisse a chiare lettere che il pubblico ministero, chiedendo il proscioglimento degli imputati, aveva sminuito intenzionalmente gli indizi contro gli accusati.
    Ma nel 1994, in piena tangentopoli, i ruoli si capovolgono e per Barrile, nel frattempo divenuto giudice di Corte d’assise d’appello, finiscono gli onori e cominciano i dolori.
    Un suo “fraterno e carissimo amico”, Salvatore Riccobono, finì nei guai con la giustizia, a Milano, di fronte al gip Italo Ghitti.
    Barrile scrisse al collega, pregandolo di definire al più presto quella posizione.
    Ghitti fece quello che Barrile, 15 anni prima, aveva fatto con il collega Urso: prese carta e penna e scrisse al Csm.
    Il giudice palermitano fu trasferito a Catania. E subito dopo arrivarono i pentiti.
    Salvatore Cancemi disse che i boss gli avevano regalato alimenti e vestiti, pur di ottenere favori.
    Venne fuori la storia di una piccola combriccola da telefilm, formata da due mafiosi, da un commerciante, da un avvocato e, appunto, da un giudice.
    Barrile però riuscì a dimostrare la propria estraneità alla vicenda. Si era trattato di un caso di millantato credito.

    GIUSEPPE PRINZIVALLI
    Giudici mascariati e giudici condannati, come Giuseppe Prinzivalli, che avrebbe ricevuto – parole del pentito Cancemi –una “borsa china di picciuli”. Una somma indeterminata ma quantificata dalla pubblica accusa in settecento milioni.
    Prinzivalli, condannato in primo grado a dieci anni e in secondo a otto, deve ancora affrontare un ulteriore processo d’appello, a Caltanissetta, dopo che la Cassazione ha annullato con rinvio la seconda condanna.
    Quei soldi, ha spiegato Cancemi, sarebbero stati dati al giudice per cancellare la responsabilità unica della commissione di Cosa Nostra per i delitti “strategici”.
    Prinzivalli ha sostenuto in tutte le sedi di non aver voluto cancellare le responsabilità automatiche dei boss e il cosiddetto teorema Buscetta.
    Ma al processo di primo grado, a Caltanissetta, decisero diversamente.
    Si presentò in aula, a testimoniare, il suo ex giudice a latere, Fabio Marino. In mano aveva dei fogli scritti a macchina, con parecchie annotazioni a margine, scritte a mano. “Vedete? – disse al collegio presieduto da Antonina Sabatino, ex cancelliere di Prinzivalli, poi divenuta suo giudice – io avevo scritto questo, lui aggiunse quest’altro”. Vero, dissero i giudici.
    La Cassazione, però, ha stabilito che la sentenza non demolisce affatto il teorema Buscetta (cosa che comunque non sarebbe stata tanto illecita, visto che lo ha fatto la stessa Suprema Corte, due anni fa); e che le cose dette e fatte in camera di consiglio non possono essere valutate.
    La testimonianza del giudice Marino è dunque inutilizzabile

    Riccardo Arena su il Foglio

 

 

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