La globalizzazione economica produce diseguaglianze. La conseguente polarizzazione sociale riguarda sia la concentrazione della ricchezza all'interno delle singole nazioni che una distribuzione iniqua dei benefici e delle perdite tra i pochi paesi sviluppati e la maggioranza della popolazione mondiale. Un'anticipazione dal volume edito da Baldini Castoldi «Ripensare la globalizzazione» dell'economista malaysiano Martin Khor, nonché direttore del Third world network
La santà trinità La Banca mondiale, il Fmi e il Wto sono gli organismi sovranazionali usati dai paesi del nord ricco per tutelare i loro interessi
MARTIN KHOR


La «globalizzazione» è un processo diseguale, caratterizzato da un'iniqua distribuzione dei benefici e delle perdite. Questo disequilibrio genera una polarizzazione tra i pochi paesi e gruppi che traggono dei vantaggi e i numerosi paesi e gruppi sociali che ci rimettono o vengono emarginati. Globalizzazione, polarizzazione, concentrazione di ricchezza ed emarginazione sono quindi collegate dallo stesso processo, al cui interno le risorse dell'investimento, la crescita e la tecnologia moderna sono concentrate in un pugno di paesi (principalmente nel Nord America, in Europa, in Giappone e nei nuovi Paesi in via di sviluppo dell'Est asiatico, i cosiddetti Nic). La maggioranza dei paesi in via di sviluppo rimane esclusa da questo processo, o vi partecipa per vie marginali, spesso dannose per i suoi interessi; ad esempio, la liberalizzazione delle importazioni potrebbe nuocere ai produttori interni dei paesi in via di sviluppo e la liberalizzazione finanziaria potrebbe determinare instabilità. In questo modo la globalizzazione influenza, con modalità diverse, le differenti categorie di paesi. Il processo può essere in generale suddiviso in questo modo: crescita ed espansione nei pochi paesi leader o pienamente partecipi al processo; crescita moderata e variabile in alcuni paesi che stanno cercando di inserirsi nel modello della globalizzazione/liberalizzazione; ed emarginazione o deterioramento per i numerosi paesi che non sono in rado di lasciasi alle spalle problemi gravi come i bassi prezzi dei prodotti e il debito, e che sono incapaci di fare fronte ai problemi della liberalizzazione e di beneficiare delle opportunità offerte dalle esportazioni.
La natura diseguale e iniqua dell'attuale processo di globalizzazione si manifesta nel divario sempre più ampio tra le popolazioni ricche e povere del mondo e tra i paesi sviluppati e quelli in via di sviluppo, e nelle grandi differenze, da nazione a nazione, nella distribuzione dei guadagni e delle perdite.
Il Rapporto sullo Sviluppo Umano del 1992 stilato dal «Programma delle Nazioni Unite per lo Sviluppo» (Unpd) stimava che il 20% della popolazione mondiale nei paesi sviluppati riceve l'82,7% del reddito mondiale totale, mentre il 20% delle persone nei Paesi più poveri ne riceve soltanto l'1,4%. Nel 1989, il reddito medio del 20% della popolazione dei paesi più ricchi era 60 volte più alto rispetto a quello del 20% dei paesi più poveri. Questa proporzione era raddoppiata 30 volte a partire dagli anni Cinquanta.
Quattro anni dopo, il Rapporto sullo Sviluppo Umano indicava che negli ultimi trent'anni solo 15 paesi avevano goduto di una crescita elevata, mentre 89 nazioni si trovavano in condizioni economiche peggiori rispetto a 10 anni prima o anche di più. In 70 paesi in via di sviluppo, i recenti livelli di reddito erano inferiori rispetto a quelli degli anni Sessanta e Settanta. Il documento denunciava che pochi paesi avevano beneficiato ampiamente dei vantaggi economici a spese di molti altri. A partire dal 1980, 15 paesi (principalmente asiatici) hanno avuto tassi di crescita molto più elevati rispetto a qualunque tasso dell'Occidente durante l'industrializzazione.
Nella maggior parte del mondo in via di sviluppo, tuttavia, il declino economico è durato ben più a lungo e lo ha intaccato più profondamente di quanto accadde durante la «Grande Depressione» degli anni Trenta. Mentre la maggioranza dei paesi ricchi si ripresero dalla depressione entro quattro o cinque anni, il «decennio perso» degli anni Ottanta sta in realtà ancora producendo effetti per centinaia di milioni di persone in numerosi paesi dell'Asia, dell'Africa e dell'America Latina. In alcuni casi la popolazione è più povera di 30 anni fa, con poca speranza di un rapido miglioramento.
Il Rapporto su Commercio e Sviluppo del 1997 stilato dall'Unctad ha esaminato in dettaglio queste ampie disparità tra i paesi, così come quelle tra i gruppi di reddito all'interno delle nazioni stesse, disparità che sono associate ai processi di globalizzazione. Il rapporto ha evidenziato che a partire dai primi anni Ottanta l'economia mondiale è stata caratterizzata da una crescente diseguaglianza, e i divari di reddito tra il Nord e il Sud hanno continuato ad allargarsi. Nel 1965 il reddito medio pro capite del «Gruppo dei Sette Paesi più industrializzati» (G7) era pari a 20 volte quello delle sette nazioni più povere; mentre il 1995 si era saliti a 39 volte.
La polarizzazione tra i paesi è stata anche accompagnata da una crescente disparità di reddito all'interno dei paesi stessi. A partire dai primi anni Ottanta, la quota di reddito del 20% della popolazione più ricca è cresciuta quasi ovunque, mentre le fasce più povere non hanno acquisito vantaggi reali nello standard di vita (in diverse nazioni il reddito pro capite del 20% della popolazione più povera ammonta oggi in media a meno di un decimo di quello del 20% della fascia più ricca), e anche la quota della classe media è diminuita. La crescente disparità è evidente anche in paesi in via di sviluppo più o meno fortunati, e in tutte le regioni, compreso l'Est asiatico, l'America Latina e l'Africa.
Secondo le analisi del Rapporto su Commercio e Sviluppo, questi andamenti sono stati generati da una serie di forze scatenate dalla rapida liberalizzazione, la quale crea maggiori disparità favorendo certi gruppi di reddito rispetto ad altri. Tra questi andamenti ritroviamo: la crescente disparità salariale, sia al Nord che al Sud, tra operai specializzati e non specializzati (dovuta principalmente alla diminuzione dei posti di lavoro nell'industria per gli operai non specializzati e alle pesanti riduzioni assolute dei loro salari reali); l'ottenimento di maggiori redditi di capitale rispetto a quelli prodotti dalla forza lavoro, con quote di profitto in crescita ovunque; la nascita di una nuova classe benestante (i «rentier») a seguito della liberalizzazione finanziaria e della rapida crescita del debito (nei paesi in via di sviluppo, il governo era impegnato non solo a rimborsare il debito pubblico, ma anche a distribuire il reddito dai poveri ai ricchi); e i vantaggi dovuti alla liberalizzazione dei prezzi agricoli a beneficio principalmente dei commercianti piuttosto che dei contadini.
La crescente diseguaglianza evidenzia alcuni aspetti particolarmente inquietanti. In primo luogo, l'accresciuta concentrazione del reddito nazionale nelle mani di pochi non è stata accompagnata da maggiori investimenti e da una crescita più veloce. «La vera causa di preoccupazione è questa combinazione di crescenti profitti e stagnazione dell'investimento, di aumento della disoccupazione e salari ridotti». Secondariamente, alcuni dei fattori responsabili di questa maggiore disparità in un mondo globalizzato scoraggiano l'investimento e contemporaneamente rallentano la crescita. Ad esempio: il veloce ritmo della liberalizzazione finanziaria ha allontanato la finanza dal commercio internazionale e dall'investimento; i tassi di interesse più elevati, dovuti a politiche monetarie restrittive, hanno aumentato i costi di investimento e spinto gli imprenditori a concentrarsi, invece, sulla compravendita di attività di seconda mano; il vantaggio assegnato dai flussi finanziari globali alla liquidità, e il loro rapido afflusso e deflusso nei/dai mercati finanziari alla ricerca di guadagni veloci hanno minato «l'energia vitale» necessaria per impegni di investimento a più lungo termine in nuove attività produttive; mentre le ristrutturazioni societarie, il taglio di manodopera e la repressione dei salari hanno aumentato l'incertezza del posto di lavoro e del reddito.
Minata da numerosi punti deboli, la maggior parte dei paesi del Sud non è stata in grado di ottenere vantaggi dalla globalizzazione. L'economista indiano Deepak Nayyar esamina questo fenomeno di «sviluppo diseguale», evidenziando come la globalizzazione benefici principalmente il mondo sviluppato, mentre nel mondo in via di sviluppo i vantaggi raggiungono solo pochi paesi. Sul finire del XX secolo solo 11 Paesi in via di sviluppo costituivano parte integrante del processo di globalizzazione. Nel 1992 essi contribuivano per il 66% delle esportazioni totali provenienti dai Paesi in via di sviluppo (partendo dal 30% del periodo 1970-1980); ne decennio 1981-1991 contribuivano per il 66% degli afflussi annuali di investimento straniero diretto (Fdi) nei Paesi in via di sviluppo, e per la maggior parte degli investimenti finanziari nel mondo in via di sviluppo. Da allora alcuni di questi 11 paesi sono stati fortemente colpiti da crisi finanziarie, dall'indebitamento e da un rallentamento dell'economia, stemperando così ulteriormente il tasso di successo del Sud nell'integrazione nell'economia mondiale.
Le debolezze del Sud traggono origine da diversi fattori. Tanto per cominciare, i paesi in via di sviluppo erano economicamente deboli, e questo a causa della mancanza di una capacità economica interna e di una fragile infrastruttura sociale conseguente all'esperienza coloniale. Furono resi ancora più deboli dai bassi prezzi all'esportazione e da un significativo declino dei termini di scambio, così come dalle crisi debitorie e dal fardello imposto dal rimborso del debito. Le condizionalità politiche legate ai pacchetti di rinegoziazione dei prestiti ostacolarono la ripresa di numerosi paesi e portarono a un ulteriore deterioramento dei servizi sociali. Date le diverse capacità di Nord e Sud, lo sviluppo della tecnologia (specialmente quella delle informazioni e delle comunicazioni) ha ampliato ulteriormente il divario. In aggiunta a questi sfavorevoli fattori internazionali, diversi paesi in via di sviluppo sono anche stati caratterizzati da regimi dittatoriali, abuso di potere e cattiva gestione economica, tutti elementi che minarono il processo di sviluppo. Tutti questi fattori indicavano che il Sud si trovava in una posizione debole per affrontare le sfide poste dalla globalizzazione, poiché in esso non erano presenti le condizioni per avere successo nella liberalizzazione. Data la mancanza di condizioni favorevoli e di preparazione, la rapida liberalizzazione fu più causa di mali che di benefici.
La debolezza del Sud ha origine anche dalla mancanza di una forza di contrattazione e negoziazione nell'ambito delle relazioni internazionali. Essendo pesantemente indebitati e dipendendo da aiuti economici bilaterali e da organizzazioni multilaterali per la concessione di prestiti, i paesi in via di sviluppo sono stati prosciugati della loro capacità di negoziazione (persino in materia di condizionalità di prestito). I poteri delle Nazioni Unite, all'interno delle quali il Sud gode di una posizione più favorevole, sono stati diminuiti, mente il mandato e i poteri delle istituzioni sotto il controllo dei paesi sviluppati (il Fmi, la Banca Mondiale e il Wto) sono stati enormemente accresciuti. Il Nord è in grado di influenzare le istituzioni di Bretton Woods e il Wto affinché questi modellino il contenuto della globalizzazione secondo le sue necessità e formulino delle politiche che i paesi in via di sviluppo devono accettare.
Nonostante il Nord si trovi in una posizione dominante e si sia preparato per farne uso in modo da favorire il proprio controllo dell'economia globale, il Sud non è comunque rimasto senza difese, ma può organizzare meglio le sue reazioni e proposte.
(....) I paesi sviluppati sono in ottima posizione per decidere l'agenda della globalizzazione. Sono ben organizzati al loro interno, dispongono di personale preparato nei dicasteri che si occupano di commercio e finanza, e di esponenti del mondo accademico e di gruppi di esperti, privati o semi-governativi, che collaborano all'ottenimento di informazioni e alla pianificazione delle politiche e delle strategie. Dispongono inoltre di associazioni e di gruppi di pressione ben organizzati, legati alle grandi imprese e alle istituzioni finanziarie nazionali, le quali esercitano una grande influenza sui dicasteri governativi. I paesi sviluppati hanno anche istituzioni e meccanismi che li aiutano a coordinare le loro posizioni e le loro politiche, ad esempio la Commissione Europea, l'Ocse e il G8, con le loro agenzie ed enti sussidiari.
Per contro, i paesi in via di sviluppo non sono ben organizzati al loro interno. I ministeri che si occupano del collegamento con l'economia globale non dispongono di personale a sufficienza, specialmente in relazione ai rapidi sviluppi che avvengono nel processo di globalizzazione e nelle negoziazioni globali. Il settore accademico e i pochi gruppi di esperti esistenti non sono attrezzati per ottenere e accertare le informazioni relative agli andamenti della globalizzazione, e ancora meno per formulare delle proposte di politiche economiche di cui i governi potrebbero avvalersi. Spesso anche i collegamenti tra questi settori intellettuali, le Organizzazioni Non Governative (Ong) e i governi sono fragili. La comunità finanziaria e commerciale non è sufficientemente ben organizzata per monitorare le tendenze globali o per fare pressione sui governi in relazione ai problemi di portata mondiale. A livello regionale si è sviluppata una crescente collaborazione tra i paesi grazie ai raggruppamenti regionali, e tuttavia la cooperazione non ha raggiunto ancora un livello così sofisticato come nell'Unione Europea. A livello internazionale, il Sud si è organizzato nel Gruppo dei 77 e nel «Movimento Non-Allineato». Questi raggruppamenti operano sovente in modo ragionevolmente efficace all'interno della struttura delle Nazioni Unite e nell'ambito dei vertici e delle assemblee di questa stessa organizzazione. Essi non sono tuttavia dotati di un numero adeguato di personale e non sono in grado di tenersi al corrente in modo soddisfacente dei diversi eventi e sviluppi, o di formulare politiche e strategie a lungo termine. Nel Wto, nel Fmi e nella Banca Mondiale, la forza collettiva dei membri dei paesi in via di sviluppo deve ancora manifestarsi in modo efficace, sebbene vi siano dei segnali incoraggianti di una maggiore collaborazione, ad esempio nel Wto.

Il Manifesto
2 12 03