CAPIRE PER PROGREDIRE



I POPOLI DELL’IRAQ, DELL’AFGANISTAN E DELLA PALESTINA NELL’AVANGUARDIA DELLA LOTTA



Miguel Urbano Rodrigues



Nel 1789, quando il popolo di Parigi prese la Bastiglia e, successivamente, Luigi XVI fu preso e decapitato, l’Europa delle Monarchie di Diritto Divino appoggiate dall’Inghilterra vide nella Francia un paese senza legge, governato da avventurosi sanguinari. Quindi si formarono coalizioni. Milioni di persone non compresero che la Rivoluzione francese era un avvenimento decisivo per il progresso dell’umanità. Da pochi anni, a Washington, i governanti hanno creato la figura dei “rogue states” (gli stati canaglia) per collocare in questa lista degli obiettivi le future guerre ai paesi che, nell’ambito della loro strategia planetaria, cercano di attaccare e, eventualmente, occupare. L’espressione, intercontinentalmente compresa, non stabilisce frontiere nitide tra Stato, paesi e popoli. Attraverso campagne persuasive di disinformazione, l’obiettivo era chiaro: persuadere l’opinione mondiale che in queste terre senza ordine imperava la legge della giungla imposta dai banditi e dai terroristi. Liberarle e democratizzarle era, pertanto, un dovere civilizzatore. La dottrina del “umanismo militare – ben analizzata da Perry Anderson – ha fornito il supporto teorico alle aggressioni, giustificate nel nome dei grandi principi. E, senza il mandato dei propri alleati, gli USA si sono attribuiti il diritto di provocare guerre quando e dove pareva loro opportuno. L’attacco alla Yugoslavia è stato una prova generale.

Sarebbe ovviamente assurdo stabilire qualsiasi parallelo tra la Francia rivoluzionaria della fine del secolo XVIII e le società afgana ed irachena contamporanee sottomesse ad brutali dittature. Ciò che si è ripetuto è la disinformazione. In entrambe le situazioni storiche è stato fatto uno sforzo sistematico per deformare il significato degli avvenimenti e persuadere il mondo che la guerra era assolutamente indispensabile e che fosse un atto etico.

Tuttavia, la grande bugia riguardante l’Iraq ha funzionato soltanto parzialmente, anche negli USA. I dirigenti satanici (Saddam, Osama Ben Laden e il mullah Mohamad Omar) non sono stati catturati, né si sono trovate armi di distruzione di massa. Si è evidenziato che:

1. I dittatori e ledader fondamentalisti non era l’obiettivo reale.

2. Le vittime di queste guerre sono stati i popoli.



GUERRE DI LUNGA DURATA



Sono trascorsi più di due anni da quando l’Afganistan è stato invaso e le sue principali città bombardate selvaggiamente. In Iraq l’aggressione è iniziata da otto mesi, e Washington – con l’aiuto della Gran Bretagna – l’ha messa in atto, sfidando il Consiglio di Sicurezza dell’ONU. Milioni di persone sono scese nelle strade in 600 città per condannare questa guerra genocida. In entrambi i casi i governi fantoccio insediati dagli USA non hanno controllato la situazione. In Afganistan le truppe straniere, sotto il comando della NATO, praticamente non escono da Kabul, e dalle basi militari. In Iraq il comando statunitense riconosce che è aumentato il caos. E passato del tempo prima che altre due conclusioni si imponessero a settori sempre più ampi dell’umanità:

1. I popoli dei paesi invasi e bombardati, che vengono depredati delle proprie ricchezze, rifiutano in massa l’occupazione straniera. Resistono.

2. Questi popoli, lottando per la liberazione nazionale lo fanno oggi per l’umanità nella grande battaglia che si sta sviluppando contro un sistema di potere dai contorni neofascisti.

Negli UA (e in Gran Bretagna in modo minore) cresce il disorientamento dei responsabili di questa guerra. Nulla è avvenuto come era stato previsto. Nei primi giorni di novembre, l’abbattimento in Iraq di due elicotteri (22 militari morti e decine di feriti) ha fatto da detonatore alle critiche mosse dai settori più disparati. La certezza che in Mesopotamia e in Asia Centrale sia appena iniziata una guerra che, secondo il presidente Bush, sarebbe terminata in aprile con una grande vittoria degli USA acquista le dimensioni di un incubo per gli elettori della grande repubblica. Ciò che fa disperare l’americano comune non è tanto il fatto di dover prendere coscienza dei crimini ripugnanti commessi dalle proprie forze armate, e neppure sapere che in Afganistan e in Iraq rovine e musei, che erano patrimonio dell’umanità, sono stati bombardati dall’USAF o saccheggiati davanti all’indifferenza dei “marines”. Gli egoismi propri di una società del consumo sempre più disumanizzata dalla Mc World Cultura funzionano da difesa. Ciò che soprattutto genera angustia negli elettori è lo scoprire che sono stati ingannati e anche il timore che quelle guerre lontane finiscano in un disastro o in un’umiliazione, come avvenne in Vietnam.

Perfino il vice segretario della Difesa, Paul Wolfowitz, uno degli ideologi della strategia di dominio planetario, ha riconosciuto (comparndo depresso in televisione, dopo il bombardamento dell’hotel di Bagdad nel quale era alloggiato) che la resistenza irachena è ben organizzata e che è prevedibile un conflitto prolungato. Il proconsole a Bagdad, Paul Bremer, e gli attuali comandanti, generali Abizaid e Sanchez, hanno la stessa opinione. Ora non è possibile ripetere il ritornello di Al Qaeda e attribuire a Ben Laden e ai seguaci di Saddam Hussein azioni che rivelano un alto livello di organizzazione raggiunto in così poco tempo dalla resistenza del popolo dell’Iraq all’aggressione degli USA e della Gran Bretagna.

Il disorientamente dell’alto comando statunitense assume aspetti grotteschi. Un esempio espressivo si è avuto quando fu abbattuto il secondo elicottero. La prima nota ufficiale ammetteva che il veivolo sarebbe caduto per un’avaria meccanica. Ma le dichiarazioni dei testimoni che descrivevano come l’elicottero era stato abbattuto da un missile terra-aria obbligarono la forza aerea a riconoscere ciò che era ovvio. La reazione, inaspettata, fu accolta con spavento. Il comando decise di bombardare, come rappresaglia, il quartiere nel quale l’elicottero era caduto. Negli ultimi giorni aree urbane nelle quale soldati yankee erano stati attaccati iniziarono ad essere bombardate in diverse città, nel quadro di un’operazione denominata “Martello di ferro”. Queste iniziative riportano alla memoria per la loro irrazionalità e inefficacia le vendette delle SS naziste. Al Pentagono, un gruppo di generali ha dedicato molte ore a studiare il film “La battaglia di Argel”, di Pontecorvo, allo scopo di trarre insegnamenti dalla feroce repressione che i paracadutisti del generale Massu scatenarono nel 1957 in quell città contro la popolazione mussulmana, con la speranza illusoria di annichilire così il Fronte di Liberazione Nazionale-FLN.

A quanto pare non sono giunti ad alcuna conclusione. Ma l’iniziativa di per sé esprime la mentalità nevrotica che si è istallata al Pentagono.



TRA LA TRAGEDIA E LA FARSA



L’atmosfera di sconfitta e paura identificabile nelle caserme statunitensi è messa in evidenza dagli articoli e dalle interviste pubblicate dai cosiddetti mass media. La morte giornaliera di soldati, uccisi dai proiettili o vittime delle mine che distruggono i veicoli che viaggiano, contribuiscono a rendere una routine i commenti del tipo: “domani tocca a me…” e “che ci faccio io qui?”.

Le pattuglie, quando si trovano in luoghi pericolosi, sparano contro tutto ciò che si muove, compresi i bambini, i cani e i gatti. Una delle conseguenze di questo clima di paura e l’aumento del massacro di civili. I soldati statunitensi non sono né peggiori né migliori di altri. Il loro abominevole comportamento è causato dall’ingranaggio che li ha portati nel calderone iracheno. Il corpo degli ufficiali, soprattutto ai livelli superiori, è contaminato dal seme del fascismo. E quando è così, i “boys”, alla base della piramide, iniziano a commettere crimini abbietti. Riguardo alla mattanza di Mazar-i-Sharif, il saccheggio di Kandahar e il taglio delle lingue ai prigionieri, a Seberghan, in Afganistan, sono già state scritte migliaia di parole. Qualche volta le immagini più drammaticamente rivelatrici del livello di disumanizzazione al quale sono scesi gli invasori statunitensi, trasformati in parti di una macchina mostruosa, sono le foto dei bambini iracheni e afgani (alcuni con meno di sei anni) mostrate il 10 novembre dal canale televisivo arabo Al Jazeera, poi diffuse in decine di paesi. Questi bambini appaiono ammanettati e perquisiti dai soldati dell’esercito degli USA.

Lo stesso giorno, la BBC, in un’intervista ad un medico britannico della ONG Medact, ha avvertito che è in atto una tragedia: la salute delle prossime generazioni degli iracheni sarà gravemente colpita dalle conseguenze della distruzione dei sistemi di acqua potabile, dalla mancanza di vaccinazioni di base e dalla contaminazione dell’atmosfera provocata dagli incendi dei pozzi petroliferi.

Servizi giornalistici firmati da giornalisti seri e di prestigio come l’inglese Robert Fisk e l’australiano John Pielger, articoli di Michel Chossudovsky e della “Monthly Review” abbozzano di Bagdad, Mosul, Tikrit, Fallujah e altre città del paese, quadri danteschi di una terra da cui è scomparsa la frontiera tra il reale e l’irreale. Le truppe degli USA, compresi i suoi corpi di ufficiali, si inseriscono in questo mondo inimmaginabile come completa alluciazione. Si muove, ha agito, pensa, spara e uccide, imitando ora un personaggio delle tragedie Euripidee, ora figure dei racconti di Garcia Marquez.

E’ improbabile che Bush e Rumsfeld non sappiano neppure che Euripide è esistito. La poca padronanza dei due con la storia e con la conoscenza del teatro greco non impediscono tuttavia che la “soluzione” trovata dal Pentagono esprima bene il panico e la demoralizzazione della truppa.

Rumsfeld e i suoi generali affermano che non ci sarà una riduzione immediata degli effettivi dell’esercito di occupazione. Una misura di questo tipo è militarmente impensabile di fronte alla dimensione delle azioni armate della resistenza. Inoltre sarebbe interpretata come una capitolazione. Tuttavia, la decisione di sostiuire rapidamente i 128.000 soldati e ufficiali degli USA che si trovano inIraq con un numero di militari mobilititati da poco conferma la sfiducia che nutrono gli stessi capi dell’esercito di occupazione.

La speranza del Pentagono che la Francia, la Germania e la Russia – i cui eserciti professionali sono rispettati a Washington – partecipassero all’occupazione dell’Iraq si è scontrata con il rifiuto categorico dei governi di quei paesi. Il contingente polacco, italiano e spagnolo sono inespressivi, e i distaccamenti inviati, su richiesta di Aznar, dalle repubbliche centro-americane richiamano alla memoria truppe da operetta. La Hollywood collusa con il potere ha manifestato, dall’inizio dell’aggressione al popolo dell’Afganistan, la sua disponibilità a collaborare con la Casa Bianca. Ha ritirato l’offerta quando l’Iraq è stato invaso e occupato. Tuttavia, oggi gli USA sembrano sempre più difficilmente convincenti nell’apologia di grandezza militare. La Corea e il Vietnam hanno colpito molto il mito dell’eroismo dei “marines” e dei ragazzi delle truppe di linea, e ancor di più, il genio strategico dei suoi generali, costruito dopo la guerra contro il Giappone e la Germania (1).

Gli USA, in seguito all’implosione della Russia, dispongono di una superiorità militare opprimente. Non è prevedibile l’emergere di una potenza che sia in condizioni di avvicinarsi, in armamenti, ad un livello pari al loro.

la capacità di distruzione delle sue forze armate è praticamente illimitata. E’ stato dimostrato durante la Guerra del Golfo del 1990, ha avuto conferma in Yugoslavia e ora nella nuova devastante aggressione all’Iraq.

Tuttavia, l’indiscutibile superiorità militare degli USA è messa in discussione quando, nei paesi occupati, le sue forze terrestri sono obbligate a scontrarsi con nemici che combattono contro di loro una guerra non convenzionale. I risultati raggiunti in Afganistan e in Iraq dalla resistenza richiamano l’attenzione sull’incapacità del comando statunitense e dei suoi effetti sul morale delle truppe. La distruzione, il giorno 15 novembre, dei altri due elicotteri (17 morti) ha creato un’atmosfera di panico nelle basi della forza aerea. Secondo voci del Pentagono, gli attacchi della resistenza aumentano ad un ritmo allarmante. Attualmente avvengono tra trenta e quaranta azioni offensive al giorno contro gli occupanti. Inizialmente erano attacchi isolati, a tiro, in zone urbane, o iniziative tipo kamikaze. Ora, nel deserto, nelle montagne, nelle città si moltiplicano le imboscate, le esplosioni di mine e di autobombe. Le forze patriottiche hanno iniziato ad utilizzare un armamento più sofisticato. Di recente, treni, convogli di rifornimenti, colonne in marcia, obiettivi strategici fissi sono colpiti da mortai pesanti, lancia granate e anche da missili terra-terra. Il sabotaggio degli oleodotti e delle istallazioni petrolifere ha raggiunto una frequenza quasi giornaliera. La produzione di petrolio, che superava i 2 milioni e 100 mila barili al giorno nel mese precedente l’inizio della guerra è crollato quasi alla metà. Gli attacchi contro la sede dell’ONU e dell’edificio della Croce Rossa Internazionale, contro le istallazioni del governo fantoccio di transizione, contro l’hotel dove si trovava Paul Wolfowitz, contro la caserma italiana di Nassiriya, e numerose caserme statunitensi lasciano trapelare, secondo il Pentagono, un elevato livello di preparazione, capacità tecnica ed organizzazione. Quasi contemporaneamente, nonostante la pressione a cui sono sottoposte, l’ONU e la Croce Rossa Internazionale, hanno deciso di ritirare dal paese tutto il loro personale straniero, adducendo la generale insicurezza esitente. Nel frattempo, le parate della triade USA-Gran Bretagna-Spagna sono state scosse dal trasferimento in Giordania del personale diplomatico dell’Ambasciata di Spagna. Aznar, il più servile degli alleati di Bush, non è riuscito ad evitare la misura, che mette in luce le fragilità della coalizione. In Italia, la morte a Nasiriya di 19 soldati e carabinieri e di due civili ha provocato emozione ed un’ondata di critiche al governo. Berlusconi è in una situazione difficile. Le proteste contro la guerra, che richiedono il rientro delle truppe, assumono lì grandi proporzioni. Possono e devono tenersi in differenti paesi europei.

L’ampiezza dei risultati militari ottenuti dalla resistenza ha fatto sì che negli ultimi giorni la Casa Bianca, che ad ottobre comunque si era opposta ad un cambiamento di calendario, modificasse subito inaspettatamente il discorso riguardo al futuro del paese. Ora il presidente e il Pentagono hanno iniziato a parlare di un’anticipazione del “trasferimento dei poteri al popolo dell’Iraq”. La manovra non trae in inganno. Si parta già di istallare a giugno un “governo autonomo di transizione”. Si tratterebbe di sostituire un governo fantoccio con un altro sempre tutelato, ma con una maschera di indipendenza. Perché tanta fretta ora? Il fantasma del Vietnam sta togliendo il sonno agli strateghi del Pentagono. In un’orizzonte oscuro inizia a prendere forma il crollo di tutta la trategia concepita per l’eternità.



L’ARRINGA DI BUSH



Negli USA la propaganda e la contro informazione stanno funzionando male. A volte lo sforzo per ingannare l’opinione pubblica ha degli effetti controproducenti. Il tentativo di trasformare la sodatessa Jessica Lynch in un’eroina nazionale è fallito. Nel libro nel quale descrive la sua “odissea” – scritto da un giornalista – afferma di essere stata violentata. Tuttavia, nella presentazione la giovane, rispondendo a delle domande, dichiara di non aver sparato neppure un colpo e che non si ricorda di nulla perché era svenuta. I medici iracheni che le hanno salvato la vita dopo l’attacco che distrusse il veicolo sul quale viaggiava, hanno definito il libro una frottola calunniosa.

L’indigenza mentale di George W. Bush appare più evidente in queste settimane. Il Presidente sente la necessità di intervenire ancora. Ma le sue arringhe, poco intelligenti, fanno danni invece di aiutare. La conferenza stampa di inizio novembre è stato un disastro mediatico. Bush ha cercato di persuadere i giornalisti che le cose in Iraq vanno sempre meglio, e che il popolo [iracheno], nonostante alcune situazioni deplorevoli, inizierebbe a capire i benefici della solidarietà degli USA, che lo hanno liberato e fanno un grande e generoso sforzo per aprgli le porte della democrazia, del benessere, della felicità.

Ha parlato alla stampa dell’avanzamento della ricostruzione del paese nel momento in cui bombe e missili americani, in operazioni di vendetta, tornano ad esplodere nelle città irachene. Nel suo linguaggio peculiare ha chiamato messaggeri della democrazia e della libertà i soldati degli USA che mitragliano la popolazione e ha elogiato i mercenari e i traditori che collaborano con l’esercito di occupazione.

Ha insistito con enfasi sul fatto che il suo obiettivo prioritatio è “democratizzare tutto il Medio Oriente”.

Nel contempo ha definito pericolosi terriristi, assassini e banditi i combattenti iracheni che mettono in atto le azioni della resistenza (2). Un giornalista ha sintetizzato la sua impressione dell’intervista presidenziale in una breve frase: “è stata un’arringha labirintica, con una struttura kafkiana, ma, sfortunatamente, senza il talento del maestro ceco.”

Al Gore, che ha accompagnato lo spettacolo in televisione, ha rilasciato un giudizio più severo. Secondo lui, Bush sta facendo ciò che sembrava impossibile: la politica quasi fascista che difende – ha affermato – è peggiore di quella del Grande Fratello del romanzo “1984” di George Orwell.

Nella sua enciclopedica ignoranza Bush non riconosce che i resitenti iracheni arabi, che dalle rive del Tigri e dell’Eufrate si oppongono alla crociata della barbarie statunitense, hanno come avi dei popoli che da quattro mila anni sono abituati a combattere contro gli invasori. I loro avi si sono battuti sotto le muraglie di Nimrod e Babilonia, di Susa e Elam, di Ctesifon e Seleucia. Disciendono da popoli che hanno resistito ai romani, ai bizantini, ai mongoli, ai persiani, ai turchi e agli inglesi. Sul fiume che attraversa Bagdad hanno navigato Dario, Alessandro, Traiano, Cosroes, Hulagu Khan, sultani ottomani, imperatori iraniani. Proconsoli britannici hanno lì preceduto l’attuale proconsole di Bush figlio. I resistenti che non accettano l’occupazione statunitense rappresentano il popolo arabo che è il risultato dell’eredità e della fusione di molte popolazioni che hanno lasciato la loro traccia nella terra millenaria della Mesopotania. Chi incarna lì la barbarie sono i generali e si soldati della US Army e della US Air Force.



LA MAREA STA SALENDO



L’esibizionismo di Bush e il suo cavernicolo discorso richiamano l’attenzione, ma non bisogna dimenticare che la sua capacità di intervento personale è molto limitata. Il Presidente è lo strumento ed il simbolo di un sistema di potere neofascista, responsabile della strategia di dominazione planetaria degli USA.

Come combattere questa strategia è oggi la grande sfida posta all’umanità.

Nelle conferenze e nei seminari internazionali si riflette sulla questione. In questo articolo cerco soltanto di richiamare l’attenzione su alcuni aspetti attuali del dibattito.

In primo luogo, mi sempra negativa la considerazione che, in termini pratici non si possa fare qusi niente mentre le forze progressiste che rifiutano la globalizzazione neoliberale e le politiche imperiali che la sostengono non riescano a mettere in piedi un’alternativa credibile al sistema esistente. Questa attitudine porta all’immobilismo e concentra la lotta nei dibattiti teorici, soprattutto nel Forum Sociale Mondiale e in molteplici forum e conferenze che su scala continentale e nazionale manifestanola speranza riassunta dal motto “Un altro mondo è possibile”.

E’ un dato di fatto che senza teoria non ci sia un cambiamentosociale, ed è innegabile che negli ultimi anni la riflessione sulla crisi di civilizzazione si è approfondita molto. Lavori molto creativi di intellettuali marxisti come l’ungherese Istvan Meszaros, il francese Georges Gastaud e l’egizio Samir Amin – tre esempi – rappresentano validi contributi alla comprensione della crisi strutturale del capitalismo, dell’estrema aggressività dell’imperialismo statunitense e degli avvenimenti contemporanei che sono il risultato di entrambe le cose. L’importanza del dibattico teorico genera, tuttavia, in determinati settori, la convizione che la dinamica dei movimenti sociali potra da sé stessa, gradualmente, condurre al superamento del sistema di dominio imperante. Mi sembra, questa, un’idea utopica, che riprende, in un altro contesto storico, la vecchia posizione di Edward Bernstein di fronte alla storia.

I movimenti sociali hanno avuto un ruolo di straordinaria importanza nel risvegliare le coscienze. Ed è imprescindibile che continuino su questa strada. Il significato del suo intervento, della sua capacità di mobilitazione sono così decisivi che le forze che si dicono impegnate ad accelerare la rivolta dei popolo contro il sistema di dominio imperiale si sforzano, in realtà, a frenare l’impeto della valanga scatenata e sviata verso nuove ed inoffensive rotte. Il tentativo di strumentalizzazione dei movimenti – sempre più evidente nel discorso umanista e attraente di molte personalità ed ONG di tendenza socialdemocratica e di un ampio settore delle forze ideologicamente più diverse – ha origine dalla supposizione che il capitalismo, invincibile per il suo potere, non può essere abbattuto e che non si autodistruggerà. L’unica opzione lucida sarebbe, pertanto, lottare per una sua riforma. Parallelamente, la teorizzazione, sviluppata da intellettuali mascherati da marxisti, ma di pensiero neoanarchico, come Toni Negri e John Holloway, funziona, in pratica, da complemento del precedente. Tutto ciò stimola e crea molta confusione, soprattutto nei giovani e negli accademici.

La tesi sulla quasi invulnerabilità del capitalismo e l’inutilità della lotta per il potere è, tuttavia, falsa. I suoi argomenti contribuiscono a dividere i movimenti e sono molte volte accompagnati da un discorso anticomunista che presenta il socialismo come un’utopia.

Succede che il capitalismo non è per la sua stessa essenza umanizzabile. Le tattiche utilizzate per neutralizzare e strumentalizzare i movimenti sociali differiscono molto le une dalle altre. Una di esse è quella che sottomette la lotta contro l’imperialismo e utilizza processi non etici per screditare la solidarietà verso Cuba, verso i Senza Terra del Brasile, verso le organizzazioni guerrigliere colombiane, verso l’Intifada palestinese.

Presentare la situazione creata in Iraq e in Afganistan come un tema prioritario dei grandi dibattiti sul futuro è, con poche eccezioni, un denominatore comune nel discorso dei riformatori del capitalismo. Sembrano dimenticare che il futuro si costruisce nel presente e che ha radici nel passato.

E’ mia convinzione che l’Iraq e l’Afganistan sono, proprio in questa fine dell’anno 2003, gli scenari in cui la resistenza agli USA e alla militarizzazione del pianeta esigono una mobilitazione permanente della solidarietà dei popoli su scala mondiale.

Il disorientamento di Washington non si può nascondere. Le forze di occupazione statunitensi e britanniche sono lì impantanate in una guerra non prevista. Rispondendo alla lotta popolare con una violenza irrazionale, il comando militare acuisce la situazione di caos da lui creata. Bush, in prima fila come sempre, difende ora l’”irachenizzazione” del conflitto, lasciando la responsabilità della “sicurezza” di un esercito nascente di collaboratori. Ha dimenticato ciò che avvenne in Vietnam.

E’ anche evidente chela crisi econimica e finanziara degli USA sta diventando più profonda. Il fallimento delle grandi multinazionali come la Enron, la World Com, la Anderson e altre, l’aumento della disoccupazione, l’espansione della povertà, la svalutazione del dollaro, l’enorme deficit fiscale e commerciale riflettono una crisi strutturale del sistema di grande complessità. Durante questi anni i deficit venivano “compensati” con gli ingressi di capitale straniero. Ma ora questo fiume di denaro non arriva più.

Il deficit della bilancia dei pagamenti potrebbe superare quest’anno i 400 mila milioni di dollari. Il volume degli investimenti stranieri diretti è scesca negli USA a 300 mila milioni di dollari nel 2000 e a 124,4 mila milioni di dollari nel 2001, e a soltanto 30 mila milioni lo scorso anno, volume molto inferiore a quello attratto dalla Cina – la Cina che nel 2002 aveva un attivo di 103 mila milioni di dollari nei suoi scambi con gli USA. Nessuno ora è neppure interessato a comperare titoli del tesoro della patria del dollaro. Il maggiore debito estero del mondo, quasi 7 milioni di milioni di dollari (più del 60% del PIL) inizia a spaventare il governo e la Federal Reverse. Fino a non poco tempo fa l’ingresso torrenziale di capitale europeo e giapponese era un fattore di tranquillità per le autorità monetarie. Ma la fonte si è inaridita.

Il mito della New Economy, concepito per durare secoli, è stato screditato dai fatti. La crisi è diventata strutturale perché la legge dell’accumulazione non funziona più come prima.

Le guerre preventive, il saccheggio delle ricchezze dei paesi aggrediti o trattati come semicoloniali, e la dinamizzazione del complesso industriale-militare sono le risposte ad una crisi strutturale che non può essere superata con le tradizionali ricette per i periodi di recessione. Gli avvenimenti dell’Asia – compresa la Palestina – dimostrano che questa strategia, che configura – come sto insistendo – una assalto alla ragione, sta trascinando gli USA verso una catastrofe politica, militare ed economica.

E’ in questo contesto che la solidarietà con la lotta dei popoli dell’Iraq, dell’Afganistan (e della Palestina, dove il sionismo funziona quale braccio armato dell’imperialismo) diventa un’esigenza per gli uomini e le donne progressisti, di correnti di pensiero molto diverse, ma che identificano nel sistema di potere che ha il suo centro negli USA una minaccia globale alla stessa continuità della vita. Questa solidarietà, intanto, per essere funzionale, dovrà venire espressa in modo fermo, con disponibilità permanente alla lotta, senza complessi né timori.

Questo atteggiamento di serenità e lucidità è difficile da mantenere a causa della propaganda nemica. Il discorso costruito attorno al terrorismo confonde ancora milioni di persone.

Il passaggio della coscienza della critica a crimini commessi in Iraq ed in Afganistan ad un atteggiamento di protesta contro l’occupazione, di denuncia della farsa della “ricostruzione” e della “democratizzazione, è stato neutralizzato con frequenza, frenando, molti paesi, a livello individuale e collettivo, a causa della paura che questa solidarietà venga interpretata come una forma di complicità indiretta con Saddam, Osam Ben Laden e i talebani, come prova dell’indifferenza di fronte ai crimini di questa gente. Questi complessi sono paralizzanti, funzionano a beneficio dei responsabili delle mattanze che avvengono nel Medio Oriente.

Come afferma Chomsky, non si deve dimenticare che il capo del terrorismo di stato nel mondo oggi è Bush.

Chi inalbera le bandiere della libertà sono i resistenti dell’Iraq, dell’Afganistan, della Palestina. Come avanguardia dei suoi popoli emergono come eroi collettivi.

Le notizie che giungono giornalmente da Bagdad e da Kabul dissipano i dubbi: la marea della lotta sta salendo. Dipende molto dalla solidarietà internazionale il fatto che non si inabissi. Ciò che è stato possibile a febbraio e a marzo, quando decine di milioni [di persone] sono scese nelle strade condannando la guerra, è di nuovo alla nostra portata. Con più ambizione. L’intervento dei popoli, quali soggetti della storia, è la più efficace delle armi per combattere la barbarie imperialista.





(1) Visitando in Normandia i campi di battaglia del giugno 1944, nei discorsi con ufficiali frantesi e tedeschi ho ascoltato opinioni simili. Eisenhower è stato, quale comandante supremo, un generale politico. I film di Hollywood non possono soffocare la storia. I tre comandanti operativi nella battaglia furono britannici: Montgommery comandò le forze terrestri; l’ammiraglio Cunningham quelle navali; il maresciallo Tedder quelle aeree. La propaganda che glorificò Patton, omette il fatto che fu l’esercito britannico, a Caen e a Bayeux, che, con l’appoggio delle divisioni canadesi, sopportò nei giorni che furono decisivi per la vittoria alleata, l’attacco massiccio delle divisioni panzer di Rundstedt e Rommel, annientandole con la forze di attacco; il che permise la manovra americana di accerchiamento, a Falaise.



(2) Gli stessi giornali che, a New York e Washington, durante la II Guerra Mondiale definivano eroiche e patriottiche le azioni della resistenza francese e dei partigiani italiani contro le forze di occupazione della Wermacht tedesca, definiscono ora terroristi ed assassini i combattenti che in Afganistan ed in Iraq metto in atto azioni contro i militari degli USA.