Si è aperto ad Addis Abeba il vertice africano sulla siccità. L'Onu spera di trovare una soluzione alla mancanza di acqua che nel continente affligge circa 300 milioni di persone. Ma il summit rischia di chiudersi con una serie di accordi commerciali che potrebbero peggiorare la vita delle popolazioni
Addis Abeba è un ampio altipiano di memoria fascista. Ma a differenza dell'Eur di Roma, qui a 2.200 metri d'altezza le strade larghe e le architetture imponenti di hotel e organizzazioni internazionali del centro si alternano a tante bidonville sparse a macchia d'olio. E' in uno di questi palazzoni, a due passi dal complesso delle Nazioni unite, che si è aperta ieri la Pan African Implementation and Partnership Conference on Water . Un summit che durerà tutta la settimana, ospitato dal governo etiope assieme alla commissione Onu per l'economia in Africa (Uneca) e organizzato dall'Un-Water/Africa, coalizione di organismi privati e pubblici. Ufficialmente un'occasione per portare nuove soluzioni all'annosa questione dell'acqua, ma in realtà uno dei tanti incontri finalizzati alla stipula di partnership con compagnie private. Una mossa che potrebbe soltanto peggiorare la situazione già disastrosa, contribuendo alla perdita da parte delle comunità locali del controllo sull'oro blu.
Un paese in ginocchio
Seppure in una cornice esterna estremamente povera, i rappresentanti governativi e delle più diverse istituzioni internazionali discuteranno a centinaia di chilometri dai bambini che lottano per sopravvivere nei campi profughi di Hartasheik, nella Somali Region, o di quelli dell'Oromia, del Tigrai o di Amhara, alcune tra le regioni più colpite da una siccità che ormai da più di un anno mette in ginocchio intere comunità e rischia di uccidere più di 10 milioni di persone. Molti bacini idrici sono esauriti da mesi, i silos sono ormai vuoti, in alcune località manca l'irrigazione, nella regione di Afar, a Nord, gran parte del bestiame è morto, negli altipiani il crollo del prezzo del caffè ha costretto alla migrazione migliaia di persone. Soltanto una settimana fa il primo ministro di Addis Abeba ha lanciato il suo ultimo appello alla comunità internazionale chiedendo tre miliardi di dollari. "Se non riusciamo a invertire questo trend nei prossimi quattro anni - ha detto Meles Zenawi durante una conferenza con i paesi donatori - la carestia ci ucciderà".
Perché l'Etiopia è ridotta così? E' come se la carestia qui fosse un eterno affare di stato, dal quale non si può fuggire. L'ultima tragedia risale al 1984, quando milioni di persone morirono nell'Ogaden. Eppure di acqua in Etiopia ce ne sarebbe. In gran parte del territorio le precipitazioni, seppure concentrate in pochi mesi l'anno, sono maggiori che in nord Italia, tanto che in alcuni momenti Addis Abeba ha esportato acqua verso il Kenya e il Sudan. "Spesso il problema non è la mancanza d'acqua, ma la sua distribuzione - sottolinea Stephen Donkor, responsabile per lo sviluppo dell'Uneca, presente alla conferenza di Addis Abeba - In molte zone del paese la tragedia avrebbe potuto essere limitata attraverso un sistema di irrigazione, ma così non è stato". E in Etiopia, dove l'economia è al 90% rurale, solo l'1% delle terre, peraltro ancora in mano allo stato, è coltivato con sistemi irrigui.
Gli aiuti non hanno mai risolto la questione. Sono in molti ormai a spostare le cause di tali disastri su altri piani, primo tra tutti quello legato ad amministrazioni corrotte che operano con il beneplacito della comunità internazionale. Tanto che il direttore del Programma alimentare mondiale (Pam), James Morris, già un anno fa doveva ammettere che "la fame è una creazione politica e dobbiamo usare mezzi politici per porvi rimedio".
Nel deserto affamato
L'Etiopia è un po' il simbolo di tutte le tragedie africane, spesso evitabili con gestioni oculate. Questo non significa però che la crisi umanitaria qui non esista. Basta spostarsi dalla capitale per vedere mamme disperate per i loro figli deperiti, famiglie in cammino in cerca di acqua, o gruppi di uomini che per sopportare la fame si drogano. Come accade tra i sopravvissuti di Hartasheik, una cittadina fantasma al confine con il Somaliland, a un'ora di macchina da Jijiga, capoluogo dell'Ogaden. Hartasheik è il regno del qat, la droga che se masticata permette di vivere giorni interi senza mangiare, salvo colorare i denti di verde e ridurre il cervello in poltiglia. Ma oggi non c'è più nessuno. L'immensa piantagione è bruciata dal sole e il panorama è sempre uguale: un deserto infinito di sassi e sabbia. Chilometri e chilometri di nulla, rotti solo da capanne di fango coperte da stracci colorati o da silhouettes di donne cariche di secchi alla ricerca di un pozzo. Le capanne spesso sono abbandonate, gli abitanti morti o emigrati, ma anche quando sono piene non è difficile trovarvi giovani donne accovacciate per terra accanto a bimbi scheletrici. Poco distante da qui, due linee presidiate da imponenti truppe segnano il confine con il Somaliland da un lato e la Somalia dall'altro. Un'area che oggi è diventata un po' la maledizione della popolazione etiope e una manna per i suoi amministratori. Dopo l'11 settembre, infatti, la Repubblica etiope si è trasformata per Washington in uno dei baluardi nella lotta al terrorismo internazionale. Un anno fa il segretario alla difesa Usa, Donald Rumsfeld, per la prima volta in visita nella regione, aveva reso noto che più paesi dell'area avrebbero offerto agli americani l'uso delle strutture militari contro al Qaeda. Un'alleanza di ferro, che fino ad oggi ha fruttato al governo di Addis Abeba più di 87 milioni di dollari, e la sicurezza che la comunità internazionale continui a chiudere gli occhi sulle cause di una carestia per nulla inevitabile.
Corruzione e potere
Sono diversi gli operatori sul campo che accettano di parlare in anonimato per svelare l'arcano della carestia: tutti gli aiuti umanitari vanno canalizzati attraverso uffici governativi, come la commissione per la prevenzione dei disastri, e finiscono tra le maglie di un intricato labirinto burocratico. Se a volte dietro questo filtro c'è l'orgoglio di uno stato mai colonizzato, se non nei pochi anni di occupazione italiana, dall'altro c'è spesso la volontà di ritagliarsi una fetta di risorse a scapito della popolazione. E il filtro non viene solo dal governo federale della capitale, ma anche dai diversi governi locali e dai giochi di potere che le etnie mettono in pratica. Esempio lampante ne è il recente arresto di alcuni amministratori locali che avrebbero nascosto l'entità della crisi all'esecutivo solo per esacerbare gli animi della popolazione e organizzare una ribellione.
La crisi etiope non è un elemento isolato nel quadro africano. Solo nella parte subsahariana ben 40 milioni di persone sono minacciate ogni giorno da gravi carestie e nell'intero continente centinaia di milioni di uomini e donne trovano grandi difficoltà nell'accesso all'acqua. Condizioni che non mutano grazie proprio a summit come quello odierno di Addis Abeba, in cui viene imposto un modello di partnership privato-pubblico che cronicizzare una situazione altrimenti risolvibile.
Tiziana Barucci
Il Manifesto 9 12 03
Il conflitto del Nilo
Il Nilo tocca 10 paesi africani, tra i quali Etiopia, Sudan ed Egitto ed è sempre stata una zona di conflitto per l'acqua. Diversi accordi si sono succeduti nei decenni, fino al 1959, quando Egitto e Sudan si dividono l'intera portata del fiume. Nel 1997 l'Onu nel corso di una conferenza sugli usi non legati alla navigazione dei corsi d'acqua stabilisce due principi di condivisione: l'uso equo e ragionevole e quello dell'innocuità. Ma l'accordo non arriva, secondo Egitto e Sudan il patto sul Nilo non può essere negoziabile; mentre l'Etiopia si richiama all'uso equo per rivendicare i propri diritti. Nel 1999 viene lanciata la Nile Basin Iniziative, in cui i 10 paesi approvano un programma di sviluppo sostenibile. Ma la società civile vuole avere anche lei voce in capitolo e fonda il Nile International Discourse Desk.
Vite agli sgoccioli
Gli effetti della privatizzazione in Mauritania
Nouakchott(Mauritania)
Nessuna grande istituzione internazionale si è risparmiata, nel 2003, nella celebrazione dell'"anno dell'acqua", ricco di eventi e iniziative legati a "questa risorsa così essenziale per la vita". Il vertice di Addis Abeba, ultimo grande incontro internazionale dell'anno, rischia di diventare un altro nome in una lunga lista di riunioni inutili. Dal vertice di Rio nel 1992, i partecipanti si sono ritrovati in decine di summit e forum internazionali, diffondendo diversi documenti pieni di buone intenzioni e di coraggiose raccomandazioni (in generale sempre le stesse). Ma sul campo, la situazione rimane inalterata, quando addirittura non peggiora: si continua a morire di sete o di malattie legate all'acqua un po' in tutti quei paesi dove l'acqua è inquinata. Per spiegare questa anomalia, i nostri esperti hanno risposte sottili: l'acqua è poca. E, per un colmo delle ingiustizie, distribuita in modo diseguale. A Nouakchott, la capitale della Mauritania sorta dal deserto alla fine degli anni '50, l'acqua effettivamente scarseggia. L'aprovvigionamento è del tutto insufficiente per i suoi 900mila abitanti, una gran parte dei quali si ammassano in quartieri periferici totalmente privi non solo di acqua ma anche di elettricità. La "sete urbana" è così diffusa che le autorità hanno preso misure drastiche per ridurre i consumi. In particolare l'orticultura è stata vietata e gli orti, lasciati nell'abbandono, sono diventati immense discariche. A poche centinaia di metri, le piscine dei due alberghi di lusso Novotel e Mercure (Gruppo Accor, 7 miliardi di euro di fatturato nel 2002) sono riempite con migliaia di litri di acqua chiara, rinnovata regolarmente.
La scarsità è selettiva. Il resto della popolazione viene aprovvigionato con un'acqua che, teoricamente, arriva pulita alle fontane disseminate in giro per la città ma che, trasportata nelle case in bidoni di benzina, in condizioni igieniche incerte, arriva spesso inquinata e piena di parassiti. Quest'acqua, spesso non adatta al consumo, costa in media tre o quattro volte di più nei quartieri poveri che nei quartieri ricchi del centro. Eppure, la gestione dell'acqua è ancora un servizio pubblico con tariffa regolamentata. Non ancora per molto: la Mauritania, su pressione della Banca mondiale e del Fondo monetario internazionale, sta privatizzando la Società nazionale dell'acqua. Se si fa riferimento ai risultati della privatizzazione della distribuzione in Ucraina, nelle Filippine o in Argentina, in cui il prezzo dell'acqua è fortemente aumentato a fronte di un servizio carente, non possiamo augurare alla popolazione povera di Nouakchott che i predatori dei grandi consorzi privati si impadroniscano troppo rapidamente delle reti idriche della loro città.
Sia nei paesi ricchi che in quelli poveri, quando il settore pubblico ha abbandonato l'acqua al settore privato, il suo prezzo è aumentato in modo considerevole, tanto che i più poveri non hanno più potuto averne accesso. Ma in gioco vi è la stessa qualifica dell'oggetto "acqua" che, se è riconosciuto come merce, così sarà trattato dall'economia globalizzata: in modo da massimizzare i profitti dei pochi che sono in grado di sfruttarne l'enorme potenziale finanziario. Aaron Wolf, professore all'università dell'Oregon, negli Usa, ha saputo riassumere al meglio questo paradosso: "Gli economisti hanno il merito di ricordare che bisogna rendere redditizi i costi della distribuzione, del trattamento e dello stoccaggio dell'acqua. Ci viene intimato di trattare l'acqua in termini di mercato. Eppure, il mio attaccamento emotivo, estetico e religioso all'acqua mi impedisce di considerarla una semplice merce".
Philippe Rekacewicz-Cartografo, co-autore dell'Atlas mondial de l'eau, ed. Autrement.
Per il diritto all'acqua
Domani(10.12.03) un'iniziativa a Roma. Parla Riccardo Petrella
Una giornata per dichiarare l'acqua un diritto umano universale. L'ha indetta per domani a Roma, al Campidoglio, il comitato italiano per il contratto mondiale dell'acqua, in collaborazione con il comune capitolino. L'iniziativa, a cui parteciperanno parlamentari, eletti locali e rappresentanti della società civile provenienti dalle varie parti del mondo è volta a sensibilizzare l'opinione pubblica sulla necessità di considerare l'acqua un diritto inalienabile, e non una semplice merce. Ne parliamo con Riccardo Petrella, presidente del comitato italiano per il contratto mondiale dell'acqua.
Professor Petrella, come è nata l'idea di questa giornata speciale per l'acqua?
Fin dall'inizio degli anni '90, si è aperto un dissidio tra coloro che vedono l'acqua come un bene di natura economica e coloro che pensano che l'accesso all'acqua debba invece essere riconosciuto come un diritto umano inalienabile. Il 2003, dichiarato dalle Nazioni unite anno internazionale dell'acqua, doveva essere l'occasione per riconoscere l'accesso generalizzato a questo bene. Un'idea che abbiamo affermato con forza nel marzo scorso al Forum alternativo dell'acqua di Firenze, al termine del quale abbiamo proposto al segretario generale dell'Onu di lanciare una giornata speciale sull'acqua. L'Onu, per quanto interessata, ci ha risposto che non le era possibile organizzare l'evento, in considerazione del fatto che l'agenda delle riunioni e degli impegni era da tempo già definita. La abbiamo quindi organizzata noi.
Quali sono gli obiettivi che vi proponete?
Vogliamo in primo luogo affermare la necessità di introdurre il diritto all'acqua sia nella dichiarazione universale dei diritti dell'uomo che nelle costituzioni dei singoli stati. La nostra convinzione di fondo è che non si può lasciare al mercato l'accesso a questo bene primario.
L'orientamento delle istituzioni internazionali e dei governi sembra andare nel verso opposto...
La mercificazione dell'acqua che le grandi istituzioni internazionali, l'Europa e alcuni stati stanno portando avanti è una forma di privatizzazione del politico, che distrugge alla base ogni forma di democrazia rappresentativa. La questione dell'acqua è solo lo specchio di una deriva generale. Ed è per questo che proponiano nuove forme di gestione di questo bene pubblico. Pensiamo a consigli cittadini con poteri decisionali, accanto alle normali forme di democrazia rappresentativa.
Da molte parti, soprattutto in Africa, si stanno sperimentando forme di partnership mista pubblico-privato...
Il fallimento di questo modello è sotto gli occhi di tutti. Non è fallito solo in Africa, dove era profondamente squilibrato a favore delle multinazionali. Ma è fallito anche là dove è nato, ossia in Francia: a Grenoble le società Suez-Lyonnaise e Vivendi si sono viste ritirare le concessioni a causa della loro gestione poco trasparente. Quello delle partnership pubblico-private non è un modello sostenibile. Per questo noi invece proponiamo una partnership pubblico-pubblico, attraverso la creazione di un fondo coooperativo e mutualistico mondiale.
In cosa consiste questo fondo?
Il punto di partenza è il seguente: non dobbiamo lasciare al sistema capitalistico e ai suoi dirigenti il monopolio della gestione finanziaria di beni pubblici di base. Tentiamo quindi di proporre soluzione alternative: reinventare forme di cooperazione e di gestione partecipata da parte dei cittadini. Pensiamo a un fondo articolato mediante casse di risparmio euro-africane ed euro-latino americane. Cerchiamo in tal modo, in questo contesto di globalizzazione senza controllo, di proporre strumenti ridistributivi che possano facilitare l'accesso generalizzato a un bene primario come l'acqua.
Stefano Liberti
Il Manifesto 9 12 03