I crimini del comunismo italiano
di Gustavo Selva
Onorevoli D’Alema, Fassino, Veltroni, Gianfranco Fini, a nome di An e come vicepresidente del Consiglio dei Ministri dell’Italia, è andato ad inchinarsi in Israele davanti alle vittime della Shoah, con il riconoscimento di quella parte di colpa che anche la Storia attribuisce al fascismo e alla Rsi per le leggi e le azioni che diedero un contributo attivo allo sterminio degli ebrei nei campi di concentramento nazisti.
Questa persecuzione, fortunatamente, con la vittoria degli alleati (americani e inglesi in primo luogo per quanto riguarda noi occidentali), finisce il 25 aprile 1945 in Italia e il 9 maggio seguente in Europa; e ne comincia un’altra, quella del comunismo, che compie i suoi crimini nella parte centro-sudorientale e baltica del continente con la sottomissione dei popoli, sradicati dalle loro storie politiche, culturali, religiose e perfino etniche e famigliari con la forza dell’Armata Rossa, con i processi dei “tribunali del popolo” e gli assassinii compiuti con gli stessi metodi della rivoluzione bolscevica leninista e staliniana.
Questo destino toccò anche ad una parte della popolazione di sangue italiano, come testimoniano le foibe in cui furono torturati ed uccisi dal regime di Tito, con la connivenza del Pci, migliaia di nostri connazionali. Credo che nessuno di voi vorrà negare che il Pci del dopoguerra abbia avuto stretti rapporti ideologici, organizzativi e finanziari con il comunismo sovietico per almeno un ventennio dopo il 1945 e che lo “strappo” di Berlinguer, mai ideologico, ma piuttosto metodologico, è degli anni ’80. Nei miei ricordi di giornalista (“Radiobelva”, come voi mi chiamavate) è sempre restato impresso cosa fu il “triangolo della morte” in Emilia-Romagna, le stragi di Schio, di Oderzo, prodotti non delle Brigate Rosse ma di quei partigiani che operavano nel nome e per conto dell’ideologia comunista dell’odio di classe, offrendo l’Unione Sovietica come modello di “Stato socialista dei lavoratori”.
Voi sapete benissimo che nell’Assemblea Costituente ci fu una disputa durata mesi sul primo comma dell’art. 1 della Costituzione: il vostro Togliatti voleva che l’Italia fosse definita una “Repubblica democratica dei lavoratori” (proposta respinta) che, alla fine, con il primo dei compromessi storici Dc-Pci, divenne “fondata sul lavoro”.
Il modello promesso era, dunque, una “Repubblica dei lavoratori”, come quelle che si andavano attuando, con i metodi staliniani, nell’Est dell’Europa. Ed era il Pci che giustificava tutti i processi staliniani, sia che riguardassero il Cardinale Stepinac di Zagabria o l’impiccagione nel 1956, dopo la rivolta ungherese, di Imre Nagy e del generale Maleter, ai quali l’Unità, diretta da Pietro Ingrao, appioppò i marchi d’infamia di “traditori della classe lavoratrice” e di “pedina dell’imperialismo americano”.
Anche da questi rapidissimi cenni, credo che di voi, attuali dirigenti, si possa dire, che siete stati ideologicamente dipendenti da quella politica e che i vostri antenati si sono trovati dalla parte dell’Unione Sovietica, quando nacque il Patto Atlantico, e di Ulbricht quando fu costruito il Muro di Berlino, che un vostro dirigente autorevole dell’epoca definì “il vallo dell’antifascismo”. Nel nazismo, e per la modesta (in termini storici) parte di connivenza del fascismo, noi abbiamo riconosciuto il “male assoluto”. Ma ci fu l’altra ideologia tragica che ha generato il sistema politico comunista, con le sue terribili conseguenze per l’umanità: i gulag, gli stermini di Pol Pot, le carceri dove si tortura, le polizie segrete, i processi sommari con le condanne a morte come avviene tuttora a Cuba, che esponenti come Cossutta e Bertinotti, partner di un ipotetico governo Prodi, considerato un modello avanzato di “democrazia sociale”.
Voi, come Willy Brandt a Varsavia, dovete fare, a mio giudizio, due visite: la prima, in una città simbolo dei crimini commessi dal comunismo. Non avrete che l’imbarazzo della scelta. La seconda visita in Italia, in un luogo dove c’è terra bagnata, per dirla con il titolo del libro di Giampaolo Pansa, dal “Sangue dei vinti” (fatevi, magari, accompagnare dal “mitico” Bulow, alias Arrigo Boldrini, Presidente dell’ANPI, che quelle terre, cui allude Pansa, conosce bene, come conosce i massacri di “fascisti” che vi furono compiuti dai suoi partigiani; forse stavolta “chi sa parli”, come invano ha chiesto Otello Montanari); o a San Giovanni in Persiceto alla tomba del sindacalista delle Acli Giuseppe Fanin, ricordando, con parole esplicite e non con una fuggevole partecipazione a una cerimonia istituzionale, che quella – ed eravamo già nel 1948 – fu una vittima dell’odio contro il “reazionari, i preti, i fascisti” predicato dai dirigenti e militanti del Pci.
Nella mia Emilia-Romagna, dove il Pci era maggioranza assoluta, lo slogan “uccidere un fascista non è reato” furono gli attivisti e militanti ad insegnarlo nelle cellule del partito di Togliatti, fra il 1945 e il ’48. E se oggi voi, più giovani, vi vergognate e condannate quello che fecero i vostri padri, trovate almeno la forza politica di dare un segno di coraggio, di dire la verità, perché “fascisti” allora, nelle Regioni rosse, erano definiti tutti coloro che si dichiaravano e agivano in termini politici come “anticomunisti”. Personalmente vi offro la possibilità di firmare la mia Proposta di legge n. 3726, presentata il 26 febbraio 2003, sull’“Istituzione della giornata a ricordo dei crimini commessi dai regimi comunisti”.
Gustavo Selva