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  1. #21
    memoria storica di PoL
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    Talking ... la noia è finita!...

    cari amici
    è stata senz'altro assai gradita sorpresa constatare questa mattina che 'Miss Elisabeth' [da non confondersi con l'omonima Queen, di ben altra 'stazza' ...] ha onorato questo thread con un commento degno della più alta considerazione e sul cui contenuto dovrò molto riflettere...

    Del resto già si era avuto modo di apprezzare il notevolissimo contributo di raffinata cultura e profonde conoscenze di Miss Elisabeth allorchè in altri thread ha dichiarato [testualmente]...

    ... Dresda è stata solo una piccola ritorsione di quello che i tedeschi hanno fatto a Londra…

    ... oppure, fatto di gran lunga più sconcertante oltre che assolutamente indedito nei forum, ha definito molto interessanti i ragionamenti mongoloidi di Angiolino...

    Se poi Miss Elisabeth è interessata ai miei passati 'rendimenti scolastici' temo che ne resterà un poco delusa. Diciamo che al liceo il mio rendimento era 'passabile' avendo assai più della sufficienza in tutte le materie... tranne una, l'italiano per via di una certa 'incomprensione' esistente tra me e l'insegnate della suddetta materia in tema, diciamo così, di 'intrerpretazione della realtà politica passata e presente' ... Dal momento però che il giudizio degli altri insegnanti era assai lusinghiero [in particolare quello della prof di matematica, anche se era un poco infastidita dal fatto che io risolvessi i compiti a mente, come faceva il grande Gauss, e non per iscritto ...] tale mia 'insufficienza' non ebbe mai effetti pregiudizievoli dal punto di vista della carriera scolastica. Gli anni di università sono stati poi decisamente più agevoli, grazie anche al fatto di essere stato allievo di uno dei più prestigiosi College di Pavia, ed alla fine mi è riuscito di laurearmi con il massimo dei voti...

    Rallegrandomi comunque del fatto che una studiosa attenta e preparata si è aggiunta alla schiera dei miei affezionati lettori, sono lieto di proporre loro nel prossimo post un altro capitolo dell'opera di Benny Morris...

    ... come sempre... buona lettura!...


    --------------

    Nobis ardua

    Comandante CC Carlo Fecia di Cossato

  2. #22
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    Il programma Biltmore




    Winston Churchill fu sempre un deciso sostenitore della causa sionista e il ruolo da lui svolto deve essere ritenuto determinate per il loro successo finale. Dovette cambiare completamente idea però alla fine del 1944, allorché l’alto funzionario inglese Lord Moyne venne assassinato al Cairo da un’organizzazione terroristica ebraica nota come ‘Banda Stern’. Finalmente l’anziano statista aveva realizzato che coloro di cui era sempre stato strenuo partigiano praticavano metodi del tutto simili a quelli praticati dai nazisti… peccato fosse un poco tardi…


    Nell’ottobre 1941 Churchill scrisse in un memorandum governativo segreto [da notare che a quella data gli Stati Uniti, citati nel rapporto, ancora non si trovavano formalmente in guerra con Germania e Italia… - n.d.r.]…

    posso subito dire che se la Gran Bretagna e gli Stati Uniti usciranno vincitori della guerra, la creazione di un grande stato ebraico in Palestina abitato da milioni di ebrei sarà uno dei punti principali da discutere alla conferenza di pace

    Due anni dopo venne riferito che Churchill si era di nuovo impegnato a battersi per la nascita di uno stato ebraico. Nelle tragiche circostanze dell’Olocausto i sionisti sentivano ormai questa possibilità come questione di vita o di morte. Nel luglio 1942 il governo polacco in esilio a Londra riferiva che 700.000 ebrei di quel paese erano stati soppressi. Il dicembre Eden parlava ai Comuni di ‘centinaia di migliaia’ di vittime.
    L’8 settembre 1939 Ben Gurion affermava dinnanzi ai comandanti della Haganah: ‘La prima guerra mondiale ci ha dato la Dichiarazione Balfour. Questa volta la nostra meta deve essere la creazione dello stato ebraico’. Una meta che da allora sarebbe stata costantemente in cima ai suoi pensieri. Ben presto fu affiancato da Weizmann, formalmente ancora a capo del movimento sionista. Nel gennaio 1942 in un articolo per Foreign Affairs questi chiese esplicitamente la creazione di uno stato ebraico nella regione ad ovest del Giordano.
    Nel maggio 1942 a New York una conferenza straordinaria sionista con la partecipazione di dirigenti americani ed europei, nonché di tre membri dell’esecutivo dell’Agenzia ebraica palestinese, votò a favore del cosiddetto Programma Biltmore, così chiamato dal nome dell’hotel dove i delegati si erano riuniti. Il documento era stato preparato da Meyer Weisgal, braccio destro di Weizmann, anche se in seguito il suo contenuto fu attribuito soprattutto a Ben Gurion. Si auspicava che ‘la Palestina si costituisse in stato ebraico nel contesto del nuovo ordinamento internazionale democratico’. La possibilità che lo stato in questione comprendesse solo una parte della Palestina non era scartata in modo esplicito. Il controllo dell’immigrazione e dello sviluppo nazionale sarebbero spettate all’Agenzia ebraica. Ben Gurion pensava di far affluire subito due milioni di ebrei, ipotesi giudicata irrealizzabile da Weizmann.
    Nei mesi precedenti la conferenza sia Weizmann sia Ben Gurion si erano espressi favorevolmente sul trasferimento degli arabi, possibilmente volontario ma in mancanza di alternative coattivo [l’enfasi è aggiunta…-n.d.t.]. Il 30 gennaio 1941 Weizmann incontrava l’ambasciatore sovietico a Londra, Ivan Maiskij. Nella trascrizione dell’incontro di fonte sionista si legge tra l’altro…

    il dottor Weizmann sostiene che se si potessero trasferire mezzo milione di arabi, due milioni di ebrei potrebbero prenderne il posto. Naturalmente questo non è che il primo passo. Quello che poteva accadere il seguito lo avrebbe detto la storia… Weizmann ha poi aggiunto che gli arabi sarebbero stati trasferiti in Iraq e Transgiordania… le condizioni in Transgiordania non sono molto diverse da quelle della zona collinosa della Palestina

    Nell’ottobre 1941 Ben Gurion mise per iscritto il suo punto di vista sul trasferimento in un memorandum intitolato Compendio di politica sionista. Questo esordiva con l’omaggio di rito ai presunti ‘vantaggi’ che il sionismo avrebbe portato ad entrambe le comunità. I trasferimenti poi si potevano evitare e anche in caso contrario i paesi arabi confinanti avrebbero potuto facilmente assorbire coloro che decidevano di trasferirsi. Poi aggiungeva: ‘… un trasferimento massiccio in assenza di pressioni, e piuttosto energiche, è difficile da immaginare…’. Alcuni [circassi, drusi, beduini, sciiti, fittavoli e braccianti senza terreni…] potevano forse essere persuasi ad emigrare. Tuttavia ‘non c’è da aspettarsi che la maggior parte degli arabi sia disposta a partire di sua volontà nel breve arco di tempo che coi è concesso per la soluzione del problema’. La conclusione di Ben Gurion fu che gli ebrei ‘non devono dissuadere altri popoli propensi al trasferimento, [in primo luogo] britannici e statunitensi, dal proporre questa soluzione, ma è bene escluderla dal nostro programma in qualsiasi forma’. Quanto agli arabi che fossero rimasti entro i confini dello stato ebraico si doveva trattarli da eguali, anche se ‘per il nostro paese la presenza di una ingente popolazione incolta e di mentalità retrograda sarà un impaccio perfino nelle relazioni con i paesi arabi vicini’.
    Con il sostegno dei sionisti americani Ben Gurion fece approvare il Programma Biltmore dal Consiglio generale sionista interno nell’agosto 1942 a Gerusalemme, trasformandolo così nella carta politica ufficiale della yishuv. L’obiettivo ultimo del sionismo, uno stato ebraico in Palestina, era così era finalmente chiaro all’opinione pubblica. Sharret può aver giudicato il programma ‘piuttosto utopistico’, ma esso sarebbe rimasto la bussola che guiderà il movimento in una navigazione irta di difficoltà fino all’approdo alla fondazione di Israele del 1947-48.
    Tuttavia, al pari del rapporto della commissione Peel, anche il Programma Biltmore suscitò forti polemiche dentro il movimento sionista. Il gruppo chiamato ‘Fazione B’ [Si’ah Bet, presto divenuto HaTenu’ah LeAchdut Ha’Avodah, ovvero ‘Movimento per l’unità dei lavoratori’…] ruppe con la maggioranza del Mapai di Ben Gurion non essendo disposto ad accettare un implicito compromesso contenuto nel programma, vale a dire che il futuro stato ebraico potesse non comprendere l’intera Palestina. Altri invece, tra i quali Weizmann, avrebbero preferito un approccio più sfumato alla questione dello stato ebraico. Nell’ottobre 1943 Ben Gurion offrì le dimissioni da presidente dell’Agenzia ebraica per costringere Weizmann ad allinearsi o a rinunciare a sua volta alla presidenza dell’Organizzazione sionista mondiale. Nel marzo 1944 un ‘riluttante’ Ben Gurion accettò di tornare al vertice dell’Agenzia e nell’agosto successivo in due tornate elettorali interne [per l’Assemblea sionista e l’esecutivo della Histadrut] prevalse definitivamente. I suoi sostenitori ebbero dal 58 al 66% dei voti.
    L’eclisse di Weizmann in realtà non dipese però dal Programma Biltmore. Dalla sua nascita fino alla metà degli anni ’30 l’Europa era stata la base principale del sionismo, e Weizmann era la quintessenza del sionismo europeo. La catastrofe dell’ebraismo in Europa lo aveva trasformato in un generale senza esercito. I gangli vitali del sionismo erano ormai in Palestina e, in misura minore, negli Stati Uniti. Era quindi naturale che Ben Gurion, politico consumato, capo dell’Agenzia ebraica dal 1935 e punto di riferimento della corrente di maggioranza del sionismo palestinese , finisse con l’egemonizzare l’intero movimento. Alla radice del dissenso tra i due vi erano la tenace fiducia di Weizmann nella forza della diplomazia e in particolare nella volontà della Gran Bretagna, soprattutto ora che Churchill era al timone, e la sfiducia di Ben Gurion in alcuni degli stessi fattori. Quest’ultimo, maturato politicamente sull’aspro suolo della Palestina, alla fiducia preferiva l’azione e alle trattative i fatti. La tensione tra Weizmann e Ben Gurion cessò infine con la completa vittoria del secondo nel 1946. In un certo senso fu Whitehall a dare il colpo di grazia a Weizmann, respingendo la prospettiva di uno stato ebraico indipendente. Al congresso sionista del 1946 egli venne rimosso dalla presidenza dell’Organizzazione sionista mondiale da Ben Gurion e dai suoi seguaci. Non pago della vittoria il vendicativo Ben Gurion l’avrebbe osteggiato fino alla morte, avvenuta nel 1952. E’ vero che il suo anziano avversario aveva ottenuto la prestigiosa [e politicamente neutrale] carica di capo dello Stato di Israele. Si evitò con cura però che egli potesse esercitare una qualsiasi influenza, tanto che gli fu impedito persino di recitare la dichiarazione di indipendenza del nuovo stato.
    La vittoria britannica in Africa settentrionale dell’ottobre 1942 e quelle sovietiche a Stalingrado e nel Caucaso dell’inverno successivo comportarono l’esclusione dei tedeschi dal teatro bellico mediorientale. La Gran Bretagna tuttavia continuò a corteggiare gli arabi dei suoi domini, sia per non rovesciare la barca prima di aver attraversato il fiume sia, più a lungo termine, per non veder messa in discussione la propria egemonia in quell’area a vantaggio di statunitensi e sovietici. La guerra aveva rivelato l’enorme importanza strategica del Medio Oriente ed era chiaro che le riserve petrolifere e il controllo delle vie di comunicazione sarebbero rimasti cruciali anche nel dopoguerra. Infine si cominciava ad apprezzare l’importanza di quel mercato per i manufatti occidentali.
    Anche la simpatia per gli ebrei era tuttavia in aumento, man mano che si diffondevano notizie sul tentativo di genocidio in atto dalla metà del 1941, soprattutto dopo l’annuncio alleato del dicembre 1942 secondo il quale Hitler si era reso responsabile di stragi sistematiche di israeliti. L’Olocausto sembrò così rendere inconfutabile la necessità per gli ebrei di un ‘santuario’ palestinese [l’enfasi è aggiunta…-n.d.r.]. I sionisti americani stavano inoltre spingendo una riluttante amministrazione democratica ad appoggiare la causa di uno stato ebraico, uno sviluppo di cui Whitehall doveva tener conto. Finita la guerra il problema delle displaced persons [esuli] aggravò ulteriormente la situazione. Centinaia di migliaia di ebrei sopravvissuti si rifiutavano di rimanere in luoghi che associavano mentalmente ai campi di sterminio. I paesi occidentali e gli stati Uniti non erano disposti ad accoglierli tutti, mentre i sionisti li sollecitavano ad immigrare in Palestina.
    Nel 1943-45 Washington continuò a considerare la Palestina un problema britannico, mentre a Whitehall il peso delle scelte passate e la lobby dei burocrati pro-arabi impedivano l’accantonamento del libro bianco. A metà del 1943 però Churchill riuscì a formare uno speciale comitato governativo a netta maggioranza filosionista con il compito di prefigurare gli assetti postbellici. Esso riesumò la divisione del paese caldeggiata dalla commissione Peel, che l’intero governo approvò nel gennaio 1944 senza però definirne i dettagli geografici.
    La divisione avrebbe dovuto essere realizzata ‘non appena si potranno prendere i necessari provvedimenti’, ma a Whitehall gli ambienti contrari a questa soluzione riuscirono ad impedire i passi successivi. Il Comitato degli stati maggiori osservò che gli stati arabi si sarebbero opposti e il Foreign Office obiettò che ‘la soluzione della questione palestinese… non dovrebbe essere decisa sotto la sola spinta da un lato della simpatia internazionale per gli ebrei perseguitati e dall’altro dal presunto mancato contributo arabo allo sforzo bellico alleato’. Inoltre per il Foreign Office il nuovo schema non era immune da disonestà…

    nel 1939 per acquietare i palestinesi abbiamo elaborato il libro bianco. Poi dopo a la guerra, quando ci è sembrato che le difficoltà internazionali fossero superate abbiamo deciso di voltare le spalle agli arabi e alle loro aspirazioni

    Fu in questo clima che Lord Moyne, ministro britannico residente in Medio Oriente, fu assassinato al Cairo il 6 novembre 1944 da membri della Banda Stern [o LHI]. Moyne era stato intimo di Churchill, il quale considerò l’attentato anche un affronto personale e tuonò ai Comuni…

    se il sionismo che sognavamo svanirà insieme al fumo di pistole assassine e i nostri sforzi per assicurargli un futuro produrranno solo un nuovo assortimento di banditi degli della Germania nazista, molti saranno indotti come me a riesaminare un atteggiamento mantenuto sinora con grande coerenza

    Lo statista britannico intervenne personalmente presso il governo egiziano perché giustiziasse i terroristi, i quali furono impiccati il marzo seguente, e tolse il proprio appoggio al progetto di divisione. Il 27 luglio 1945 Churchill e i conservatori passarono all’opposizione. Le redini furono assunte da Clement Attlee e dal partito laburista. La situazione complessiva mutò così sensibilmente e i sionisti si dovettero adattare. Anche se il programma dei laburisti includeva lo stato ebraico e perfino il trasferimento degli arabi, le iniziative concrete erano in mano al governo, ai militari e soprattutto al nuovo ministro degli esteri Ernest Bevin, il quale non amava i sionisti, faceva occasionali osservazioni di sapore antisemita e riteneva che gli interessi vitali della nazione richiedessero l’appoggio di Londra agli stati arabi.
    Nei due anni e mezzo tra la fine della guerra e l’inizio dell’ostilità tra arabi ed ebrei però gli sviluppi politici negli Stati Uniti, in Palestina e nell’Europa continentale furono più importanti dell’orientamento di Whitehall. A Washington la battaglia fu vinta naturalmente dai sionisti grazie soprattutto all’impatto emotivo dell’Olocausto [l’enfasi è aggiunta…-n.d.r.] , ma anche al peso elettorale e al potere finanziario dei cinque milioni di ebrei statunitensi. Fino al 1944 l’amministrazione Roosevelt era riuscita ad evitare qualunque presa di posizione, eccezion fatta per qualche generica espressione di simpatia per il sionismo. L’impatto emotivo delle persecuzioni antisemite era stato assai forte anche in America, ma gli interessi globali del paese, in primo luogo quelli petroliferi, andavano chiaramente in altra direzione. Nel maggio 1943 Roosevelt aveva assicurato re Ibn Sa’ud che prima di qualunque decisione sul futuro della Palestina si sarebbero sentite le ragioni tanto degli arabi quanto degli ebrei.
    A partire dal marzo 1944 però l’atteggiamento americano cominciò a cambiare. La Casa Bianca, sottoposta a pressioni da parte dei funzionari filoarabi, convinse il Congresso a ritirare una risoluzione comune che esortava la Gran Bretagna a ritirare il libro bianco e ad appoggiare la nascita di uno stato ebraico. Roosevelt assicurò però gli ebrei che ‘piena giustizia sarà resa a coloro che lottano per un focolare nazionale ebraico. Per loro questo governo e il popolo americano hanno sempre avuto la più profonda simpatia, e oggi più che mai vista la tragica situazione di centinaia di migliaia di ebrei profughi e senza dimora’.
    A Jalta nel febbraio 1945 Roosevelt dichiarò a Stalin di sentirsi egli stesso ‘sionista’ [cosa che fece anche il dittatore sovietico, sia pur precisando di considerare gli ebrei ‘mezzani, profittatori e parassiti’…]. Il mese seguente Roosevelt diede assicurazioni a Ibn Sa’ud che non avrebbe approvato ‘nessuna iniziativa che possa rivelarsi nociva al popolo arabo’, ma il crescente orientamento filosionista dell’opinione pubblica e delle autorità statunitensi finì col prevalere su ogni altro fattore. Morto Roosevelt in aprile il lievemente più filosionista Harry S. Truman nell’incontro al vertice di agosto a Potsdam appoggiò il trasferimento dei profughi ebrei europei in Palestina e chiese a Churchill di abolire i limiti all’immigrazione [suscitando così la dura reazione del nuovo segretario generale della Lega araba ‘Abd al-Rahman ‘Azzam, per il quale il provvedimento rischiava di scatenare un nuovo conflitto tra Cristianesimo e Islam].
    Agli arabi palestinesi la guerra aveva portato pochi cambiamenti. La loro situazione economica era migliorata in modo sensibile grazie alle spese e agli investimenti degli Alleati, ma quella militare e politica era rimasta immutata. Pochi, forse 5000 o 6000, si erano uniti ai reparti anglo-americani ed avevano acquistato una certa esperienza militare . I rapporti di forza con gli ebrei però non si erano alterati e il loro vertice politico [e militare] battuto e disperso nel 1939 era rimasto in esilio, neutralizzato e hors de combat.
    A metà del 1943 era ormai chiaro che gli Alleati avrebbero vinto. Per ottenere qualche concessione gli arabo-palestinesi avevano bisogno di leadership e organizzazione. Gli ex-dirigenti del partito Istiqlal iniziarono una campagna per unire i nazionalisti e in novembre la quindicesima conferenza della Camera di commercio arabo-palestinese si riunì a Gerusalemme ed avviò il procedimento per l’elezione di una nuova rappresentanza nazionale. L’operazione procedette a rilento per l’opposizione degli Husayni. Intanto anche questi si andavano riorganizzando. I loro principali dirigenti erano in esilio, Haij Amin a Berlino al servizio dei nazisti e Jamail al-Husayni internato in Rhodesia meridionale. Nell’aprile 1944 però quanto restava della leadership locale rilanciò formalmente il partito arabo-palestinese. Entro settembre gli Husayni erano nuovamente la fazione più attiva e influente, come dimostra il ruolo da protagonisti ch’ebbero nella protesta nazionale del 2 novembre, anniversario della Dichiarazione Balfour.
    La ‘ripoliticizzazione’ della comunità arabo-palestinese coincise con alcune iniziative per l’unità araba incoraggiate dalla Gran Bretagna. Dal 25 settembre al 7 ottobre i delegati di sette paesi si riunirono ad Alessandria per fondare la Lega araba. Il 22 marzo 1945 gli atti costitutivi furono firmati al Cairo. Ad Alessandria i palestinesi inviarono il notabile di Gerico Musa al-‘Alami. Dapprima egli fu considerato un ‘osservatore’, ma alla fine gli venne riconosciuto lo status di ‘delegato’, essendo la comunità palestinese posta, almeno formalmente, sullo stesso piano degli altri stati arabi. Una sezione dei ‘Protocolli di Alessandria’, prodotto della conferenza, recitava…

    qualunque lesione dei diritti degli arabi di Palestina pregiudicherebbe la stabilità e la pace nell’intero mondo arabo. Gli stati arabi dichiarano di non essere secondi a nessuno nel biasimare le sofferenze inflitte agli ebrei d’Europa… Il problema di quegli ebrei però non deve essere confuso col sionismo, poiché non vi può essere ingiustizia e violenza peggiore che risolvere il problema degli ebrei europei… commettendo ingiustizia verso gli arabi di Palestina

    All’inizio del 1945 Egitto, Libano, Siria e Arabia Saudita dichiararono guerra all’Asse, assicurandosi un seggio alle nascenti Nazioni Unite e voce in capitolo negli accordi di pace. Gli stati della Lega araba appoggiarono collettivamente le principali richieste degli arabi palestinesi, ma si riservarono il diritto di decidere chi li avrebbe rappresentati alle riunioni della Lega finchè non fossero stati indipendenti. Questo fatto, insieme con lo stallo della politica palestinese, fece sì che ‘le iniziative politiche degli arabo-palestinesi dovessero passare attraverso i vertici dei paesi arabi’ e che ‘da allora le principali decisioni politiche sulla resistenza araba al sionismo sarebbero state prese non a Gerusalemme ma al Cairo’.
    Fu infatti per iniziativa della Lega araba che nel novembre 1945 l’Alto comitato arabo tornò ad essere il più alto organo esecutivo della comunità palestinese. Fu inoltre nominato un direttivo di dodici membri, cinque ‘pro Husayni’, due indipendenti e cinque personalità provenienti dalle formazioni politiche del periodo, prebellico rispolverate per l’occasione. L’Opposizione formò un proprio Supremo fronte arabo [SFA] e Jamal ricostituì l’Alto comitato arabo attingendo alla famiglia Husayni e ai clan alleati. In giugno i ministri degli esteri della Lega araba imposero un nuovo organo supremo, l’Alto esecutivo arabo, con l’assente Amin al-Husayni alla presidenza e Jamal al-Husayni alla vicepresidenza. Così gli Husayni erano di nuovo in sella, questa volta con l’appoggio della Lega araba. Haij Amin tornò in medio Oriente e cominciò a dirigere le attività dei musulmani palestinesi dal Cairo. Nel gennaio 1947 portò l’Alto esecutivo, ora chiamato nuovamente Alto comitato, a nove membri, tutti Husayni o loro seguaci. Gli arabi di Palestina avevano di nuovo una classe dirigente, benché rappresentativa di una fazione più che dell’intera società.

  3. #23
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    cari amici
    dopo una parentesi di circa una settimana sono lieto di riprendere questo 'corso accelerato' di storiografia mediorientale iniziato con l'intento di porre rimedio alla mia ed altrui 'ignoranza' che tante volte ci viene rinfacciata...

    Nel prossimo postato sarà esaminata la brusca 'svolta' sionista avvenuta alla fine della seconda guerra mondiale. Una volta che il nemico comune era uscito sconfitto dall'impari lotta, non doveva passare molto tempo prima che la Gran Bretagna divenisse il nuovo nemico del sionismo, al punto da occupare il primo posto nella speciale 'classifica'. Contro le forze di sicurezza britanniche fù sperimentata e messa a punto dai sionisti la 'tecnica del terrore' che oggi Israele rinfaccia ai nemici...

    Non mi resta che augurarvi... buona lettura!...


    --------------

    Nobis ardua

    Comandante CC Carlo Fecia di Cossato

  4. #24
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    Due immagini che ritraggono uomini delle Palmach [abbreviazione di Plugoth Mahatz, ovvero ‘compagnie d'assalto’]. Tale organizzazione si rese tra l’altro responsabile nel corso degli anni ’40, durante e dopo la seconda guerra mondiale, di numerosi atti terroristici contro i palestinesi e gli occupanti britannici. Con la nascita dello stato di Israele queste formazioni vennero sciolte perché giudicate ‘troppo a sinistra’. Molti dei loro membri tuttavia andranno a far parte dei reparti speciali delle forze armate e del Mossad


    Insorge la yishuv

    Gli sviluppi nel campo sionista ebbero implicazioni di più ampia portata. L’avvicinarsi della pace rendeva di giorno in giorno meno necessaria la solidarietà con la Gran Bretagna. Bisognava poi dare una casa ai superstiti dell’Olocausto e tra questi e la Terra Promessa vi era il governo di Londra, la flotta britannica in Mediterraneo e le forze di sicurezza in Palestina. Il 27 settembre 1945 il vertice sionista dichiarò che il blocco dell’immigrazione ebraica ‘equivaleva ad una condanna a morte per… quegli ebrei liberati… che ancora languono nei campi di concentramento in Germania’.
    Una rivolta ebraica evitata per sei anni era sul punto di esplodere. Nel maggio 1943 il generale Harold Alexander, comandante in capo delle forze britanniche in Medio Oriente, aveva avvisato i suoi superiori della ‘probabilità’ di una ribellione alla fine della guerra: ‘Gli ebrei ci cereranno problemi, sono armati e ben addestrati’. A metà del 1942 l’M16, il sevizio segreto estero della Gran Bretagna, aveva stimato con notevole accuratezza che la Haganah poteva contare su circa 30.000 uomini, dei quali il 50-70 per cento era armato. L’IZL poteva schierare altri 1000 combattenti, assistiti da alcune migliaia di fiancheggiatori e ausiliari. La stima ebraica della forza della Haganah era nel 1944 di 36.000 uomini con circa 14.000 armi leggere con un certo numero di mortai da due e tre pollici e mitragliatrici.
    La yishuv non aveva sprecato gli anni della guerra. Decine di migliaia di ebrei si erano arruolati negli eserciti alleati [soprattutto britannico] e acquisito dimestichezza con le armi de le tecniche di combattimento più moderne. Materiale bellico era stato acquistato illegalmente o trafugato dalla Haganah dagli arsenali britannici in Palestina e in Egitto. Nel maggio 1941 la Haganah, con l’assistenza della Gran Bretagna, aveva costituito la Palmah [abbreviazione di Plugot machaz, ‘compagnie d’assalto’], forza di elite mobile agli ordini di Yizchak Sadeh, veterano dell’Armata Rossa e capo di un commando della Haganah. Gli ebrei consideravamo le Palmach un corpo scelto utile non solo per bloccare i nazisti ma eventualmente anche gli arabi, i britannici il nucleo di un esercito partigiano che sarebbe entrato in azione nel caso che Rommel avesse occupato la Palestina. Nel 1945 le Palmach consistevano in un paio di migliaia di soldati e soldatesse organizzati in plotoni dispersi tra alcune dozzine di kibbutzim e due o tre città. Come copertura i suoi membri lavoravano nei campi due settimane ogni mese. Il tempo restante era destinato all’addestramento.
    Sia la Haganah sia le Palmach avrebbero partecipato al conflitto strisciante contro la Gran Bretagna, solo però dopo la fine della guerra. Le basi di questo conflitto erano state poste qualche annoi prima dall’LHI, all’inizio capeggiato da Havraham [‘Yahir’] Stern, il quale considerava l’Inghilterra complice dei crimini di Hitler e principale ostacolo al sionismo e che paradossalmente cercò di stringere un’alleanza con la Germania in chiave antibritannica. Tuttavia a causa delle sue scarse risorse umane, della quasi unanime contrarietà della yishuv ad ogni forma di terrorismo contro gli inglesi e delle efficaci contromisure messe in atto da questi ultimi [a volte aiutati da ‘soffiate’ da parte della Haganah e della IZL], tra il 1941 e il 1943 solo eccezionalmente l’LHI potè tradurre in pratica la sua bizzarra politica.
    Il 1° febbraio 1944, alcuni giorni dopo l’ascesa di Menachem Begin al vertice dell’IZL, questi a enunciò la ripresa della lotta armata contro la Gran Bretagna. La Irgun riteneva che la guerra contro la Germania fosse ormai vinta e che per gli ebrei il vero problema fosse Londra. Cominciò quindi ad organizzare attentati e attacchi soprattutto contro gli uffici preposti all’immigrazione e contro le stazioni di polizia. Anche l’LHI compì alcune azioni spettacolari, tentando tra l’altro l’8 agosto perfino di assassinare l’Alto commissario britannico MacMichael.
    Entrambi i gruppi furono drasticamente disapprovati da quasi tutti i dirigenti e gli organi di stampa sionisti. I membri dell’IZL furono definiti ‘terroristi sbandati’, ‘giovani fanatici che le sofferenze del loro popolo hanno privato del raziocinio e si illudono di curare il dolore con la distruzione’. I richiami all’ordine dell’esecutivo dell’Agenzia ebraica e della Haganah non fecero tuttavia presa sugli estremisti. Dopo l’attentato a MacMichael e l’assassinio di Lord Moyne, l’LHI accettò di congelare le attività contro la gran Bretagna fino alla fine della guerra, mentre l’IZL sfidò l’esecutivo dell’Agenzia ebraica e il Comitato nazionale reiterando gli attacchi. La Haganah in risposta dichiarò l‘apertura della ‘stagione di caccia’ [Saison nella storiografia sionista] contro l’IZL. Il servizio segreto della Haganah e le Palmach si misero sulle tracce dei membri della Irgun, confiscando loro le armi, interrogandoli [in molti casi a suon di botte] e consegnandoli a volte alla polizia britannica.
    La Saison durò dal novembre 1944 al marzo 1945. Il mutamento della situazione internazionale e il crescente malcontento della stessa Haganah finirono tuttavia col causare un drastico cambio di indirizzo. La fine del conflitto in Europa preannunciava la ripresa della lotta di indipendenza. Un memorandum di Weizmann a Churchill fu il preludio della campagna di primavera della Haganah. Whitehall doveva decidersi a compiere dei passi concreti verso la trasformazione della Palestina in uno stato ebraico ed affidare la responsabilità per l’immigrazione all’Agenzia ebraica. In giugno un memorandum dell’Agenzia chiese alla Gran Bretagna di autorizzare subito l’ingresso in Palestina di 100.000 nuovi immigrati. Nelle parole di Ben Gurion, non si potevano lasciare i profughi ebrei a ‘languire tra le tombe di milioni di fratelli assassinati’. La loro salvezza dipendeva da una rapida risistemazione della Terra Promessa.
    In Gran Bretagna però le elezioni provocarono la caduta di Churchill e del suo governo. Il nuovo ministro degli esteri, Ernest Bevin, propose che l’immigrazione in Palestina proseguisse, anche dopo il raggiungimento di quota 75.000 prevista nel libro bianco, al ritmo di 1.500 persone al mese. Weizmann rifiutò immeditamante la proposta e Truman implicitamente gli diede ragione. Il presidente degli Stati Uniti era stato persuaso da Earl G. Harrison, suo rappresentante nel comitato intergovernativo per i rifugiati, che la Palestina era il miglior approdo per gli ebrei europei superstiti e anche quello da essi preferito. Harrison menzionò specificamente la necessità di altri 100.000 certificati d’ingresso. Truman passò il rapporto al primo ministro Attlee con la sua personale raccomandazione che ‘il maggior numero possibile di ebrei non rimpatriabili che lo desiderassero’ potessero trasferirsi in Palestina. Attlee e Bevin persuasero Truman dall’astenersi temporaneamente dall’approvare pubblicamente la proposta, ma a metà novembre l’atteggiamento di Truman divenne di pubblico dominio.
    La yishuv riprese la lotta. Le attività della IZL si erano notevolmente ridotte alla fine del 1944 a causa delle contromisure britanniche e della Saison, ma nel maggio 1945 il gruppo compì attentati dinamitardi contro vari obiettivi, comprese stazioni di polizia, linee telefoniche oltre che l’oleodotto della IPC [Iraq Petroleum Company] che attraversava la valle di Yezreel per giungere ad Haifa. In luglio anche l’LHI mise fine alla tregua. In seguito ad un accordo con l’IZL un commando fece esplodere un ponte presso Yavneh. Le due organizzazioni presero poi di mira obiettivi ebraici legati al sindacato, sottraendo denaro ed esplosivi a banche e succursali della Histadrut.
    La Haganah aspettò ancora qualche mese per scendere in campo, avendo deciso di attendere i risultati delle elezioni in Gran Bretagna e poi l’insediamento dell’esecutivo laburista. Dopo che Begin ebbe lasciato intendere quasi subito di voler adottare una linea politica filoaraba, all’inizio di ottobre la Haganah, l’IZL e l’LHI strinsero un patto di collaborazione operativa e lanciarono il Movimento della ribellione ebraica [Tenu’at Hameri Ha’ivri]. Le Palmach entrarono in azione ancora prima della firma. La notte del 9 ottobre esse attaccarono il campo d’internamento di Atlit liberando 208 immigrati illegali. In novembre genieri delle Palmach sabotarono le linee ferroviarie palestinesi in 153 diverse località. Fu inoltre affondato un guardacoste britannico e attentati dinamitardi furono compiuti contro stazione della guardia costiera in seguito alla cattura di una nave carica di immigrati illegali da parte della Royal Navy.
    I britannici reagirono penetrando in alcuni insediamenti in riva al mare sospettati di ospitare miliziani della Haganah e immigrati illegali. Presi dal panico i soldati di Londra aprirono il fuoco uccidendo 9 civili e ferendone 63. In seguito a questo episodio l’ostilità dei sionisti nei confronti della Gran Bretagna toccò il culmine. Nei mesi seguenti la Haganah, l’IZL e l’LHI colpirono vari obiettivi britannici. L’azione più spettacolare fu compiuta da squadre delle Palmach la notte del 17 giugno 1946, quando 11 ponti che collegavano la Palestina alla Transgiordania, alla Siria, al Libano e al Sinai furono fatti esplodere contemporaneamente.
    Frattanto riprese la campagna di immigrazione clandestina. Delle dozzine di natanti che vi parteciparono tutti tranne uno erano organizzati e posti sotto il comando della sezione per l’immigrazione illegale della Haganah, il Mossad Le’Aliya Bet. Molte imbarcazioni furono intercettate dalla Royal Navy e i passeggeri furono internati. Altri invece riuscirono a sbarcare. Tra l’agosto 1945 e il maggio 1948 più di 70.000 immigrati illegali raggiunsero le coste della Terra Promessa.
    Nello stesso tempo i britannici subivano le pressioni degli arabi. Il 2 novembre 1945, anniversario della Dichiarazione Balfour, dimostrazioni antisioniste si svolsero in Siria, Egitto, Libano e Iraq. Ad Alessandria la folla assaltò negozi, abitazioni e luoghi di culto ebraici. In Libia, paese allora governato dai britannici, un centinaio di ebrei fu massacrato durante i disordini antisionisti. Londra era così di fronte ad un dilemma spinoso. Respingere la proposta di Truman significava mettere a repentaglio la chiave di volta della politica estera britannica, l’alleanza con gli stati Uniti. Autorizzare a 100.000 ebrei di stabilirsi in Palestina significava provocare gli arabi e rischiare rivolte un tutto il Medio oriente. Whitehall scelse allora quello che sembrava il percorso meno impervio, vale a dire la creazione di un’altra commissione d’inchiesta che avrebbe deciso la sorte dei profughi ebrei, questa volta con la partecipazione di rappresentanti degli stati Uniti. La nomina della commissione, avvenuta il 13 novembre, interruppe momentaneamente le attività della Haganah. Sembrava che Bevin fosse riuscito a coinvolgere gli Statui Uniti nella ricerca di una soluzione al rompicapo palestinese. Washington avrebbe contribuito alla ricerca di una via d’uscita e forse anche alle spese.

  5. #25
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    Predefinito ... 'morale' è tutto ciò che avvicina alla meta...

    cari amici
    solo lieto di illustrarvi nel prossimo postato la strategia usata dai sionisti per estromettere la Gran Bretagna dalla 'questione mediorientale' e immettervi gli Stati Uniti, il cui appoggio sarà da allora in poi decisivo per i destini di Israele. Del resto è così ancora oggi... o no?...

    Se qualcuno di voi dovesse avere dei dubbi sulla 'moralità' di tutto quello che swtate per leggere è bene si ricordi delle parole di Lenin...

    ... nobile e morale è tutto ciò alla meta avvicina, ignobile e immorale tutto ciò che dalla meta allontana...


    --------------

    Nobis ardua

    Comandante CC Carlo Fecia di Cossato


  6. #26
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    Il King David Hotel era la sede del comando militare britannico in Palestina. Fu scelto come obiettivo dalla Irgun dopo che soldati britannici il 29 giugno 1946 avevano perquisito la sede dell’Agenzia ebraica, sequestrando numerosi documenti che avevano fornito loro informazioni sulle attività clandestine sioniste, tra le quali attività di intelligence nei paesi arabi confinanti. Il 22 luglio l’edificio fu sventrato dall’esplosione di centinaia di chilogrammi di tritolo. Il bilancio fu di 91 morti e 45 feriti, tra i quali anche 15 ebrei.


    La commissione d’inchiesta anglo-americana


    Scopo della commissione era stabilire quanti tra i superstiti ebrei europei potessero essere ricondotti nei paesi di origine e quanti avrebbero preferito emigrare. Quanto al numero di superstiti che la Palestina era in grado di assorbire sarebbero state consultate le comunità locali araba ed ebraica. Furono scelti dodici membri [prontamente soprannominati ‘i dodici apostoli’], sei britannici e sei americani. Varando la commissione Bevin annunciò pubblicamente le grandi linee della sua politica palestinese. Londra avrebbe rinunciato al Mandato e la Palestina sarebbe diventata una trusteeship [amministrazione fiduciaria] internazionale. Dopo un cetro tempo sarebbe nato uno stato indipendente, ‘palestinese, non ebraico’. Egli si aspettava che la commissione approvasse, con modifiche di poco conto, quest’impostazione e ammonì gli ebrei di non cercare di ‘saltare la fila’ suscitando reazioni antisemite. Nel frattempo gli immigrati avrebbero potuto contare su 1500 visti di ingresso mensili. L’Agenzia ebraica denunciò il tentativo di Bevin di ‘ipotecare’ le conclusioni della commissione e giustificò ufficialmente l’immigrazione illegale.
    Nel febbraio-marzo 1946 la commissione studiò il problema dei profughi ebrei, visitò il medio Oriente, ascoltò portavoce arabi e sionisti insieme a funzionari britannici, ricevette ed esaminò rapporti da enti e movimenti palestinesi e da osservatori esterni. L’agenzia di propaganda arabo-palestinese, l’ufficio arabo di Musa al-‘Alami, consegnò un rapporto in tre volumi intitolato La questione palestinese. Esso metteva soprattutto in guardia dall’equiparare ‘la colonizzazione ebraica della Palestina e la resistenza araba alla stessa alla colonizzazione del Nord America e dell’Australia e alla resistenza delle popolazioni indigene’. Avvertiva anche che il presunto benessere portato dal sionismo non avrebbe indotto gli arabi ad accettare un movimento intenzionato ad espropriarli [l’enfasi è aggiunta…-n.d.r.]. L’Agenzia ebraica sottopose alla commissione un volume di mille pagine dal tutolo Le ragioni degli ebrei esposte alla Anglo-American Commission. In essi si contrapponeva il sionismo quale portatore di cultura e progresso all’arretratezza araba e faceva largo uso di grafici e statistiche.
    Particolarmente efficace fu il mese che la commissione passò visitando i centri profughi ebraici, specialmente in Polonia. La Haganah e l’Agenzia ebraica ‘istruirono’ i profughi riuscendo a far sì che i commissari incontrassero solo ebrei favorevoli alla causa sionista. La commissione rilevò che gli ebrei polacchi vivevano ‘in un clima di terrore’, nel quale ‘i pogrom sono la regola, una realtà quotidiana’ [dopo la fine della guerra i polacchi avevano assassinato più di 1000 ebrei…]. La testimonianza di pubblici ufficiali americani e britannici che si trovavano sul posto confermò la gravità degli episodi di antisemitismo e la maggioranza dei membri della commissione si convinse della necessità dell’immigrazione dei profughi in Palestina.
    Prima di far ritorno in Palestina la commissione si suddivise e visitò alcune capitali arabe. A Riyad re ‘Abd al-‘Aziz ibn Saud disse ai visitatori: ‘Gli ebrei sono dovunque i nostri nemici. Ovunque si trovano tessono intrighi e complottano contro di noi. Con la forza dlla spada abbiamo cacciato i romani dalla Palestina. Dopo tanti sacrifici come potrebbero del mercanti [gli ebrei] strapparcela dalle mani col denaro?…’. Quindi regalò ad ogni commissario un pugnale d’oro e un copricapo arabo, mostrò loro il suo harem e al giudice Sir John Singleton, presidente dell’AAC, propose di trovargli moglie.
    Durante le audizioni di marzo in Palestina i leader ebrei patrocinarono efficacemente la loro causa con dati e statistiche. Ben Gurion impedì di testimoniare a chiunque non fosse della corrente di maggioranza [sfidando con ciò i suoi stessi capi il rettore dell’Università ebraica, Yehuda Lieb Magnes, si espresse in favore di una soluzione binazionale…]. Secondo un osservatore americano gli arabi preferirono impressionare la commissione con ‘un sontuoso banchetto da Katy Antopnius o una visita ufficiale a una grande azienda agricola piuttosto che tentare di rendere convincente il loro punto di vista con fatti e numeri’.
    Più importanti però di tutte le testimonianze furono probabilmente le ispezioni della commissione in varie località palestinesi. Le profonde differenze tra città e campagne fecero durevole impressione. Scrisse in seguito un membro americano, Frank Aydelotte…

    quando lasciai Washington era un antisionista piuttosto deciso… dopo aver visto però con i miei occhi quello che gli ebrei hanno realizzato in Palestina… [lo giudicai] il più grande sforzo creativo del mondo moderno. Gli arabi non ci si avvicinano neppure, e manderebbero in rovina quanto è stato fatto dagli ebrei… non possiamo permettere una cosa del genere

    Un altro membro americano della commissione, Frank Buxton, annotò…

    mio padre, che è del Vermont… si sarebbe meravigliato di fronte alle imprese degli ebrei palestinesi… sono tornato da quelle fattorie meno altezzoso e meno sicuro che i pionieri americani non abbiano successori

    In seguito Buxton avrebbe paragonato l’Haganah all’esercito rivoluzionario americano , ‘un popolo in armi nel senso positivo dell’espressione’. Al contrario un membro inglese della commissione, R.H.S. Crossman, rammentò in seguito di essere stato nel ‘più maleodorante villaggio arabo che gli fosse capitato di visitare’. Le conclusioni principali del rapporto che la commissione consegnò il 1° maggio furono che la grande maggioranza dei profughi ebrei europei desiderava stabilirsi in Palestina e che conveniva rilasciare i visti e dare libero corso all’immigrazione ‘con la massima celerità permessa dalle circostanze’. La divisione del paese era scartata perchè irrealizzabile. L’indipendenza, quando fosse stata concessa, avrebbe riguardato un’entità statale unica e binazionale. Essa era però per il momento prematura e il Mandato doveva continuare sotto forma di amministrazione fiduciaria sotto l’egida delle Nazioni Unite. Se Bevin aveva sperato che la commissione ponesse le basi di una politica comune anglo-americana in Palestina la sua delusione dovette essere cocente. Truman si espresse per l’ingresso di 100.000 profughi ebrei nella regione e l’abolizione dei limiti alla compravendita di terreni prevista dal libro bianco, considerata dai commissari una forma di discriminazione. Attlee escluse l’immigrazione in massa fino a che le milizie ebraiche clandestine non fossero state sciolte e la yishuv non fosse stata disarmata.
    Il rapporto della commissione ebbe la tiepida approvazione della yishuv, almeno riguardo l’immigrazione, mentre gli arabi lo respinsero in blocco. Disordini e dimostrazioni ebbero luogo a Baghdad e in Palestina, mentre a Beiruth il centro informazione delle Nazioni Unite fu dato alle fiamme. Il rapporto fu ufficialmente condannato dal Consiglio della Lega araba, la quale però escluse l’eventualità di prendere severe misure contro Gran Bretagna e Stati Uniti nel caso le sue raccomandazioni non fossero state accolte.
    la pubblicazione del rapporto non ebbe alcun effetto sugli attacchi ebraici contro obiettivi britannici, che culminarono nella ‘notte dei ponti’ del 17 giugno ad opera delle Palmach. La gran Bretagna reagì con la ‘Operazione Agatha’, che mirava a ridurre drasticamente la forza delle milizie sioniste. La Haganah fu però avvertita in anticipo e quasi tutti i suoi comandanti sfuggirono alla retata. Così ‘Agatha’, con le sue centinaia di arrestati tra i quali quattro membri dell’esecutivo dell’Agenzia ebraica, non giovò alla popolarità britannica negli Stati Uniti ed ebbe effetti marginali sull’efficienza della Haganah. Sul piano strettamente politico però essa paralizzò il processo decisionale della yishuv e persuase l’EAE [riunitasi a Parigi nell’agosto 1946] ad abbandonare la strada della lotta armata contro la Gran Bretagna.
    L’operazione suscitò però anche propositi di vendetta, tanto che perfino l’Irgun decise di difendere a spada tratta la ‘nemica’ Haganah. Così il 22 luglio, senza consultarsi con quest’ultima, gli artificieri dell’IZL collocarono nei sotterranei dell’Hotel King David, che ospitava quartier generale e amministrazione della Gran Bretagna, contenitori di latte pieni di esplosivo. La terribile esplosione demolì un’ala dell’edificio e uccise 91 persone, britannici, arabi ed ebrei. In seguito l’IZL sostenne di aver avvertito gli occupanti con largo anticipo e ciò nonostante l’albergo non era stato sgomberato. I britannici affermarono con altrettanta fermezza di non aver ricevuto nessun avvertimento. Il comandante delle truppe di Sua Maestà in Palestina, generale di corpo d’armata Sir Evelyn Barker, reagì emanando tra l’altro una disposizione di ‘non fraternizzazione’ che in sostanza equiparava gli ebrei del paese a complici potenziali dei terroristi. Esso proibiva al personale britannico di frequentare gli ebrei sia per lavoro sia nel tempo libero e di avere ‘qualunque tipo di rapporto sociale con qualunque ebreo’, allo scopo di punire gli israeliti ‘in un punto nel quale la loro razza è particolarmente sensibile, il portafogli’. In seguito Attlee rimproverò a Barker il tono di questa misura, lasciandolo però al suo posto.
    La Haganah, sempre contraria al terrorismo [che si distingueva dalla guerriglia antimperialista , considerata legittima] condannò l’attentato, sciolse il movimento ebraico di resistenza e interruppe ogni forma di lotta armata contro le forze britanniche. Ancora una volta però ciascuna delle tre principali organizzazioni ebraiche clandestine andò per la propria strada.
    Il risultato dei colloqui anglo-americani dell’estate del 1946 e della violenza in Palestina fu il piano Morrison-Grady, ultimo tentativo di Londra di trovare una soluzione di compromesso. Esso lasciava alla Gran Bretagna [o in alternativa alla ‘amministrazione fiduciaria internazionale’…] la difesa, la politica estera e gran parte delle decisioni economiche. Arabi ed ebrei, suddivisi in quattro ‘province’ o ‘cantoni’, avrebbero goduto di un certo grado di autonomia locale per quanto riguardava l’amministrazione di città e villaggi, l’agricoltura, la pubblica istruzione e simili. Si davano garanzie per l’immediato trasferimento di 100.000 profughi e, in prospettiva, per l’indipendenza della Palestina come stato unitario [o binazionale].
    In settembre funzionari britannici e rappresentanti degli stati arabi si incontrarono a Londra per discutere il piano. Non c’erano rappresentanti palestinesi, né arabi né ebrei. Insistendo per determinare la composizione delle due delegazioni, Londra aveva provocato un duplice boicottaggio. Allo stesso modo di quelli che lo avevano preceduto il piano Morrison-Grady fu respinto sia dai sionisti [irremovibili sulla questione dello ‘stato ebraico’] sia dagli arabi [che esigevano la ‘immediata indipendenza araba’], oltre che dagli Stati Uniti. Il 4 ottobre 1946, al termine di una evoluzione ininterrotta iniziata nel 1945, il presidente Truman comunicò formalmente il sostegno degli Stati Uniti alla divisione del paese e alla nascita dello stato ebraico, chiedendo l’inizio immediato di una ‘consistente immigrazione’. L’annuncio, fortemente condizionato dall’importanza del voto degli ebrei americani nell’imminenza delle elezioni di metà mandato, fu un duro colpo per Attlee. ‘Sono stupefatto che non abbiate atteso di esservi familiarizzato con le ragioni del piano britannico’, telegrafò a Truman. Di lì a qualche settimana il suo governo avrebbe rinunciato al Mandato. Senza l’appoggio degli Stati Uniti la posizione britannica in Palestina era insostenibile e per il momento tale appoggio non era all’orizzonte.
    Il 27 gennaio 1947 la conferenza di Londra era nuovamente convocata. Questa volta l’Alto comitato arabo era presente, ma l’Agenzia ebraica continuò il boicottaggio e gli Stati Uniti rifiutarono di mandare un osservatore. I britannici negoziarono ufficialmente con i palestinesi e altri rappresentanti arabi, mentre dietro le quinte incontrarono funzionari sionisti. Mancavano però i presupposti per una soluzione di compromesso. Per l’Agenzia ebraica la divisione del paese era un punto di partenza irrinunciabile. Lo stesso valore aveva per gli arabi palestinesi l’indipendenza dell’intera Palestina e un governo basato sul principio di maggioranza.

  7. #27
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    Cool ... la 'verità vera'...

    cari amici
    il capitolo che comparirà nel prossimo postato è certamante fondamentale per la comprensione della 'verità vera' sulola realtà passata e presente del Medio Oriente. Dico questo senza tema di essere smentito perchè la descrizione di Benny Morris è tralmente chiara e lucida da essere praticamante incontrovertibile. Questi in sintesi i concetti fondamentali esposti dall'autore, sui quali la storia degli ulimi sessant'anni è imperniata...

    a) la costante brutale aggressione, sconfinata spesso in pulizia etnica, portata avanti dagli israeliti nei confronti della popolazione araba in Medio Oriente...

    b) l'aberrante concetto secondo il quale l'Olocausto non solo abbia legittimato l'aggressione suddetta, ma che la risoluzione dell'Onu che ha sancito la divisione della Palestina del 1947 sia stata un doveroso 'risarcimento' al popolo ebreo per la persecuzione subita. Da questo al comprendere i motivi per i quali gli ebrei difendano ferocemente il preteso sterminio di 'sei milioni' di essi ovviamente il passo è breve...

    c) il falso storico secondo il quale gli ebrei sono sempre stati costretti a 'difendere la loro esistenza' minacciata dai paesi arabi confinanti...

    Sono assolutamante certo a questo punto che non mancherà l'attenzione del gentile lettore, che ringrazio vivamente...


    --------------

    Nobis ardua

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  8. #28
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    ‘Ben Gurion voleva chiaramente che rimanesse il minore numero possibile di arabi nel nuovo stato ebraico. Sperava di vederli via tutti. Lo rivelo' ad amici e colleghi durante gli incontri di agosto, settembre ed ottobre [1948]. Ma non fu annunciata alcuna politica generale di espulsione e Ben Gurion evito' sempre di dare ordini chiari o scritti di espulsione; preferiva che i suoi generali 'capissero' cosa lui volesse che fosse fatto. Voleva evitare di passare alla storia come il 'grande esecutore di pulizia etnica' e voleva che il governo israeliano non fosse coinvolto in una politica moralmente indegna ... Ma, nonostante non vi fosse un chiaro ordine di espulsione, gli attacchi di luglio ed ottobre [1948] furono caratterizzati da numerosissime espulsioni e brutalita' contro i civili palestinesi maggiori di quelle subite nella prima meta' della guerra'. Benny Morris,The Birth of the Palestinian Refugee Problem, 1947-1949


    L’Uniscop e la suddivisione della Palestina in base alla risoluzione delle Nazioni Unite del 29 novembre 1947

    Il 14 febbraio 1947 il governo britannico decise in effetti di districarsi dalla Palestina e lasciare alle Nazioni Unite il compito di sbrogliare la matassa. ‘Gli schemi proposti sia dagli arabi sia dagli ebrei non ci paiono accettabili, né siamo in grado di imporre una nostra soluzione’, dichiarò Bevin ai Comuni il 18 febbraio. Gli arabi non erano contrari all’eventualità che la questione fosse discussa all’Onu, la quale a loro giudizio non si sarebbe espressa a loro sfavore. Per la stessa ragione i sionisti guardavano con diffidenza ad una soluzione legata alle Nazioni Unite. Queste circostanze potevano aver avuto il loro peso nella decisioni dei Bevin.
    Alcuni storici hanno sostenuto che, mettendo entrambe le parti di fronte all’ignoto e all’imprevedibile, la Gran Bretagna mirava a far loro accettare la sua ultima proposta o in alternativa un prolungamento del Mandato. Altri ritengono semplicemente che essa non avesse più né gli uomini né le risorse per mantenere l’ordine in Palestina. I seguaci dell’IZL e dell’LHI sostennero che i loro continui attacchi avevano costretto i britannici a battere in ritirata. Anche le operazioni della Haganah nel 1945-46 potevano aver fatto temere uno scontro con la principale milizia sionista che Whitehall preferiva evitare, mentre la lotta contro l’immigrazione illegale era un incessante mal di testa per le autorità del Mandato. La maggior parte degli storici però ritiene che nel contesto di guerra fredda , nel quale la collaborazione tra Washington e Londra era della massima importanza, la seconda aveva deciso di non irritare la Casa Bianca su una questione assai delicata sul piano morale e non attinente agli interessi vitali della Gran Bretagna.
    Gli sviluppi politici del 1947 ebbero luogo su uno sfondo di violenza da parte ebraica e di conseguenti rappresaglie più volte sul punto di sfuggire ad ogni controllo. I tentativi di impedire o di punire l’immigrazione illegale assunsero una dimensione nuova e cruenta, anche se nel contrastare il terrorismo nell’insieme i britannici diedero prova di autocontrollo e umanità. Negli ultimi mesi prima dell’evacuazione però essi apparvero non più in grado di governare la Palestina né determinati a farlo. D’altra parte la loro decisione di ritirarsi galvanizzò i terroristi. Londra schierava ormai nel paese 100.000 uomini, cinque volte quelli impiegati per domare la rivolta araba del 1936-39 [un indizio questo della maggiore efficienza e pericolosità della guerriglia ebraica rispetto quella dell’altra comunità…], ma le misure antiterroiristiche che essi potevano adottare urtano contro limiti ben precisi.
    Il 1° marzo 1947 gruppi di fuoco dell’Irgun uccidevano più di venti soldati britannici, dodici dei quali in un attacco con bombe a mano al circolo ufficiali di Tel Aviv. Trenta furono i feriti. Il 31 marzo la Banda Stern sabotava una raffineria di petrolio ad Haifa. Per spegnere l’incendio occorreranno tre settimane. Il 4 maggio l’Irgun penetrava in una prigione britannica ad Acri liberando due dozzine di propri militanti [nonché involontariamente duecento detenuti arabi…] , al prezzo però di nove morti e otto prigionieri tra i suoi miliziani. Questi ultimi vennero poi processati e l’8 luglio tre di loro giustiziati. Il 9 luglio l’IZL sequestrava due sergenti britannici, Clifford Martin [ebreo a quanto sembra…] e Marvyn Paice, e li impiccava in segno di ritorsione contro l’esecuzione dei tre militanti. I corpi degli impiccati vennero collegati a congegni esplosivi e nel recuperarli rimase ferito un ufficiale britannico. ‘La bestialità nazista non avrebbe saputo far meglio…’, commentò il Times di Londra. Il monopolio di bestialità non fu lasciato tuttavia ai terroristi ebrei. Il 30 luglio soldati e poliziotti britannici compivano a Tel Aviv un’opera dall’evidente sapore di rappresaglia distruggendo negozi e picchiando numerosi israeliti. In una zona della città membri delle forze di sicurezza, perduto il controllo dei nervi, sparavano raffiche di mitra a casaccio uccidendo cinque persone e ferendone dieci.
    Il 12 agosto il Parlamento britannico in sessione speciale decideva di abbandonare la Palestina senza ulteriori indugi. Restarvi, secondo Churchill, non serviva a tutelare ‘alcun interesse britannico’. Secondo gli storici che hanno maggiore familiarità con gli archivi della Gran Bretagna ‘i metodi draconiani dell’IZL, per quanto moralmente discutibili, furono decisivi per trasformare l’opzione di evacuazione del febbraio 1947 nella ferma decisione di disfarsi degli oneri del Mandato’.
    Il problema passava così alle Nazioni Unite, la cui assemblea generale si riunì in sessione speciale nell’aprile-maggio 1947 e nominò l’ennesima commissione ad hoc. In seguito alle obiezioni arabe il Comitato speciale delle Nazioni Unite per la Palestina [UNSCOP] ebbe competenza anche sul problema dei profughi ebrei e fu incaricato di dare indicazioni sul loro trasferimento. Fu chiesto a Olanda, Cecoslovacchia, Jugoslavia, Canada, Australia, India, Iran, Perù, Guatemala e Uruguay di inviare propri rappresentanti. Gli stati arabi non si opposero, immaginando una facile vittoria nella sede delle Nazioni Unite.
    Sotto la presidenza di un giurista svedese, Emil Sandstrom, quell’estate l’Unscop passò cinque settimane in Palestina ascoltando funzionari sia ebrei sia britannici. Ben-Gurion parlò da prima di uno stato ebraico comprendente l’intera Palestina, poi accettò la divisione del paese. Weizmann invece si mostrò incline alla divisione fin dal principio. In questa circostanza gli ebrei godettero di un vantaggio illegale, avendo collocato nelle stanze dove si riuniva il comitato dei microfoni che li informarono sull’orientamento dei membri e sulle dichiarazioni dei testimoni.
    Il comitato visitò il paese e ancora una volta gli incontri vis-a-vis con la popolazione locale negli insediamenti e nei villaggi si dimostrarono particolarmente persuasivi. I membri furono accolti in modo ospitale dagli ebrei e l’Agenzia ebraica fece in modo che trovassero sempre dei coloni che parlavano la loro lingua. Al contrario gli arabi furono ovunque scortesi, diffidenti e aggressivi. Il comitato fu colpito dalla pulizia e dallo sviluppo economico delle zone ebraiche oltre che dalle cattive condizioni igieniche e dalla complessiva arretratezza delle città e dei villaggi arabi. In parole povere la comunità ebraica, e solo essa, venne giudicata ‘europea, moderna, dinamica… uno stato in gestazione’.
    Anche se ufficialmente l’Alto comitato arabo aveva boicottato l’Unscop le posizioni arabe non restarono del tutto prive di rappresentanza. ‘Di propria iniziativa’ Musa al-‘Alami e Cecil Hourani, segretario dell’Ufficio arabo di Washington, consegnò un memorandum che illustrava il punto di vista della loro comunità. L’Unscop ascoltò anche rappresentanti degli stati arabi contrari alla divisione della Palestina. Essi perorarono la causa di uno stato unitario e democratico dal quale gli immigrati illegali sarebbero stati espulsi e nel quale gli ebrei rimasti non avrebbero goduto dei diritti politici.
    Un elemento che influenzò molto l’Unscop fu la vicenda dell’Exodus. Dall’agosto 1946 i britannici inviavano gli immigrati illegali in appositi campi di detenzione sull’isola di Cipro. Raggiunti però i 12.000 ebrei detenuti sull’isola non rimaneva più posto. Nella primavera del 1947, duramente colpiti dal terrorismo dell’IZL e dalla campagna di immigrazione illegale della Haganah, essi decisero un giro di vite. L’M16 diede inizio ad una campagna di sabotaggio contro le navi della Haganah nei porti europei. La Vrisi fu così affondata a Genova l’11 luglio e la Pan Crescent fu danneggiata e fatta arenare presso Venezia la notte del 30-31 agosto. Whitehall diede inoltre disposizioni affinché gli immigrati illegali fossero ricondotti in Europa. Il 2 luglio la Exodus 1947 salpava dalla Francia meridionale con 4.500 profughi a bordo. Il 18 luglio era intercettata ed abbordata dalla fanteria di marina britannica a 30 chilometri dalle coste della Palestina, al largo di Gaza. Ne seguì uno scontro durato tutta la notte che la Haganah decise di sfruttare per dimostrare quanto gli ebrei fossero infelici e indifesi e i britannici duri e senza cuore. Tre ebrei morirono e altri 28 rimasero feriti. La disperata situazione dei profughi era però venuta alla ribalta e la loro sorte era stata collegata a quella della Palestina. Come per far sì che tutti i destinatari ricevessero il patetico messaggio i britannici rimorchiarono la nave nel porto di Haifa, trasportarono a terra morti e feriti, trasferirono il grosso dei superstiti su tre navi in grado di tenere il mare e li rispedirono in Francia sotto l’attenta supervisione del presidente dell’Unscop Sandstrom. Il rifiuto francese di cooperare accrebbe però l’imbarazzo britannico. L’Humanitè, quotidiano del partito comunista francese, definì la nave una ‘Auschwitz galleggiante’. Quasi tutti i passeggeri si rifiutarono di sbarcare e i militari di Londra, finiti in un vicolo cieco creato da loro stessi, fecero rotta su Amburgo dove l’8 settembre il carico umano fu costretto a scendere a terra. Gli ebrei erano così finiti daccapo nel paese della loro più terribile persecuzione e la responsabilità era tutta di Londra. La vicenda dell’Exodus assunse così a simbolo dell’infelicità degli ebrei e dell’insensibilità degli inglesi. Una propaganda migliore in favore del sionismo in questa fase cruciale era difficile da immaginare. Quasi nello stesso periodo erano giustiziati i tre militanti dell’IZL e uccisi per rappresaglia i due sergenti britannici. Tutto ciò sembra aver avuto un modesto impatto sui membri dell’Unscop. Il caso dell’Exodus però fece luce sul terreno che aveva permesso all’IZL e alla sua attività di mettere radici.
    Il comitato si trasferì in Europa verso la fine di luglio per intervistare i profughi ebrei e i funzionari competenti. Come già alla commissione anglo-americana i profughi dichiararono all’unisono di voler emigrare in Palestina. Il rapporto dell’Unscop, consegnato all’Assemblea generale il 1° settembre, fu unanime nel raccomandare la fine del Mandato. Una maggioranza di otto membri propose la divisione della Palestina in due stati, uno ebraico e l’altro arabo, con una amministrazione fiduciaria internazionale per Gerusalemme e Betlemme. I due stati avrebbero formato un’unione economica e la Gran Bretagna avrebbe continuato ad amministrare il paese per due anni duranti i quali sarebbe stata consentita l’immigrazione di 150.000 ebrei. Il rapporto di minoranza, presentato dai rappresentanti jugoslavo, indiano e iraniano, proponeva l’indipendenza della Palestina come ‘stato federale’. Di fatto si sarebbe trattato di uno stato unitario egemonizzato dalla comunità araba.
    La prima reazione del governo britannico fu la decisione segreta, presa il 20 settembre, di evacuare completamente la Palestina. Se l’Onu fosse riuscita ad organizzare un ordinato trasferimento di potere tanto meglio. Altrimenti arabi ed ebrei avrebbero risolto il problema per conto loro, verosimilmente armi alla mano. In ogni caso le responsabilità non sarebbero più state della Gran Bretagna.





    I sionisti organizzarono negli Stati Uniti una forte campagna di opinione, premendo sul presidente Truman perché appoggiasse il rapporto di maggioranza dell’Unscop. Del resto difficilmente egli avrebbe potuto fare altrimenti, avendo già approvato la divisione del paese nell’ottobre 1946 e avendo recentemente assunto un atteggiamento in favore della divisione anche i sovietici. Dovette però vincere la tenace opposizione del Dipartimento di Stato. Due settimane dopo l’annuncio dell’evacuazione da parte della Gran Bretagna sia gli stati Uniti [11 ottobre] sia l’Unione Sovietica [13 ottobre] ribadirono pubblicamente il loro appoggio alla divisione. Il 13 novembre Londra annunciò che avrebbe completamente ritirato le sue truppe dalla Palestina entro il 1° agosto 1948.
    Prima del voto dell’Assemblea generale del 29 novembre 1947 il dipartimento di stato compì disperati tentativi per attribuire agli arabi il Negev, che la maggioranza dell’Unscop aveva assegnato agli ebrei. Solo l’intervento di Weizmann presso Truman salvò la destinazione ebraica di gran parte di quella regione. In cambio l’Agenzia ebraica acconsentì a malincuore a concedere agli arabi Beersheba e una striscia di territorio al limite tra il Sinai e il Negev originariamente destinati agli ebrei. Giaffa sarebbe stata una enclave araba nello stato ebraico e gli ebrei avrebbero ricevuto qualcosa in cambio in Galilea. Con queste modifiche il futuro stato ebraico avrebbe occupato il 55 per cento della Palestina, con una popolazione israelita di 500.000 persone e una minoranza araba vicina alle 400.000 persone. Altri 100.000 israeliti risiedevano a Gerusalemme.
    La Carta delle Nazioni Unite richiedeva che la risoluzione fosse approvata con la maggioranza di due terzi. Nonostante la maggioranza nell’Unscop e l’appoggio di Stati Uniti e Unione Sovietica all’inizio i sionisti erano tutt’altro che ottimisti sull’esito della votazione. Il 26 novembre tre nazioni incerte [Haiti, Grecia e Filippine] annunciarono voto contrario. Disperati i sionisti si rivolsero allora a Washington comprendendo che in mancanza di pressioni americane sugli stati-clienti la battaglia alle Nazioni Unite rischiava di essere perduta. Il lobbismo sionista fu duro ed efficace, come l’opera di ‘convincimento’ che gli Stati Uniti esercitarono su una dozzina di staterelli. Le originarie istruzioni di Truman del 24 novembre di ‘[non] fare uso di minacce o improprie pressioni di alcun genere con altre delegazioni per indurle a votare il rapporto di maggioranza’ furono accantonate. Si minacciarono alla Grecia la cessazione degli aiuti economici e alla Liberia l’embargo della gomma.
    Il 28 novembre, nelle ore precedenti la cruciale votazione, gli arabi riuscirono ad ottenere una breve proroga. Solo una seria proposta di compromesso poteva però evitare il voto a favore della divisione ed essi non riuscirono a formularla. I rappresentanti dell’Alto comitato furono scarsamente presenti alle trattative dietro le quinte, così come il delegato pakistano Zufferallah Khan, il più abile dei portavoce arabi.
    La votazione venne trasmessa in diretta via radio in tutto il mondo e in nessun luogo fu ascoltata con maggior trepidazione che in Palestina. Alla fine i voti a favore furono 33, quelli contrari 13, gli astenuti 10. La divisione era passata ma con margine piuttosto ristretto [tre ‘no’ al posto di tre ‘sì’ avrebbero provocato la bocciatura]. Il voto contrario era stato espresso dai paesi arabi, da quelli musulmani, da Cuba e dall’India. Quello favorevole dagli Stati Uniti, dai paesi del Commonwealth e da molti paesi latino-americani. Tra gli astenuti Gran Bretagna, Argentina, Messico, Cile e Cina.
    I sionisti e i loro alleati furono soddisfatti. Gli arabi lasciarono la sala sostenendo che la risoluzione era senza valore. Come scrisse in seguito uno storico palestinese non capivano perché il 37% della popolazione avesse ottenuto il 53% del territorio di cui fino a quel momento possedeva solo il 7% [l’enfasi è aggiunta…-n.d.r.]. Il altre parole i palestinesi non capivano perché si facesse pagare loro il conto dell’Olocausto [idem…-n.d.r.], non capivano perché fosse ingiusto [l’enfasi è originale… -n.d.r.] che gli ebrei restassero minoranza in uno stato palestinese unitario e invece fosse giusto [idem…-n.d.r.] che quasi metà degli arabi palestinesi, la popolazione autoctona che abitava il paese da secoli, diventasse dalla sera alla mattina una minoranza soggetta ad un potere straniero. I delegati arabi dichiararono che qualunque tentativo di applicare la risoluzione avrebbe scatenato la guerra. Ben-Gurion sapeva che la guerra sarebbe scoppiata ma disse ugualmente: ‘Non sono al corrente di alcuna impresa del popolo ebraico nella sua lunga storia maggiore di questa’. Secondo lui la risoluzione 181 fu in qualche modo ‘un gesto riparatorio della civiltà occidentale per l’Olocausto, il pagamento di un debito da parte di nazioni consapevoli che avrebbero dovuto impedire o almeno limitare la portata della tragedia degli ebrei durante la seconda guerra mondiale [l’enfasi è aggiunta…-n.d.r.]’.
    I sionisti aveva sfruttato abilmente la situazione, inconsueta e transitoria, di concordia tra statunitensi e sovietici sul problema palestinese. Molto aiutati dal senso di colpa collettiva legato all’Olocausto, erano riusciti ad ottenere una garanzia internazionale per un piccolo territorio assegnato agli ebrei, ai quali spettava ora di trasformare questa garanzia ‘astratta’ in possesso concreto dando vita ad uno stato ebraico effettivo, quasi certamente dopo una guerra. Quanto ai palestinesi essi avrebbero pagato il prezzo dell’operazione [l’enfasi è aggiunta…-n.d.r.].
    La minaccia ventilata dai delegati arabi nel lasciare l’Assemblea generale che il tentativo di dividere la Palestina avrebbe causato una guerra non era vuota retorica. Nel giugno 1946 la Lega araba aveva segretamente promesso fondi, armi e volontari ai palestinesi. Il 16 settembre 1947 essa decise di costituire un Esercito di liberazione arabo, formato da volontari palestinesi provenienti dagli stati arabi. In novembre i siriani avevano cominciato a d armare volontari ed aprire campi di addestramento. Fai al-Qawuqji, che aveva trascorso gli anni di guerra in Germania come conduttore di trasmissioni propagandistiche per il mondo arabo, fu nominato comandante. Amin al-Husayni si oppose però decisamente alla nomina. Fin dai tempi della rivolta araba considerava Qawuqji un rivale e il reciproco risentimento avrebbe finito col minare lo sforzo militare palestinese nel 1948. Le forze degli Husayni avrebbero così agito senza coordinamento con l’ELA, spesso addirittura intralciandone le operazioni.
    Già prima del voto delle Nazioni Unite la Lega araba aveva creato un Comitato militare presieduto dal generale Ismail Safwat, già capo di stato maggiore dell’esercito irakeno, con il compito di assistere i palestinesi. Per premere sulla Gran Bretagna e sull’Onu egli decise di schierare alcuni reparti lungo le frontiere palestinesi. Così Damasco trasferì alcuni battaglioni, allarmando i britannici e mettendo all’erta la yishuv. In effetti il 20 ottobre 1947 una piccola formazione armata siriana varcò la frontiera a Tel al-Qadi forse per errore, forse per saggiare la reazione dei britannici che la respinsero immediatamente.
    In un mesto rapporto alla Lega il generale Safwat comunicò che i sionisti possedevano ‘istituzioni e organizzazioni politiche, militari e amministrative caratterizzate da un livello molto alto di efficienza’. Potevano schierare almeno 20.000 uomini con un numero doppio di riservisti, le comunicazioni erano buone e gli insediamenti ben difesi. I palestinesi non avevano nulla di tutto ciò. E’ chiaro che egli intendeva dire che i paesi arabi dovevano mobilitarsi ed aiutare i palestinesi, altrimenti sarebbero stati sicuramente sconfitti. Gli altri paesi della Lega non erano però disposti a farsi coinvolgere nel conflitto. Gli irakeni, i quali ‘esalavano zolfo ad uso e consumo dei compatrioti’, restarono quindi i più militanti. E poi, in quanto più lontani dalla prima linea, sui sentivano ancor più liberi d’inebriarsi della loro stessa retorica. Pochi giorno dopo il sì dell’Onu alla divisione e l’inizio degli scontri i Palestina l’Iraq propose che truppe regolari degli stati arabi intervenissero per ‘salvare’ il paese senza aspettare la partenza dei britannici e l’annuncio dell’indipendenza da parte degli ebrei. La proposta fu respinta e la Lega optò per un intervento minimo e indiretto consistente nell’invio di 10.000 fucili e 3.000 volontari.
    Husayni, che regolarmente si presentava non invitato ai vertici della Lega araba, altrettanto regolarmente si vedeva bocciare tutte le proposte. L’ipotesi di intervento del generale Safwat non gli era affatto piaciuta. Temeva potessero approfittarne la Giordania, la Siria o l’Egitto per guadagni territoriali a spese dei palestinesi. Nell’insieme le conferenze erano caratterizzate da diversità di vedute, diffidenza e rivalità. Molti dirigenti arabi erano ostili ad Husayni, che consideravano un incorreggibile intrigante, cosa che rendeva quasi impossibile un efficace processo decisionale. I moderati come ‘Abdallah di Giordania si lasciavano spingere a prese di posizione estremiste per non essere accusati di scarso patriottismo panarabo. I rituali appelli all’unità araba e all’indipendenza della Palestina erano ripetuti ad ogni riunione, mancavano però idee precise su come tradurli in pratica. Molti capi arabi sapevano che i loro eserciti erano in cattive condizioni e non in grado di affrontare un nemico agguerrito , tanto meno con i britannici ancora in Palestina, ma si sentivano obbligati a fare qualcosa. Spesso erano incalzati dall’opposizione e, soprattutto i monarchi, erano deboli sia sul piano della popolarità che su quello della legittimità. Il non-intervento in Palestina poteva essere fatale ai loro traballanti regimi. Così la pubblica millanteria, il timore dei popoli da parte dei governi che avevano eccitato quegli stessi popoli con eccessi di retorica e le pressioni reciproche spingevano insieme nella stessa direzione, che non era quella della pace.
    Ben-Gurion capiva che la battaglia decisiva per la nascita dello stato ebraico non sarebbe stata contro la gran Bretagna, né si sarebbe limitata alla diplomazia. Tra il 1936 e il 1945 la Haganah si era costantemente rafforzata, sia pure a ritmo discontinuo, migliorando strutture di comando e addestramento, creando nuovi reparti [in particolare le Palmah], ampliando gli arsenali e la propria rudimentale ‘industria bellica’. Nel 1945 i propri emissari negli Stati Uniti erano riusciti a procurarsi attrezzature per la produzione di armi che la fine della guerra aveva reso sovrabbondanti e a introdurle in Palestina. Alla fine del 1947 le officine della Haganah sfornavano mortai da due e tre pollici, mitragliatori Sten, bombe a mano e molte munizioni. I preparativi si erano estesi all’aviazione. Negli anni ’30 la Haganah aveva anche acquistato degli aeroplani e, mimetizzandoli da aerei civili, aveva cominciato ad addestrare piloti. Nel novembre 1947 venne costituita la Forza aerea, composta da alcuni velivoli civili leggeri con l’aggiunta di qualche rudimentale armamento.
    Nel maggio 1946 lo stato maggiore della Haganah aveva messo a punto il ‘piano C’, una strategia difensiva contro attacchi portati da truppe regolari completata da linee-guida per eventuali rappresaglie. Il ‘piano B’, elaborato nel 1945, delineava la difesa della yishuv da una nuova rivolta araba, con la Haganah in funzione ausiliaria rispetto alle truppe britanniche. Nell’ottobre e nel dicembre 1946 due aggiunte al ‘piano C’ contenevano istruzioni ai comandanti regionali circa le rappresaglie contro le truppe britanniche da adottare nel caso fossero venute in aiuto degli arabi. Da organizzazione propensa a considerarsi mera appendice dell’esercito britannico e destinata a cooperare con governo del Mandato la Haganah andava trasformandosi in forza armata pienamente responsabile della difesa della yishuv, se necessario contro la stessa Gran Bretagna.
    In dicembre la leadership sionista nominò Ben-Gurion responsabile della difesa, oltre che presidente dell’Agenzia ebraica [in effetti primo ministro di uno stato nello stato…]. Dalla primavera del 1947 in poi egli dedicò molto tempo ed energie alla preparazione militare della yishuv, affidando la battaglia politico-diplomatica a Moshe Sharett, Abba Hillel Silver e altri. Passava intere ore con gli ufficiali della Haganah e delle Palmah e con i veterani della Brigata ebraica [la quale durante il conflitto mondiale aveva combattuto in Italia… -n.d.r.] a studiare i problemi strategici e le necessitò difensive della yishuv. In questo periodo gli alti gradi della Haganah e delle Palmah erano entrati in competizione con i veterani che avevano combattuto negli eserciti regolari [soprattutto quello britannico] tornati alla Haganah dopo il 1945 e in attesa di incarichi. Era una questione sia personale sia di filosofia militare. Quale concezione [e quindi quale gruppo…] avrebbe plasmato le nascenti forze armate ebraiche?… Quella di tipo ‘partigiano’ basata su piccole squadre, mordi e fuggi e iniziativa personale o quella di tipo ‘tradizionale’ basata su reparti inquadrati, disciplina e manovre coordinate?… Entrambe le scuole cercavano di attrarre Ben-Gurion dalla loro parte. Diversamente da molti suoi colleghi egli pensava che…

    … fino a tempi recenti la nostra sola preoccupazione è stata difendere la yishuv dagli arabi palestinesi… ora però siamo di fronte a una questione ben diversa. La terra d’Israele è circondata da stati arabi indipendenti… che hanno il diritto di acquistare e produrre armi, mantenere eserciti e attivarli… Gli attacchi degli arabi ‘palestoinesi non sono un pericolo per la yishuv. C’è un altro pericolo, che gli stati arabi confinanti attacchino la yishuv con i loro eserciti regolari tentando di distruggerla…

    Così i preparativi della Haganah nel 1947 furono in vista di una guerra convenzionale contro una coalizione di stati arabi anziché in vista della guerriglia contro i palestinesi. Ben-Gurion sembra aver sottovalutato la Haganah e dubitato fosse in grado di trasformarsi in tempo in qualcosa di simile ad un esercito convenzionale. Si circondò di consiglieri militari scelti in gran parte tra i veterani degli eserciti regolari, soprattutto per controbilanciare il preesistente vertice della Haganah. Ciò nonostante, a parte la nomina a posti di comando di un piccolo numero di veterani degli eserciti regolari e l’adozione di alcune norme tipiche di questi ultimi per quanto riguardava la logistica, il coordinamento e la raccolta di informazioni, fu la Haganah ad espandersi e a trasformarsi a metà del 1948 nelle ‘Forze di difesa israeliane’ [Israel Defence Force o IDF]. La trasformazione avvenne molto tardi, in larga misura perché la Palestina restò a lungo sotto il controllo britannico e perché la Haganah era per sua natura una organizzazione clandestina. Solo nel novembre 1947 Ben-Gurion e il comando della Haganah assunsero un atteggiamento attivo e iniziarono i preparativi per la guerra. Anche se ancora nell’aprile del 1948 Ben-Gurion era convinto che i britannici intendessero manipolare gli eventi per restare in Palestina, la riorganizzazione della Haganah si basava in realtà sul presupposto che essi l’avrebbero abbandonata e che l’avversario da fronteggiare sarebbero stati i paesi arabi confinanti.

  9. #29
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    Predefinito ... la prima guerra arabo-israeliana...

    cari amici
    riprendiamo un importante discorso lasciato per un pò di tempo 'nel cassetto'...

    Quello che state per leggere, tratto sempre dall'opera di Benni Morris, servirà a convincere anche i dementi della futilità della storiella tante volte conclamata secondo la quale gli israreliti in Palestina da sempre hanno dovuto 'lottare per la propria esistenza'... in realtà da un secolo a questa parte gli ebrei hanno perpetrato unicamante una sistematica e spietata aggressione nei riguardi degli arabi [palestinesi e no...] per estrometterli per sempre da quello che essi considerano la 'Grande Israele' peromessa loro dai 'Profeti'...

    ... al solito non mi resta che augurarvi... buona lettura!...


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    Scrive Robin Miller: l'espulsione dei palestinesi è stato un esito inevitabile della decisione delle Nazioni Unite del 1947 di dividere per l'anno seguente la Palestina in due stati separati, quello arabo e quello ebraico [lo stato arabo non è mai nato].
    Prima di questa suddivisione gli ebrei formavano solo un terzo della popolazione della Palestina che comprendeva circa 608.000 ebrei e 1.237.000 arabi. Anche all'interno dell'area destinata ad Israele secondo il piano di ripartizione delle Nazioni Unite la popolazione consisteva di circa 500.000 ebrei e 330.000 arabi. Come era possibile che un paese con una minoranza araba così ampia diventasse la patria degli ebrei?...
    La risposta è che non era possibile. Era necessario un trasferimento enorme della popolazione. E questo fu ben compreso dai capi delle forze armate israeliane durante la guerra del 1947-1948. David Ben-Gurion, padre di Israele e capo delle forze armate, preannunciava in via confidenziale il 7 febbraio 1948 che nei prossimi mesi 'sicuramente ci sarà un grande cambiamento nella popolazione del paese'. Aveva ragione...



    La prima fase della guerra, novembre 1947-maggio 1948

    Anche se nella yishuv tutti pensavano che la guerra prima o poi sarebbe scoppiata e gli scontri cominciarono il 30 novembre, poche ore dopo il voto dell’assemblea generale, nessuno era certo che fosse l’inizio di una guerra vera e propria. Al principio tutto era assai simile ai disordini spontanei e scarsamente coordinati del 1920-21 e del 1929, cioè ad una tempesta passeggera. Anche nel servizio segreto della Haganah [la Shai] fino al 29 novembre era opinione generale che gli stati arabi fossero disuniti e che gli arabi palestinesi, impreparati ad una guerra, non avrebbero reagito con le armi al voto dell’ONU a favore della divisione. David Shaltiel, responsabile della Shai, era tuttavia più cauto: ‘Nessuno di noi sa con certezza cosa può succedere domani, e neppure oggi se è per questo…’, scrisse la sera del 29 novembre.
    Nelle città e negli insediamenti della yishuv la notte trascorse in rumorosi festeggiamenti. Quasi tutti erano rimasti accanto ad una radio durante la cronaca della votazione e un gigantesco collettivo grido di esultanza aveva contrassegnato il raggiungimento della maggioranza di due terzi. I giovani si erano riversati nelle strade ed avevano danzato con gioia intorno ad improvvisati falò. Nel cortile del National Institutions Buildings a Gerusalemme Golda Meyerson [Meir], direttrice ad interim del dipartimento politico dell’Agenzia ebraica [essendo Sharett a New York], parlò così alla folla sottostante: ‘Per duemila anni abbiamo atteso il momento del riscatto. Ora che è giunto è così grande e meraviglioso che non vi sono parole per descriverlo. Ebrei, mazel tov [buona fortuna]!…’.
    Alcuni però, come Yosef Nahamani, veterano di HaShomer, consigliere comunale a Tiberiade e direttore del locale ufficio della JNF, erano meno euforici. Era stato portato in trionfo da altri ebrei per le strade della sua cittadine lacustre, ma scrisse nel suo diario…

    … nel mio cuore c’erano insieme gioia e tristezza. Gioia perché le altre nazioni avevano alla fine riconosciuto che eravamo una nazione e uno stato. Tristezza perché dovevamo rinunciare a metà del paese, la Giudea e la Samaria, e perché avremmo avuto 400.000 arabi nel nostro territorio…

    In seguito Ben Gurion avrebbe ricordato…

    … non potei ballare né cantare quella notte. Curvavo gli altri danzare per la felicità e non riuscivo a non pensare che la guerra era già lì ad aspettarli…

    Vicino ad ogni assembramento di ebrei in festa c’era un villaggio o un quartiere arabo in preda a rabbia e sconforto. Il peggior timore dei palestinesi si era alla fine avverato. Le reazioni iniziali furono spontanee, esplosive, apparentemente non organizzate. Il mattino del 30 novembre un gruppo di arabi tese un’imboscata ad un autobus vicino a Kefar Syrkin. Cinque ebrei rimasero uccisi e diversi altri feriti. Dopo solo 25 minuti lo steso gruppo assalì un altro autobus e uccise altre due persone. Non è mai stato chiarito se l’episodio sia stato una reazione alla votazione alle Nazioni Unite o la risposta ad una precedente incursione dell’LHI che era costata la vita a cinque arabi. Un altro ebreo fu ucciso, sempre il 30 novembre, da alcuni arabi nella zona di confine tra Giaffa e Tel Aviv. Furono queste le prime vittime della prima guerra arabo-israeliana.
    Sotto la guida di Husayni, che si trovava al Cairo, il 1° dicembre l’Alto comitato proclamò, a partire dal giorno seguente, uno sciopero generale di tre giorni della comunità arabo-palestinese. Il giorno successivo una grande folla araba, con bastoni e coltelli, si riversò dalle porte della Città vecchia e attaccò negozi e passanti ebrei. Poco dopo raggiunse il municipio. Ci furono diversi feriti, uno dei quali grave, e scoppiarono alcuni incendi. Il servizio segreto della Haganah identificò alcuni funzionari dell’AHC tra coloro che incitavano i rivoltosi. Unità della Haganah spararono talvolta in aria, in altri casi ad altezza d’uomo. In generale le truppe e la polizia britanniche assistettero agli scontri senza intervenire. Qualche poliziotto prese parte agli atti vandalici e ai saccheggi. Vi furono però dei casi in cui agenti di polizia collaborarono all’evacuazione degli ebrei feriti. Questa diversità di comportamenti avrebbe caratterizzato le forze di sicurezza del Mandato nei sei mesi seguenti. Alla fine la folla ritornò sui suoi passi e si disperse. Le ostilità erano così iniziate.
    La prima guerra arabo-israeliana avrebbe avuto due distinte fasi. La prima, dalla fine del 1947 alla metà di maggio 1948, consistette in larga misura in episodi di guerriglia tra la yishuv e la comunità arabo-palestinese. La seconda, dal 15 maggio 1948 in avanti, in una guerra convenzionale tra il nuovo stato israeliano e gli eserciti di Siria, Giordania, Egitto, Libano ed Iraq, ai quali si aggiunsero piccoli corpi di spedizione provenienti da altri paesi arabi, tra i quali Yemen ed Arabia Saudita.
    Durante la prima fase la maggior parte degli scontri si verificò all’interno delle zone attribuite al futuro stato ebraico, dove gli ebrei erano numericamente prevalenti: Gerusalemme, Giaffa, Tel Aviv, Tiberiade, Galilea orientale, la valle di Yezreel e la pianura costiera. Nella Palestina occidentale e in varie parti della Galilea le due comunità erano mescolate in modo inestricabile. Nei centri più importanti [Haifa, Giaffa, Tel Aviv, Gerusalemme, Safed, Tiberiade] la popolazione era mista, ciascuna comunità essendo ben visibile all’altra. Non di rado le case degli ebrei e degli arabi si fronteggiavano ai due lati della strada. Tanto nelle città quanto nelle campagne le zone arabe ed ebraiche erano in grado di isolarsi a vicenda bloccando le vie di comunicazione che attraversavano le une e le altre. Teoricamente Londra governava ancora in Palestina e le sue truppe erano distribuite sull’intero territorio del paese. Sia gli arabi sia gli ebrei dovevano tener conto di questo fattore ed entrambi sospettavano i britannici di favorire il nemico. Non c’è dubbio che fino al marzo 1948 le forze britanniche costituirono un serio intralcio per la Haganah, la quale dovette operare sapendo che i suoi attacchi in grande stile sarebbero stati ostacolati o repressi. Nello stesso tempo però la presenza delle truppe di Londra impedì l’intervento degli eserciti arabi e rappresentò una valida protezione per i convogli e gli insediamenti ebraici.
    All’inizio della guerra Whitehall pensava che gli arabi avrebbero prevalso: ‘A lungo termine gli ebrei non possono tener testa [al nemico]… saranno alla fine espulsi dalla Palestina se non accetteranno un compromesso…’, fu il meditato parere dello stato maggiore imperiale. In effetti, almeno sulla carta, lo scontro si presentava alquanto impari. Dal punto di vista della popolazione il rapporto di forza era circa due a uno in favore degli arabi [1.2-1.3 milioni contro 650.000]. Gli arabi inoltre avevano il vantaggio di un ampio retroterra di popoli affini dal punto di vista etnico e religioso al quale attingere rifornimenti di uomini e materiali e dove eventualmente rifugiarsi. Il ‘retroterra’ ebraico [la Diaspora] era troppo lontano e discontinuo per avere valore strategico e i rifornimenti che esso poteva fornire dovevano superare lo sbarramento costituito dalla Royal Navy e dalla Royal Air Force. La yishuv dal canto suo era però nettamente in vantaggio da tutti gli altri punti di vista, organizzazione bellica di tipo ‘nazionale’, addestramento, armamento, capacità di produrre armi in proprio, morale, motivazione e, cosa più importante, comando e controllo [e scusate se è poco!… -n.d.r.]. La yishuv godeva perfino di superiorità demografica in quanto a maschi adatti alle armi, dovuta alla politica prebellica intesa a favorire , nei limiti del possibile, l’immigrazione dei giovani di sesso maschile. In fin dei conti lo squilibrio di forza militare tra i due campi rispecchiava le caratteristiche delle corrispondenti comunità, oltre ad alcune circostanze storiche. Nel 1947 si fronteggiavano una società assai motivata, con alto grado di istruzione, ben organizzata e semindustriale e una società arretrata, il larga misura analfabeta, poco organizzata e tipicamente contadina. Per l’abitante medio di un villaggio arabo ‘indipendenza’ e ‘nazione’ erano concetti vaghi e astratti. La sua realtà era limitata alla famiglia, al clan, al villaggio e qualche volta alla regione di appartenenza. Inoltre decenni di rivalità interna avevano reso fragile la società palestinese. Particolarmente grave a questo proposito era la rivalità politica tra gli Husayni e gli Nashashibi, le cui deleterie conseguenze si facevano sentire in tutti i campi. Inoltre la ribellione del 1936-39 aveva decapitato la comunità araba sia politicamente sia militarmente. Alcuni dirigenti erano stati uccisi o gravemente feriti, altri erano in esilio, altri ancora avevano gettato la spugna. Gli anni della seconda guerra mondiale avevano permesso che alcune ferite si rimarginassero, ma nell’insieme la società arabo-palestinese non si era ancora ripresa dai guasti delle divisioni interne e della repressione della rivolta, né aveva sviluppato valide strutture di autogoverno. Il suo unico organo amministrativo autonomo era il Consiglio supremo musulmano, la cui competenza era in senso stretto religiosa. L’Alto comitato era scarsamente rappresentativo e non controllava nessuna struttura amministrativa. Negli anni ’30 e ’40 la classe dirigente palestinese aveva reclamato spesso e in tono perentorio ‘indipendenza’, ma non aveva compiuto se non in misura minima i pazienti, umili preparativi necessari all’autogoverno. Dopo secoli di dominio ottomano l’elite araba era egoista, corrotta e relativamente inesperta nel campo della pubblica amministrazione. Durante il Mandato le più eminenti famiglie ‘nazionaliste’ avevano venduto terreni ai sionisti e accettato mance e ‘finanziamenti’ dall’Agenzia ebraica. Pochi arabi avevano acquisito una esperienza amministrativa o militare nel periodo in questione. E, come si è accennato, negli anni tra il 1936 e il 1947 i palestinesi avevano sviluppato la tendenza a contare in misura eccessiva sull’aiuto degli stati arabi confinanti.
    Il contrasto con il sionismo era stridente. Non vi era probabilmente al mondo in quel periodo un movimento più motivato e convinto delle proprie buone ragioni. L’Olocausto aveva dimostrato che per sopravvivere gli ebrei non potevano contare fino in fondo se non su loro stessi e che una sconfitta militare poteva essere il preludio ad un’altra carneficina di israeliti. Nei tardi anni ’40 la yishuv era quindi in assoluto una delle comunità politicamente più coscienti, combattive e organizzate. Le infrastrutture di uno ‘stato nello stato’ erano cresciute senza sosta nei decenni del dominio britannico, che nell’insieme aveva tenuto nei confronti degli ebrei un atteggiamento benevolo. Oltre alla Haganah la yishuv disponeva di un ‘quasi-governo’ [l’Agenzia ebraica] con un vertice collegiale [l’esecutivo], un ‘ministero degli esteri’ [il dipartimento politico] e un ministero economico [il dipartimento finanziario]. Inoltre vi erano molte istituzioni statali tra le quali un sistema scolastico autonomo e ben funzionante, un sistema fiscale, enti per la gestione del territorio e la creazione di insediamenti, un potente sindacato [la Histadrut]. Infine a differenza degli arabi la yishuv aveva una elite desiderosa di applicarsi alla pubblica amministrazione, con molti elementi ben preparati in campi quali la diplomazia, l’economia e la difesa. La yishuv in ultimo poteva sempre contare sull’appoggio delle efficiente Organizzazioni sionista mondiale, con importanti succursali negli Stati Uniti e in Gran Bretagna e in grado nei momenti decisivi di inviare ingenti risorse ai fratelli in terra di Israele. Tra il gennaio e il marzo 1948, durante un viaggio negli stati Uniti, Golda Meir raccolse 50 milioni di dollari per la Haganah, il doppio della somma chiesta da Ben Gurion. Una seconda rapida visita in maggio doveva fruttare altri 50 milioni di dollari. Fu così possibile pagare alcune forniture militari cecoslovacche di enorme importanza per l’esito del primo conflitto arabo-israeliano.
    In teoria gli arabi di Palestina avrebbero potuto contare sull’aiuto dei fratelli degli stati confinanti. La comunità araba mediorientale però, infinitamente meno unita e generosa della comunità ebraica internazionale, nel momento del bisogno concesse poco sia in armi sia in denaro. I volontari giunti dai paesi arabi, non più di 5000, furono ben poca cosa per numero e preparazione rispetto a quelli, ebrei e gentili, accorsi a sostenere la yishuv.
    Alla vigilia del conflitto la Haganah disponeva complessivamente di 35.000 combattenti. Tra questi le unità di elite delle Palmah consistevano, nel novembre 1947, di 2.100 uomini e 1.000 riservisti, i quali furono subito richiamati. La Irgun disponeva di 2.000-3.000 combattenti, l’LHI di 300-500. Durante la prima fase nessuna di queste organizzazioni ebbe contrasti con le altre o le intralciò. Semmai alla fine si vide un crescente coordinamento tra la Haganah e la Irgun. In breve la yishuv poteva contare su di un unico dispositivo militare nazionale, qualcosa di cui gli arabo-palestinesi mancavano completamente. Inoltre lo stato maggiore e le altre strutture di comando della Haganah garantivano che gli uomini in armi potessero essere trasferiti e schierati in ogni momento dove era di cruciale importanza poter disporre di superiorità in numero e potenza di fuoco. A fine novembre 1947 la Haganah aveva circa 16.000 armi leggere tra fucili automatici, fucili mitragliatori e pistole, un migliaio di mitragliatrici, 750 mortai leggeri. La polizia ebraica degli insediamenti, dipendente dalle autorità britanniche ma di fatto fedele alla Haganah, possedeva legalmente altri 6.500 fucili e 48 mitragliatrici. Gran parte degli oltre 300 insediamenti ebraici allo scoppio del conflitto era munito di solide difese, trincee, bunker e spesse barriere perimetrali spesso rinforzate con filo spinato e campi minati. Si trattava in sostanza di fortezze in miniatura.
    Per altro neppure la Haganah era priva di punti deboli. Non disponeva praticamente né di artiglieria né di carri armati. Le sue forze corazzate consistevano in poche autoblindo ‘artigianali’ [veicoli civili dotati di rozze blindature e armamento leggero in apposite officine]. Disponeva inoltre di una flottiglia di aerei civili ma nessun velivolo da combattimento. Infine le sue riserve di munizioni erano decisamente limitate.
    Gli sforzi degli arabo-palestinesi negli anni ’30 e nei primi anni ’40 di dotarsi di strutture militari ‘nazionali’ avevano prodotto magri risultati, consistenti in due piccoli eserciti male armati, male addestrati e scarsamente organizzati. Il primo era la Najada, capeggiata dal giurista di Nazareth Muhammad Nimr al-Hawari, il secondo la Futuwa, dominata dagli Husayni e comandata dall’ex-ufficiale di polizia Kamal Arikat. Pressioni e intimidazioni da parte degli Husayni avevano poi portato alla fusione delle due milizie nella Organizzazione giovanile araba e alla fuga di Hawari in Giordania. L’OGA però non decollò mai e i palestinesi entrarono in guerra senza un dispositivo militare organico.
    Nelle prime settimane del conflitto, dal dicembre 1947 al gennaio 1948, entrarono in azione un certo numero di bande arabe. Le due principali furono quella di ‘Abd al-Qadir al-Husayni, che agì sulle coline intorno a Ramallah e Gerusalemme, e quella di Hasan Salame, nell’area di Lydda. Ognuna possedeva un nucleo stabile di 300-500 combattenti e si spostava nelle campagne stabilendosi nei pressi di questo o quel villaggio. A volte il villaggio prescelto si rifiutava di ospitarle temendo la vendetta degli ebrei. Le bande disponevano principalmente di armi leggere, con l’aggiunta di qualche mitragliatrice e qualche mortaio da due o tre pollici. L’importanza strategica di queste bande era considerata scarsa sia dalla Haganah sia da Qawuqji, il quale a quanto pare le giudicava ‘brutali, inaffidabili e refrattarie alla disciplina, quindi pressoché inutili in un conflitto convenzionale’.
    Il più numeroso e meglio organizzato esercito arabo in Palestina prima dell’invasione del 1948 fu comunque l’ELA di Qawuqji, composto soprattutto di volontari della lega araba affluiti in Siria. Nel periodo del suo apogeo disporrà di 5.000-6.000 uomini, ai quali si aggiungeranno in ciascun teatro di operazioni centinaia di volontari locali. L’Ela era dotato di vari tipi di armi leggere, alcuni mortai di medio calibro e qualche cannone da 75 e 105 mm. Scarseggiava però di munizioni. Lasciata la Palestina nel maggio 1948 si riorganizzò in Siria e tornò in campo con un arsenale un poco migliorato. Nell’ottobre 1948 contava sulla carta otto battaglioni. In realtà non potè mai schierare più di tre o quattro battaglioni, ognuno dei quali operante per proprio conto. I primi reparti entrarono in Palestina alla spicciolata nel gennaio 1948 attraversando i confini con Siria e Giordania per concentrarsi in Samaria e Galilea. Furono ripetutamente sconfitti in campo aperto dalla Haganah e definitivamente cacciati dalla Palestina dall’IDF nell’ottobre 1948.
    Nell’insieme il dispositivo militare palestinese consisteva principalmente nelle milizie autonome di circa 800 tra città e villaggi, delle quali però solo 450 parteciparono al conflitto. Gli altri, quasi tutti situati nel territorio che poi sarà chiamato Cisgiordania [la West Bank, ovvero ‘Sponda Occidentale’, per gli anglosassoni…] contribuirono allo sforzo bellico in misura trascurabile. Ogni città e villaggio aveva un proprio ‘presidio’ composto da 10 a 100 uomini armati di pistola e fucili con una piccola scorta di munizioni. Le milizie locali non dipendevano da alcuna struttura ‘nazionale’. Al più si coordinavano a livello regionale, di solito in occasione dell’attacco ad un obiettivo nemico. Poteva accadere per esempio che i presidi di un gruppo di villaggi tendessero insieme un’imboscata ad un convoglio ebraico in avvicinamento. Terminato il combattimento si disperdevano fino alla successiva fazza [attacco in comune] un mese o due dopo. Di tanto in tanto una fazza della durata di qualche giorno prendeva di mira un insediamento o un gruppo di insediamenti, come accadde nel maggio 1948 al Blocco Ezion. Nelle situazioni difensive ciascun centro abitato era lasciato quasi sempre a se stesso, cosicché i reparti ebraici erano liberi di attaccarli uno alla volta. Dietro questa mancanza di cooperazione spesso si nascondevano discordie territoriali o tra clan. Alcuni villaggi e alcuni clan poi preferirono aiutare gli ebrei [il più delle volte fornendo informazioni ma talvolta anche nei combattimenti] a causa di vecchi rancori oppure semplicemente perché erano convinti che gli ebrei avrebbero vinto e volevano sedere sul carro del vincitore. Nel 1948 molti villaggi drusi della Galilea si schierarono così con gli ebrei. Diversi parteciparono alle operazioni della Haganah o dell’IDF contro i loro vicini, e alla fine un reparto druso fu addirittura incorporato nella IDF.
    Tutte le forze palestinesi soffrirono di gravi problemi di approvvigionamento, specie i villaggi. Molti non ricevettero rifornimenti di alcun genere per tutta la durata della guerra. L’ELA e le bande più grandi non avevano eccedenze da poter spartire, e quando i paesi arabi o il comitato militare inviavano armi e munizioni queste finivano sempre in mano alle unità più grandi, e talvolta alle milizie urbane di Giaffa, Haifa e Gerusalemme. Quando la milizia di un villaggio restava senz’armi o munizioni semplicemente cessava ogni tipo di operazione. L’ELA, le bande più grandi e le milizie urbane per gli approvvigionamenti dipendevano in gran parte dai paesi arabi confinanti. Quegli stati però erano poveri e male organizzate, così che il comitato militare della Lega araba a Damasco, cui in teoria spettava la supervisione dello sforzo bellico in Palestina, nonché i leader dell’Alto comitato in esilio, si dimostrarono incapaci dei raccogliere i fondi necessari e procurare in tempo i materiali utili. I rapporti del servizio segreto della yishuv pullulavano di intercettazioni di messaggi inviati dalle principali formazioni e dalle milizie locali a questo o quel paese arabo o all’Alto comitato, contenenti disperate richieste di armi e munizioni. La risposta era sempre la stessa: ‘Al più presto, se Dio vorrà’. Secondo un loro rapporto il 23 marzo [1948] gli stati arabi avevano fornito al Comitato militare 9.800 fucili e quasi quattro milioni di pallottole. Quasi tutto era però andato all’ELA. Anche le milizie urbane avevano ricevuto qualcosa. I villaggi pressoché nulla. Le armi inoltre erano spesso mal assortite, e una parte dei fucili guasta [particolarmente scadente era in materiale che proveniva dall’Arabia Saudita]. Solo l’ELA sembra aver posseduto infrastrutture logistiche degne del nome, oltre che armi e munizioni relativamente standardizzate. A complicare le cose i convogli dei rifornimenti erano illegali e dovevano evitare le pattuglie e i check points britannici nonché, talvolta, le unità della Haganah.
    Ancora più cruciale dei rifornimenti era il problema del comando e controllo. Le unità arabe erano troppo numerose [soltanto a Giaffa c’erano tre o quattro milizie separate] e troppi centri di comando ne muovevano contemporaneamente i fili da lontano. Il Comitato militare si dimostrò incapace di coordinare questi centri separati e spesso in competizione tra loro e dovette a sua volta guardarsi dalle intromissioni da parte dell’Alto comitato, il quale cercava di manipolare le milizie a proprio vantaggio. All’incontro di Damasco del 5 febbraio 1948 i membri del Comitato militare Amin al-Husayni, ‘Abd al-Qadir al-Husayni e Hasan Salame decisero in sostanza di ufficializzare la situazione esistente. La Palestina fu divisa in quattro zone, con la Galilea e la Samaria sotto Qawuqji e il suo ELA, il distretto di Gerusalemme sotto ‘Abd al-Qadir, la zona di Lydda sotto Salame e il comando delle operazioni a sud affidato ad un egiziano. Safwat venne nominato comandante in capo e Taha al-Hashimi ‘ispettore generale’ delle forze arabe in Palestina. Nessun teatro importante venne affidato ad Hajj Amin al-Husayni.
    In pratica il tentativo di sovrapporre un’autorità centrale e un coordinamento operativo ai vari comandi si rivelò un pio desiderio. Inoltre le milizie delle principali città non accettarono l’autorità dei comandanti e non coordinarono con essi le loro iniziative. La morte di ‘Abd al-Qadir, avvenuta all’inizio di aprile [del 1948], lasciò senza comando unificato le cruciali colline di Gerusalemme nelle restanti sei settimane di scontri. L’assenza di coordinamento fu probabilmente il fattore più importante della sconfitta finale e della relativa facilità con la quale la Haganah raggiunse i suoi obiettivi.

    La prima fase della guerra può a sua volta essere approssimativamente divisa in due periodi. Dal dicembre 1947 al marzo 1948 l’iniziativa fu dalla parte degli arabi e la Haganah adottò una strategia difensiva. Da aprile in poi la Haganah invece contrattaccò, battendo definitivamente la resistenza palestinese a metà maggio. Nel primo periodo gli arabi ottennero alcuni successi, in particolare il controllo delle vie di comunicazione, degli accessi a Gerusalemme Ovest [la zona ebraica] e contro alcuni insediamenti isolati. Non fu però una campagna coordinata e gli attacchi contro i mezzi di trasporto, i quartieri e gli insediamenti ebraici furono lasciati all’iniziativa delle bande armate. La Haganah, intenta a organizzarsi e guardinga nei confronti dei britannici, adottò un atteggiamento difensivo. Gli attacchi che organizzò contro villaggi e obiettivi urbani ebbero quasi sempre il carattere di rappresaglie. Già da metà dicembre però la semplice difesa era stata sostituita dalla ‘difesa attiva’ o ‘aggressiva’. La difesa pura [havlagah], praticata nel 1939-39, questa volta non costituì l’opzione strategica della Haganah[/i]. Non solo vi furono rappresaglie, ma il più delle volte apparvero esagerate. In effetti si trattò di una strategia mirante ad estendere i combattimenti in zone rimaste fino a quel momento pacifiche. Fin dall’inizio la Irgun, l’LHI, e in misura minore la Haganah, ricorsero ad attacchi terroristici contro la popolazione civile. Gli arabi a loro volta reagirono collocando grosse bombe in zone abitate da civili ebrei, in particolare Gerusalemme.
    Fin dall’inizio gli arabi compresero che i centri abitati e gli insediamenti ebraici, anche i più fuori mano, erano obiettivi quasi inattaccabili per le loro forze male armate e disorganizzate e che le vie di comunicazione erano obiettivi più ‘soffici’. Nel marzo 1948 il tentativo da parte delle bande armate di bloccare le comunicazioni, nonostante gli ebrei viaggiassero quasi esclusivamente in convogli, sembrava in larga misura riuscito. Diversi insediamenti isolati e Gerusalemme ovest, con i suoi 100.000 abitanti, rischiavano lo strangolamento. Fu soprattutto questo motivo, insieme con la crescente consapevolezza che i britannici erano soprattutto interessati alla sicurezza del proprio ritiro e non avrebbero interferito, a spingere la Haganah a passare all’offensiva all’inizio di aprile, ponendo le basi per la seconda fase della guerra.
    Nei primi mesi molti scontri si erano verificati all’interno o nei dintorni delle città a popolazione mista [Gerusalemme, Tel Aviv, Giaffa e Haifa], quasi sempre per iniziativa degli arabi. La Irgun e la LHI, ricorrendo al terrorismo contro i civili, contribuirono però fortemente a trasformare disordini e aggressioni armate isolate in guerra aspra e generalizzata. Il primo assalto armato ad un abitato ebraico avvenne l’8 dicembre al quartiere Hatikva di Tel Aviv. Già il 4 dicembre gli arabi avevano aperto il fuoco contro il quartiere e cercato di conquistare alcune case. I militanti della Haganah avevano risposto al fuoco uccidendo alcuni arabi e facendo alla fine intervenire i militari britannici che avevano ucciso due ebrei ferendone altri. Il 7 dicembre la Haganah aveva effettuato una rappresaglia facendo esplodere una casa nel vicino villaggio di Salame. Il giorno dopo centinaia di irregolari arabi al comando di Hasan Salame attaccarono frontalmente tentando di conquistare Hatikva. Riuscirono ad impadronirsi di alcune case alla periferia del quartiere sotto lo sguardo impassibile dei soldati britannici. Giunsero rinforzi della Haganah e una squadra di poliziotti ebrei che, infiltratisi tra i britannici, contrattaccarono respingendo gli arabi fino a Salame. Una sessantina di arabi e due ebrei persero la vita. In seguito un ufficiale britannico riportò a casa un bambino che gli arabi avevano rapito. I britannici sospettarono che l’attacco fosse stato ordinato da Husayni.
    Con i britannici ancora schierati in forze a Gerusalemme, la capitale del Mandato, gli attacchi in grande stile ai quartieri ebraici rischiavano di provocare interventi e contrattacchi altrettanto decisi. Il 10 febbraio 1948 150 arabi provenienti dalla Città Vecchia attaccarono il quartiere occidentale di Yemin Moshe, oltre la valle di Hinnom. Furono respinti dalla Haganah con l’aiuto delle truppe britanniche. Quella stessa settimana però, sempre a Gerusalemme, i britannici assunsero l’atteggiamento opposto allorchè una loro squadra disarmò quattro uomini della Haganah e li consegnò alla folla araba, la quale si affrettò a linciarli. Il seguito si disse che i soldati avevano inteso vendicarsi dell’uccisione di alcuni commilitoni avvenuta un paio di mesi prima ad opera della Irgun.
    Risalivano al dicembre 1947 anche i primi attacchi arabi agli insediamenti rurali ebraici, che talvolta furono soccorsi dai britannici. L’incursione più massiccia ebbe luogo il 9 gennaio 1948 quando più di 300 arabi, in gran parte beduini siriani, attaccarono i kibbutz di frontiera di Kefar Szold, con ogni probabilità per ritorsione ad un raid delle Palmah del 18 dicembre contro la vicina Khisas [sarà descritto più avanti]. Il comandante del locale battaglione britannico inviò otto autoblindo a protezione del kibbutz e gli arabi si ritirarono. La Haganah ebbe un morto e quattro feriti, gli arabi 24 morti e 67 feriti.
    Una pagina a sé è occupata dal terrorismo ebraico. A Tel Aviv, Giaffa, Haifa e Gerusalemme tra la fine di dicembre e i primi di gennaio centinaia di civili arabi furono uccisi o feriti dalla Irgun. Solo a Gerusalemme tra gli arabi vi furono, in due attentati avvenuti il 13 e 29 dicembre, 80 morti e 37 feriti. Un’altra operazione similare innescò un delle più gravi dinamiche di aggressione-rappresaglia di quel periodo. Il 30 dicembre una squadra dell’IZL lanciò diverse bombe a mano contro una piccola folla in attesa dell’autobus all’esterno della raffineria di Haifa, uccidendo sei persone e ferendone dozzine. La reazione degli operai arabi fu tanto violenta quanto non premeditata. Si gettarono contro i colleghi di lavoro ebrei con martelli, chiavi inglesi, tubi e armi improprie massacrandone 39 e ferendone 50 prima che i britannici riuscissero a ristabilire l’ordine. Lo stato maggiore della Haganah decise che l’uccisione degli ebrei andava punita indipendentemente dalle circostanze e la notte del 31 dicembre i villaggi suburbani di Balad al-Shaikh e Hawassa, a sud-est di Haifa, dove vivevano molti operai della raffineria, furono attaccati da unità delle Palmach e della Haganah. L’ordine fu di [i]uccidere il maggior numero possibile di maschi adulti e distruggere le abitazioni[i], risparmiando donne e bambini. Le squadre setacciarono così una casa dopo l’altra, trascinando fuori gli uomini e passandoli per le armi e in qualche caso lanciando granate o sparando raffiche di mitra all’interno delle case. Gli abitanti di Balad al-Shaikh ebbero così 60 morti, tra i quali anche donne e bambini. Ad Hawassa 16 uomini furono uccisi e 10 feriti.
    Anche l’LHI diede il proprio contributo alle stragi. Il 4 gennaio 1948 un camion pieno di esplosivo venne fatto saltare davanti al municipio di Giaffa che ospitava gli uffici del comitato nazionale arabo. L’edificio fu completamente demolito, 26 persone morirono e numerose altre rimasero ferite. L’attentato colpì profondamente il morale della popolazione araba e dei difensori di Giaffa. Neppure la Haganah fu estranea alla campagna terroristica, anche se, almeno nelle intenzioni, preferiva gli obiettivi militari. La notte del 5 gennaio una unità della Haganah distrusse parte dell’Hotel Semiramis a Gerusalemme, ritenendo ospitasse una banda di irregolari arabi. Le vittime, tutte civili, furono 26. Il 28 febbraio un’autobomba collocata dalle Palmah in una autorimessa nel centro di Haifa araba uccise una trentina di arabi e ne ferì una settantina. L’autorimessa era sospettata di servire alla preparazione di autobombe da usare contro gli ebrei. La strategia della rappresaglia adottata dalla Haganah contribuì alla diffusione e intensificazione del conflitto. L’organizzazione era scesa in campo con una mentalità già orientata alla rappresaglia. Agli attacchi arabi era necessario rispondere con forza ancora maggiore, se possibile prendendo di mira gli autori, altrimenti prendendo di mira un importante bersaglio collettivo come il villaggio degli attaccanti, il traffico su una strada adiacente e così via… Un certo numero di spedizioni punitive fu così compiuto in Palestina l’11 dicembre, dopo un’imboscata araba nella quale erano rimasti uccisi cinque ebrei.
    Un altro violento attacco ebbe luogo il 18 dicembre contro il villaggio di Khisas, in Alta Galilea. Una guardia ebrea aveva sparato ad un arabo del villaggio freddandolo. L’ebreo fu arrestato dai britannici. I cecchini di Khisas presero allora di mira gli ebrei al lavoro nei campi. Gli arabi poi tesero un’imboscata ad un ebreo che guidava un carro agricolo vicino al kibbutz Ma’ayan Baruch e lo uccisero. Quella notte le Palmah attaccarono Khisas e una grande residenza nei pressi [il ‘Palazzo’] appartenente al principale latifondista della zona, l’emiro Fa’ur. A Khisas i palmahnik fecero saltare in aria una casa uccidendo tre uomini, una donna e quattro bambini. Altri quattro uomini rimasero uccisi al ‘Palazzo’. Il seguito alcuni politici della yishuv criticarono l’incursione sostenendo che aveva esteso il conflitto ad un’area fino a quel momento pacifica.
    Le imboscate ai mezzi di trasporto ebraici furono uno degli aspetti della prima fase di guerra. All’inizio di dicembre gli ebrei cominciarono a spostarsi unicamente in convogli protetti dalla Haganah, a volte con l’ulteriore protezione di autoblindo britanniche. La Haganah iniziò a blindare autocarri e furgoni man mano che gli assalti nemici crescevano di numero e pericolosità. L’11 dicembre un convoglio in viaggio da Gerusalemme agli insedianti isolati del Blocco Ezion, a sud di Betlemme, fu vittima di una fazza degli arabi dei villaggi vicini. Restarono uccisi 10 ebrei. Il 14 dicembre un altro convoglio fu attaccato presso Ben Shemen. La maggior parte dei 14 morti ebrei venne finita da membri della Legione araba assegnati alle forze britanniche in Palestina. Gli israeliti riposero tendendo a loro volta imboscate. Il 12 dicembre, vicino a Safed, unità delle Palmah attaccarono un autobus arabo sospettato di trasportare miliziani, uccidendo 6 occupanti e ferendone 30. Il 16 dicembre la Brigata Alexandroni tese imboscate lungo le strade nei pressi di Beit Naballah, situata sulla fascia costiera, uccidendo o ferendo numerosi arabi.
    Qualche settimana dopo l’inizio delle ostilità volontari arabi cominciarono ad affluire dalla Siria e dal Libano. Un certo numero di siriani e irakeni avevano seguito sia ‘Abd al-Qadir al-Husayni sia Hasan Salame al loro rientro in Palestina [erano esuli dal 1939…] all’inizio di dicembre del 1947 ed avevano costituito delle bande armate. Circa 600 volontari entrati in Palestina da Siria e Libano alla fine di dicembre furono distribuiti alle milizie locali di Giaffa, Haifa, Gaza, Safed, Acri e Gerusalemme.
    Nella prima metà di gennaio del 1948 le avanguardie dell’ELA, completato un superficiale addestramento a Qatana, varcavano il confine palestinese. Il secondo battaglione Yarmukh, con più di 300 uomini in maggioranza siriani, scese dal Libano. Il primo battaglione Yarmukh, con circa 600 uomini, attraversò il Giordano. I britannici non reagirono agli sconfinamenti e si limitarono ad ottenere da uno dei comandanti la vaga promessa che gli ebrei non sarebbero stati attaccati prima della partenza di tutti i soldati di Londra. Un terzo battaglione arabo, lo Ittin formato quasi esclusivamente da volontari irakeni, giunse in Palestina alla fine di gennaio attraversando il Giordano e si congiunse al primo battaglione presso Nablus. Il 20 gennaio il secondo battaglione Yarmukh attaccò il kibbutz Yehiam, nella Galilea occidentale, cogliendo di sorpresa le forze della Haganah. Le difese però ressero e il battaglione si ritirò dopo cinque ore. Il primo Yarmukh entrò invece in azione il 16 febbraio dando l’assalto al kibbutz Tirat-Zvi, nella valle di Bet Shean [Beisan]. Nella notte del 15 febbraio il servizio segreto della Haganah aveva intercettato alcune conversazioni telefoniche in codice dirette da Jenin a Nablus e Beisan. Si comunicava : ‘Lo sceicco sta arrivando… Tutto è pronto… Stanotte una pioggia bollente cadrà vicino a Beisan…’. Il kibbutz venne di conseguenza rinforzato e quella notte stessa una unità delle Palmah fece saltare il ponte Sceicco Husayni sul Giordano, in modo da isolare i reparti dell’ELA dalle loro basi in Siria. Quando l’attacco cominciò la Haganah era pronta. Il nutrito fuoco dei difensori, le nuove barriere di filo spinato, la pioggia scrosciante e il fango si rivelarono alla fine insormontabili per gli attaccanti. Da prima questi, pur avendo cessato l’operazione, restarono nei pressi del kibbutz. Sopraggiunse più tardi una colonna corazzata britannica che ingiunse al comandante arabo, Muhammad Safa, di andarsene con tutti i suoi. Safa chiese di poter portare via i mortai e le mitragliatrici per poter dimostrare di aver desistito dall’attacco solo dei fronte alla superiorità delle forze britanniche. La condizione fu accettata ed egli si ritirò lasciando i morti sul terreno. Ben presto la demoralizzante notizia di questo insuccesso si diffuse in tutta la Palestina araba.
    L’incapacità degli irregolari arabi di conquistare i quartieri ebraici e le rappresaglie degli ebrei convinsero Husayni e i suoi seguaci a spostare il fulcro delle operazioni dalle città alle campagne. Delegazioni di notabili di Haifa, Gerusalemme e Giaffa si erano inoltre recate in Egitto pregandolo di risparmiare i grandi centri abitati. Nel dicembre del 1947 ebrei di Tel Aviv e arabi di Giaffa avevano siglato un accordo di non aggressione, anche per consentire ad entrambe le parti di portare a termine la raccolta degli agrumi. Il cambiamento di strategia diede risultati difformi: successi negli attacchi contro i mezzi di trasporto e insuccessi in quagli contro gli insediamenti fortificati. Nel periodo gennaio-marzo 1948 gli irregolari, e in una certa misura l’ELA, si concentrarono sulle vie di comunicazione, il settore nel quale gli ebrei erano più vulnerabili. Qui gli arabi si trovavano spesso in vantaggio quanto a iniziativa, sorpresa, numero e potenza di fuoco. I risultati delle imboscate erano, se non risolutivi, di ampia portata. In caso di interruzione dei rifornimenti, specie a Gerusalemme Ovest, il morale e l’efficienza bellica della yishuv sarebbero potuti crollare. Il graduale ritiro dei britannici da una serie di aree [tra le quali Tel Aviv, sgomberata nel dicembre 1947…] significava che sempre più strade potevano essere attaccate senza interferenze. Il 31 dicembre la Shai riferì:’E’ intenzione degli arabi nei prossimi giorni paralizzare il traffico ebraico lungo tutte le strade’. All’inizio di febbraio 1948 la Shai apprese che ‘Abd al-Qadir intendeva fermare completamente il traffico ebraico sulla strada principale Tel Aviv-Gerusalemme. In aggiunta alla battaglia per il controllo delle strade gli irregolari di Husayni si diedero al terrorismo urbano nonostante la crescente difficoltà a penetrare i quartieri ebraici a causa delle pattuglie sempre più frequenti, dei check points e delle barriere di filo spinato che sempre più spesso separavano i quartieri arabi da quelli israeliti. Gli arabi avevano constato l’effetto devastante di poche bombe ben collocate dagli ebrei a Gerusalemme, Giaffa e Haifa. Tra gennaio e marzo si verificò così la più grave serie di atti terroristici urbani, probabilmente con la benedizione di Hasayni. E’ senz’altro possibile che ad attrarre l’attenzione degli arabi sull’efficacia degli attentati siano stati gli ebrei, come scrisse in seguito ‘Abdallah Tal, ufficiale della Legione araba. Il miglior artificiere dei Husayni, Fai al-Kutub, aveva però appreso il mestiere frequentando un corso di addestramento delle Ss in Germania. La notte del 1° febbraio due disertori britannici e un arabo usarono un autocarro dell’esercito di Sua Maestà, riempito di esplosivo da Kutub, per distruggere la sede delle poste palestinesi nel centro di Gerusalemme [i veicoli britannici potevano spostarsi liberamente in tutta la città]. Un ebreo perse la vita e 20 rimasero feriti. L’attentato seguente ebbe effetti molto più gravi. Informazioni in proposito erano giunte anche in questo caso alla Haganah con sufficiente anticipo. In particolare si sapeva che esso sarebbe stato attuato da disertori britannici utilizzando automezzi dell’esercito regolare che avrebbero formato un convoglio nel villaggio di Immwas, presso Latrun. Non fu presa però nessuna contromisura. Katub usò tre camion rubati e una autoblindo, valendosi della complicità di almeno sei disertori e poliziotti britannici. Il mattino del 22 febbraio il convoglio percorse la via Ben Yehuda, nel cuore della Gerusalemme ebraica. I disertori britannici innescarono le bombe, freddarono un guardiano ebreo che si era insospettito e si allontanarono con l’autoblindo. Dopo alcuni istanti i tre camion esplosero radendo al suolo quattro edifici. Il massacro, con i suoi 58 morti e 32 feriti gravi, lasciò la Gerusalemme ebraica traumatizzata e infuriata. Squadre della Irgun e della LHI percorsero le strade in cerca di vendetta, uccidendo 16 tra soldati e poliziotti britannici. Il 29 febbraio poi una bomba collocata dalla LHI vicino a Rechovot fece deragliare un treno britannico pieno di militari in viaggio dal Cairo ad Haifa uccidendone 27. Il terzo attentato arabo fu il più audace. L’11 marzo un agente di Husayni guidò un’automobile del consolato americano imbottita di esplosivo nel cortile degli edifici delle istituzioni nazionali della hishuv, tra le quali il quartier generale della Agenzia ebraica, la Haganah di Gerusalemme e il fondo nazionale ebraico. L’esplosione uccise 12 persone e ne ferì 10. L’impatto morale sugli ebrei fu fortissimo, soprattutto per la natura dell’obiettivo.
    Per quanto cruenti e traumatizzanti gli attentati erano tuttavia un diversivo. Sul piano strategico la campana contro le vie di comunicazione fu molto più importante. In gennaio e febbraio il costo pagato dalla hishuv fu assai elevato. Rifornire gli avamposti isolati come il kibbutz Yehiam in Galilea, il Blocco Eziom nelle colline della Giudea e i 10.000 ebrei di Gerusalemme diventò estremamente rischioso, tanto che per la scorta ai convogli di dovette ricorrere alle Palmah. Ma come gli ebrei affinavano a poco a poco le tattiche e i mezzi, lo stesso facevano gli autori delle imboscate. Per sua stessa natura era una lotta impari. Pochi membri della Haganah su mezzi di trasporto male armati, blindati in modo artigianale, surriscaldati e sovraffollati non potevano certo difendersi efficacemente da guerriglieri arabi molto più numerosi, appostati lungo le strade di solito in posizione elevata e con la protezione di massi e rocce. Le strade strette e tortuose toglievano ai difensori ogni possibilità di manovra. Spesso i veicoli perdevano i contatti fra loro, anche a causa delle scadente qualità delle ricetrasmittenti. Anche le possibilità di ritirata erano scarse o nulle. Non di rado gli insediamenti erano distanti, circondati tutt’intorno da villaggi arabi ostili. All’inizio le truppe britanniche scortavano quasi tutti i convogli, rispondendo anche al fuoco arabo. In marzo però questa protezione venne meno, via via che le unità si ritiravano nell’enclave di Haifa in attesa di far ritorno in Gran Bretagna. La motivazione a proteggere gli ebrei fu inoltre minata dagli attentati antibritannici della Irgun e della LHI. La sicurezza dei propri soldati durante il ritiro diventò la principale preoccupazione di Whitehall, mentre al secondo posto è probabile vi fosse quella di mantenere buoni rapporti con gli arabi per salvaguardare il ruolo di Londra nella regione anche dopo il ritiro. Anche gli ebrei tentarono di ostacolare gli spostamenti degli arabi e in certe zone, tra cui Haifa, demografia e topografia diedero loro una mano. Alla fine però la hishuv risultò più vulnerabile poiché, mentre gli arabi vivevano in villaggi in larga misura autosufficienti, la maggior parte degli ebrei viveva in città più o meno grandi che dovevano essere rifornite.
    Verso la fine di marzo la Haganah subì sulle strade una serie di rovesci tale da far temere una sconfitta generalizzata, a meno di non abbandonare la strategia fin lì adottata e trasferire uomini e mezzi dalla difesa dei convogli alla neutralizzazione delle basi nemiche. In due drammatiche settimane la Haganah perse gran parte dei veicoli blindati e centinaia di membri dei reparti di elite. Da prima vi erano stati tre insuccessi dalle parti di Gerusalemme, in cui la Haganah aveva perso 26 uomini [non contando i feriti…] e 18 veicoli. Il 27 marzo un grosso convoglio [tre dozzine di autocarri carichi di rifornimenti, cinque pullman per le truppe e sette autoblindo…] partì da Gerusalemme per il Blocco di Ezion. Gli arabi decisero di attaccarlo sulla via del ritorno. Kamal ‘Arikat, braccio destro di ‘Abd al-Qadir, mobilitò migliaia di miliziani dei villaggi e delle città, comprese Hebron, Betlemme e Gerusalemme. Sarebbe stata la più grande imboscata stradale di tutta la guerra. I britannici avevano avvisato la Haganah che non sarebbero intervenuti ed avevano consigliato di rimandare il ritorno del convoglio. Soldati e rifornimenti erano però attesi con ansia a Gerusalemme e la colonna partì ugualmente. Un aereo ricognitore della Haganah avvertì che lungo la strada vi erano almeno una dozzina di blocchi e molti appostamenti di arabi armati ma i comandanti del convoglio, ritenendo di poter disporre di adeguata potenza di fuoco, decisero ugualmente di proseguire. Un colonnello britannico su di un’autoblindo raggiunse gli ebrei da nord superando i blocchi stradali e anch’egli consigliò di attendere. Non venne ascoltato. Subito a sud di Betlemme un gruppo di arabi aprì il fuoco. Un veicolo sgombracarreggiata, con la parte anteriore rinforzata, riuscì a rimuovere sei blocchi impantanandosi contro il settimo. Dalle colline gli arabi allora presero a martellare il convoglio ormai fermo. Una colonna di soccorso composta da quattro blindati partita dal kibbutz Ramat Rachel, a sud di Gerusalemme, si ritirò con perdite dopo essere caduta a sua volta in una imboscata. Le richieste di aiuto della Haganah rivolte ai britannici furono respinte. Gran parte dei soldati ebrei, 186 tra uomini e donne, lasciarono gli autobus trasformatisi ormai in trappole mortali e si rifugiarono in una casa abbandonata con i muri in pietra poco lontana dalla strada, intorno alla quale furono schierati alcuni blindati e un autocarro. Altri sei mezzi, compreso quello del comandante del convoglio, riuscirono ad invertire la marcia e disimpegnarsi. Nelle successive 30 ore gli ebrei furono assediati da alcune migliaia di arabi. Ogni tanto un aereo mitragliava gli attaccanti o sganciava qualche rudimentale bomba, mentre a Gerusalemme la Haganah tentava senza successo di organizzare una colonna di soccorso e di convincere i britannici ad intervenire. Il mattino del 28 marzo infine una colonna di autoblindo britanniche partì da Gerusalemme. I blocchi stradali arabi ne rallentarono più volte la marcia. La colonna si fermò ad un paio di chilometri dagli assediati ed ebbe inizio una difficile trattativa a tre. Alla fine la Haganah si impegnò ad interrompere gli attacchi dei suoi aeroplani e a ordinare agli assediati di consegnare le armi prima di ritirarsi sotto la protezione dei britannici. Si fece così. I britannici alla fine consegnarono le armi degli ebrei alle forze arabe. Le perdite della Haganah ammontarono a 15 morti e 73 feriti. Secondo la Shai gli arabi persero una sessantina di combattenti, mentre i feriti furono circa 200. L’episodio ebbe inoltre spiacevoli strascichi all’interno della Haganah. Il comandante dei soldati ebrei rifugiatisi nella casa di pietra, Arye Tepper [Amit], scrisse poi a Ben Gurion e ad altri dirigenti della Haganah rimproverandoli esplicitamente del fiasco subito e proponendo che gli avamposti ebraici isolati intorno a Gerusalemme, compreso il Blocco Ezion, fossero evacuati. Il costo in uomini e mezzi per la loro difesa rischiava di essere proibitivo.
    Le perdite ebraiche furono ancora più elevate nell’attacco, avvenuto sempre il 27 marzo, ad un altro convoglio della Haganah, questa volta sulla strada per Yehiam, un insediamento isolato il Galilea occidentale. Sette veicoli caddero in una imboscata tesa da miliziani dei villaggi circostanti e da unità del secondo battaglione Yarmukh. La Shai aveva avvertito il comandante del convoglio che gli arabi si stavano concentrando ma questi, vista la critica situazione di Yehiam, aveva deciso di proseguire. Il grosso della colonna fu annientato e solo tre dozzine di uomini riuscirono con il favore delle tenebre ad abbandonare le carcasse dei veicoli e ad attraversare le linee arabe. Il mattino seguente soldati britannici e miliziani della Haganah raggiunsero il luogo dello scontro e recuperarono i cadaveri degli ebrei, spesso mutilati. Le perdite della Haganah furono di 47 morti e 7 feriti. Quelle arabe di 3-6 morti e un pugno di feriti.
    A fine marzo la situazione alimentare nella parte ebraica di Gerusalemme era grave: ‘C’è panico in città circa i rifornimenti… il rischio che scoppino disordini è reale…’, scriveva Yizchaq Levy, responsabile della Shai nella città al proprio superiore Isser Be’eri. Il comando della Haganah considerava la Gerusalemme ebraica ormai sull’orlo del collasso. Il 31 marzo un grosso convoglio di rifornimenti fu attaccato vicino al kibbutz Khulda. La zona era stata abbastanza tranquilla nelle settimane precedenti grazie anche ad un patto tra arabi ed ebrei che comportava di non attaccare i convogli di entrambe le comunità. La notte precedente truppe della Haganah avevano fatto esplodere una casa uccidendo una quindicina di arabi come rappresaglia per l’uccisione di una sentinella ebrea. Proprio la mattina del 31 marzo inoltre truppe della Haganah, disobbedendo agli ordini del quartier generale avevano aperto il fuoco contro un autobus di civili arabi uccidendo il guidatore e alcuni passeggeri. Gli arabi della zona e alcuni miliziani irregolari si accordarono così per una fazza ai danni della colonna ebraica. Dozzine di autocarri e veicoli blindati si erano dovuti arrestare vicino a Khulda dopo che alcuni autocarri si erano rovesciati. Dalle colline circostanti cecchini arabi aprirono allora il fuoco contro i veicoli. Poco dopo alcune autoblindo diedero loro manforte. Nacque una vera e propria battaglia e la maggior parte del convoglio dovette ritirarsi a Khulda. I palmahnik riuscirono a disimpegnarsi durante la notte e a rifugiarsi nel kibbutz. Nondimeno la Haganah ebbe 22 morti e 16 feriti. L’equipaggio di un blindato delle Palmah abbandonato dai comandanti del convoglio si fece saltare in aria per non essere catturato dagli arabi. Gli ebrei fatti prigionieri durante le imboscate ai convogli non di rado infatti venivano seviziati e uccisi. Gli arabi ebbero 8 morti. Fu la prima volta che un convoglio di rifornimenti destinati a Gerusalemme non riuscì a raggiungere la città.

 

 
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