Gianfranco Fini, la Shoah e la Destra italiana
di Marco Respinti
1. Yad Vashem, 24 novembre 2003. Gianfranco fini, presidente di Alleanza Nazionale – il partito nato dallo scioglimento Movimento Sociale Italiano, dopo il Congresso di Fiuggi del 27 gennaio 1995 –, al suo primo viaggio in Israele definisce «la memoria della Shoah [...] simbolo perenne dell’abisso di fe-rocia in cui può cadere l’uomo quando disprezza Dio» e stigmatizza l’«ignavia, [l’]indifferenza, la complicità o [la] viltà» che fece sì che «tantissimi italiani, nel 1938, nulla facessero per reagire alle infami leggi razziali volute dal fascismo». E – del tutto coerentemente con le scelte operate a Fiuggi nel 1995, maturate comunque all’interno di un percorso di evoluzione che in parte era già appartenuto alla dirigenza dell’MSI – ha poi in Italia ribadito la denuncia dell’Olocausto e di quanti, in qualsiasi modo, se ne sono stati complici: «[...] se l’olocausto rappresenta il male assoluto, ciò vale anche per gli atti del fascismo che hanno contribuito alla Shoah. Sappiamo che nella storia complessa del fascismo ci sono anche tanti altri momenti, ma se vogliamo che siano riconosciuti da tutti gli italiani senza che scatti il riflesso condizionato della accusa di revisionismo storico è indispensabile per noi essere intransigenti nel denunciarne i misfatti e le tragedie».
2. Le parole di Fini sono state integralmente pubblicate dal Secolo d’Italia, il quotidiano di AN, il 25 novembre (Il tempo della responsabilità, p. 1) e il 27 (Fini: una scelta di coerenza, p. 3). Difficilmente sono quindi travisibili, se non per pressapochismo o per malafede (spesso peraltro marcianti a braccetto). Da esse si evince un concetto preciso: l’antisemitismo è male assoluto da esecrare, e chiunque, uomini o governi, se ne sia macchiato in qualunque forma è altrettanto da esecrare. Dunque da esecrare sono anche quegli aspetti e quegli uomini del regime fascista italiano e della Repubblica Sociale Italiana – qualsiasi ne siano state le motivazioni storiche, politiche culturali e ideologiche, che possono spiegare le dinamiche ma mai giustificare le scelte – che di antisemitismo, in qualsiasi forma, si sono macchiati.
3. È compito degli storici studiare quegli avvenimenti, ma non è né ingiustificato né immorale che la politica tragga riflessioni, moniti, ispirazioni e conclusioni sia da quei fatti in se stessi, sia dalle analisi condotte su di essi dagli storici, sia dalle loro conseguenze nel tempo presente. Risibile, infatti, è dire che sono passati molti anni (volendo dire in realtà troppi anni): forse che la Rivoluzione detta francese o la cosiddetta Guerra civile nordamericana, ben più lontane nel tempo, non abbiano o non debbano avere conseguenze, talora anche forti, sull’attualità?
Tanto gli storici quanto i politici, però, hanno ora a disposizione materiali nuovi di studio e di valutazione, studio e valutazione che vanno sempre distinti nell’unità.
Insomma, condannato senza mezzi termini, senza riserve mentali, assolutamente non per ragioni strumentali di mero opportunismo politico e senza distinguo ipocriti l’antisemitismo, adesso il giudizio storico e politico sul regime fascista italiano e sulla RSI possono sperare in spazi di analisi e di considerazione non dettati dall’emotività generata dall’identificazione rigida e automatica (ma di per sé indebita) con l’antisemitismo.
Pur tenendo presente che l’antisemitismo non è stato estraneo a essi, infatti, il regime fascista italiano e l’esperienza della RSI vanno valutati come fenomeni storici, politici, economici e militari che, a differenza per esempio del nazionalsocialismo, non si sono intrinsecamente retti sulla questione razziale.
4. Solo così si potrà allora concludere che l’esperienza fascista italiana nel suo insieme – non identificabile tout court con l’antisemitismo ma certamente con esso connivente – presenta caratteri non conciliabili con la tutela dei diritti inalienabili dell’uomo, con l’espressione politica concreta di libertà che appartengono alla persona umana in quanto tale e con la partecipazione dei cittadini alla vita politica della nazione, valutando come l’esperienza fascista italiana nel suo insieme sia stato un “totalitarismo imperfetto” giacché oggettivamente temperato dall’azione anche politica di altri soggetti (in primis la Chiesa cattolica, ma anche la monarchia) che ne hanno impedito la totale chiusura su se stesso a modello, per esempio, nazionalsocialista o socialcomunista bolscevico.
Da questa riflessione, quindi, alcuni corollari: a) il fascismo è stato un regime dispotico e illiberale, ma non totalitario; b) fatte doverosamente salve tutte le peculiarità che rendono i fatti storici sempre e comunque unici, il giudizio storico e politico sulla stagione fascista italiana nel suo complesso non è diverso dal giudizio che chiunque abbia a cuore l’espressione politica delle libertà della persona umana deve formulare su altre esperienze politiche liberticide del Novecento, ancorché dispotismo e totalitarismo appunto non vadano confusi; c) numerosi elementi sociali, politici ed economici della stagione fascista italiana nel suo complesso italiano impediscono – al di là della questione razziale che non la caratterizza tout court – di configurarla come fenomeno di Destra.
La Destra italiana, cioè, non s’identifica né con il fascismo né tanto meno con l’antisemitismo. È con questo che ora la storia e la politica debbono misurarsi, tendono conto che oramai la “religione antifascista” – che non coincide di per sé con la difesa dell’espressione politica delle libertà della persona umana – non può più reggersi sull’identificazione rigida e automatica della stagione fascista italiana con l’antisemitismo.
Solo così può (ri)nascere una Destra autentica per l’Italia, che non sia fascista né antifascista.