Dopo anni di censura l'editoria italiana pubblica un resoconto del viaggio nel mondo dei dervisci redatto dall'ottocentesco ideologo Joseph - Arthur conte di Gobineau, allora addetto d'ambasciata inviato da Napoleone III e famoso per il suo "Saggio sull'Ineguaglianza delle razze umane".
Mentre usciva in Francia il libro che lo avrebbe consegnato all'inferno della storia, facendo del suo nome un sinonimo di cattivo maestro, Joseph - Arthur conte di Gobineau se ne stava beatamente in Persia, addetto d'ambasciata inviatò là da Napoleone III poco dopo la proclamazione, a Parigi del Secondo Impero. Il quarantenne aristocratico legittimista, che aveva iniziato la carriera diplomatica come capo di gabinetto di Alèxis de Tocqueville, non amava particolarmente il sovrano, ma aveva un'amicizia totale nonostante le vedute piuttosto differenti, con il grande liberale.
Guardandolo ora insieme, in una sorta di cartolina d'epoca, sembrano il diavolo e l'acqua santa agli occhi dell'editoria e del mondo storico intellettuale, l'uno bollato per sempre come ideologo del razzismo dopo la pubblicazione del "Saggio sull'Ineguaglianza delle razze umane", l'altro cresciuto sempre più nella considerazione dei posteri come teorico della democrazia. Su qualche punto, però dovevano intendersi per forza: e possiamo immaginare che il ministro degli esteri francese leggesse con piacere pagine come quelle che De Gobineau scriveva da Teheran, prendendosela con quanti in Europa, "hanno considerato i popoli dell'aurora alla stregua di rarità dimenticate in qualche angolo sperduto del mondo", e hanno visto in loro "soltanto dei selvaggi frustrati che si sottomettevano ai depredamenti europei, oppure, se facevano resistenza, dei sanguinari".
Era accaduto che nel corso della missione il reazionario attacchè d'ambasciata si era innamorato della Persia, del suo sfarzo selvaggio e della pur notevole quantità di caos che rilevava giorno per giorno, della sua cultura, della sua arte, del grande passato e del presente, che riteneva altamente interessante. De Gobineau, nel resoconto di questa avventura, pubblicato nel 1859 col titolo "Trois ans en Asie" usa fatalmente il termine "razza" che nei confronti dei persiani non dimostra inclinazioni "razziste". Tanto vale provare a leggerselo, devono aver pensato all'editrice Medusa di Milano. E sfidando un certo scandalo hanno pubblicato il libro in una bella traduzione italiana, dal titolo "Viaggio in Persia", con prefazione di Franco Cardini.
Lo storico con una punta di provocazione, esordisce citando un non identificato collega intento a chiedergli strabiliato: "davvero vuoi scrivere una cosa su De Gobineau? Sei matto?... Di certe cose non si parla e basta. Almeno se proprio devi scriverle, metti le mani avanti: dinne subito male". Confessiamo che ci piacerebbe conoscere il nome del virtuoso intellettuale, destinato però a rimanere (probabilmente per questioni di privacy) un piccolo mistero. Ma è certo che parlare di un "maledetto" come De Gobineau può provocare esecrazione. Giustificata? Secondo Cardini no, anzi. Il conte è stato "espulso dalla porta d'ingresso (della cultura ottocentesca) per colpe in gran parte non sue". In effetti il suo "razzismo" aveva una tradizione alle spalle, che arrivava fino ai padri dell'Illuminismo, e alla scoperta grazie al contatto con la civiltà indiana che si poteva immaginare una comune origine per le popolazioni da allora chiamate "Indoeuropee", insomma la gran maggioranza dei bianchi. Ora dato che anche i persiani facevano parte di questa famiglia, forse non dovrebbe stupire l'atteggiamento di apertura che il conte dimostra nei loro confronti. Ma va anche detto che la sua teoria sulla decadenza delle civiltà a causa del mischiarsi delle razze non influenza il diario di viaggio.
De Gobineau ammira le rovine di Persepoli e le grandi moschee, ma anche lo stato di degrado delle zone intorno ai monumenti. Gli piacciono i mucchi di mattoni e di scarti che non deturpano affatto, secondo lui, i tessuti urbani; adora i baffoni di Nasreddin Sha, giovane imperatore persiano, che gli ricordano irrresistibilmente "quelli del re di Sardegna".
Gli piacciono la pompa di corte, i diademi e le pietre preziose, e anche l'interesse del popolo per la propria storia, le piccole assemblee spontanee di analfabeti che si creano per strada intorno a qualcuno intento a leggere un libro ad alta voce. Soprattutto sembra estasiato dal feroce individualismo che riconosce nella gente del bazar. Infila aneddoti raccolti chissà dove, come quello sul fallimento della "guerra santa" proclamata a malincuore contro la minaccia inglese nel 1865, e per di più su un suggerimento di un consigliere armeno-cattolico. Il suo spirito legittimista, qui trova di che deliziarsi. Descrive le chiacchere del bazar, dove nessuno ha la minima intenzione di impegnarsi temendo "di vedere la canaglia armarsi e attraversare la città, come avviene da noi quando la patria viene dichiarata in pericolo, con tutti gli inconvenienti che comporta la comparsa di questo tipo di difensori", l'indifferenza della "plebaglia" i lazzi contro i predicatori e infine lo squagliarsi generale.
Alla fine De Gobineau affermerà che "l'analisi della composizione etnica del sangue di questo popolo spiegherà il motivo per cui il tempo ha impresso questa direzione scettica e fredda dell'intera nazione".
Un bellissimo diario che a distanza di secoli è ancora capace di comunicarci il piacere di una residenza in una Persia ottocentesca. Narrandoci i fuochi d'artificio nella città santa di Qom o magari la storia di un derviscio un pò furfante che inganna un principe credulone proponendogli in moglie una fata.
A libro finito che cosa resta di questo innominabile De Gobineau? Cardini lo mette tra coloro che "fecero grande" l'ottocento e si spinsero uno alla volta allo scoccare del secolo (il conte morì a Torino nel 1882).