Corriere della Sera 31.12.2003
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La terribile catastrofe del terremoto in Iran induce misura nel linguaggio da usare per altre vicende. Eppure non trovo una parola diversa da catastrofe per classificare il crollo di Parmalat, "la più grande frode aziendale europea" secondo la definizione del Wall Street Journal . Il buco, stimato in oltre 10 miliardi di euro, non molto meno di un punto percentuale del prodotto lordo italiano, fa apparire il crak della Enron una piccola cosa, fatte le debite proporzioni col Pil americano. E' una catastrofe, e lo è sotto molteplici profili: finanziario, economico, morale e professionale, istituzionale, dell'immagine del Paese. Sul piano finanziario un numero elevatissimo di risparmiatori si è, ancora una volta, visto espropriato e derubato dei propri risparmi. E ciò è tanto più grave perché avviene in un periodo nel quale si segnala una forte caduta della propensione degli italiani al risparmio, che è stata negli ultimi quarant'anni uno dei punti di forza del nostro Paese. Nessuno può evitare i rischi connessi alle alterne vicende dell'economia, dei mercati, della tecnologia. Ma qui siamo in una situazione molto diversa: la perdita totale del capitale investito in un'azienda che svolge un'attività tipicamente non a rischio, a causa di mismanagement, truffa, malversazioni. Questo tipo di rischio dovrebbe essere impedito dai meccanismi di tutela del mercato e dagli organi preposti agli stessi, che hanno, quindi, platealmente e manifestamente, mancato ai propri compiti. Questa volta una perdita importante fa capo anche a banche e fondi esteri di gran nome. Ma non erano di gran nome anche quegli istituti che hanno registrato grandi perdite sui collassi americani e che hanno dovuto transare la loro responsabilità per miliardi di dollari con il procuratore di New York?
Gravissima per l’Italia è, poi, la distruzione della fiducia negli investimenti mobiliari da parte dei risparmiatori. Se si ritorna alla convinzione che i risparmi sono al sicuro solo in titoli di Stato o sotto il mattone siamo finiti come Paese moderno. Per fortuna i fondi di investimento, significativamente poco esposti su Parmalat, tengono bene.
Sul fronte economico siamo di fronte al collasso di un'altra grande impresa italiana, una delle poche industrie alimentari di proprietà italiana di dimensioni internazionali. Non può certo far piacere ciò, in un Paese che conta le imprese internazionali sulle dita di una, o forse, due mani e che ha visto sparire o quasi interi settori industriali in una forsennata e insensata corsa alla deindustrializzazione, e altri li ha visti, sempre per mismanagement, ripiegare da posizione di leadership europea a posizione di categoria B. Quest'aspetto è tanto più doloroso in quanto la Parmalat si inserisce in un ruolo centrale della catena agro-alimentare, e interagisce con settori a monte (allevatori) e a valle (formaggi) dove negli ultimi dieci anni è stato realizzato, nonostante le multe europee sulle quote latte e le follie e le violenze dei Cobas del latte, dai produttori e allevatori seri un grande processo di modernizzazione, con punte di assoluta eccellenza produttiva e qualitativa. Ma, sotto questo profilo, sono abbastanza fiducioso che la crisi Parmalat spazzerà via questa proprietà, ma non spazzerà via la Parmalat, come impresa. Mi conforta in questa sensazione la rapidità e l'appropriatezza degli interventi del governo, l'efficacia, la serietà e ancora la preziosa tempestività della magistratura inquirente, sia di Parma che di Milano, la qualità del nuovo management, la validità intrinseca di pezzi dell'impresa. Certo saranno necessari tagli, ma nell'insieme, Parmalat, come impresa, può sopravvivere a questa bufera.
E' stato scritto che il Governo, con il decreto Parmalat, si è messo su una linea interventista contraria al liberalismo ("Il crac è vietato. Lo Stato tiene a balia l'industria del latte" Il Foglio del 24 dicembre). Nello stesso senso il rozzo articolo di Brian M. Kaney sul Wall Street Journal del 29 dicembre. In realtà il "too big to fail" (troppo grande per poter fallire) è una realtà, con la quale, al di là delle sue linee di pensiero economico, ogni governo deve fare i conti. Sono convinto che Luigi Einaudi, Ronald Reagan e Margareth Tatcher avrebbero votato a favore del decreto che ha permesso una rapida azione per cercare di salvare il salvabile di Parmalat. La cosa più importante è che misure di questo tipo non funzionino anche come salvataggio della proprietà e annacquamento delle gigantesche responsabilità che stanno affiorando.
Sul piano morale e professionale non vi è dubbio che siamo di fronte a una nuova débâcle di un intero gruppo rilevante di imprenditori, manager, professionisti banchieri, consulenti di un'intera concezione di fare economia e di fare impresa. E, dunque, soprattutto venendo dopo le grandi difficoltà della Fiat, i bond Argentini, la Cirio (ma c'è ancora qualcuno che si ricorda del crac Ferruzzi, della voragine Olivetti, dei buchi Gemina?) è una nuova manifestazione di una vera e propria crisi sistematica. L'Italia come Paese deve farsi carico interamente e sino in fondo di questa "debacle". Vedere persone come il governatore Fazio che negano qualunque responsabilità e si chiamano totalmente fuori, è uno spettacolo triste ed avvilente. Molto più serio il commento di Will Hutton sull' Observer del 28 dicembre: " A prima vista Parmalat sembrerebbe una tipica impresa familiare italiana, costruita intorno a prodotti alimentari e al prosciutto. Ma non si trattava di ciò… Wall Street si è incontrato con il capitalismo italiano per produrre una Enron italiana".
Il caso Parmalat è un caso italiano solo nelle sue origini. Nel suo sviluppo è un caso anche americano e internazionale. E' un altro brutto capitolo del disastro morale ed operativo della finanza internazionale. Le banche d'affari che hanno consigliato Parmalat sono le stesse delle varie Enron & Co. I revisori sono gli stessi. Le società di rating sono le stesse. I trucchi e i meccanismi finanziari legali e societari applicabili sono gli stessi e sono stati inventati da loro. Tra l’altro i dirigenti e consulenti finanziari di Parmalat venivano da quelle parti, Alberto Ferraris da Citibank, Luca Sala da Bank of America, la principale banca del Gruppo e da UBS e poi, dopo uno stage in Parmalat, passato alla Deutsche Bank, che l'estate scorsa (dicesi: estate del 2003!) ha sottoscritto un prestito di 300 milioni di euro a favore di Parmalat. Persino l'avvocato architetto di tanti marchingegni, l'ormai famoso avvocato Gianpaolo Zini, il rappresentante italiano del fondo Epicurum, non proveniva da Collecchio, ma dalle ovattate stanze del celebre studio legale di matrice americana Pavia e Ansaldo. Coloro che hanno sostenuto Parmalat nei programmi di acquisizioni e di sviluppo forsennato, spesso coinvestendo, si chiamano soprattutto Bank of America, JP Morgan Chase, Merrill Lynch e Citigroup (accanto ovviamente alle nostre immancabili Capitalia, Banca Intesa, San Paolo-IMI). Andy Smith, un rispettato analista di Citigroup ha mutato il suo rating su Parmalat da "tenere" ad "acquistare" il 12 novembre dell'anno di grazia 2003 dopo Cristo.
Se sottolineo questi aspetti non è certo per minimizzare le responsabilità italiane (nell'ordine: amministratori, sindaci, revisori, Consob, Banche, Banca d'Italia, Borsa) che sono immense e senza attenuanti, ma solo per cercare di cogliere le dimensioni e la natura di questa catastrofe. Sbagliano dimensione e prospettiva quei commentatori che parlano di un disastro tipicamente italiano e delle imprese familiari in particolare. La Parmalat non è rappresentativa del capitalismo familiare italiano, ma di quella imprenditoria sempre a cavallo tra politica e impresa e che ha imparato a cavalcare la finanza internazionale che già tanti danni ha fatto al nostro Paese. L'economia italiana è debole ma in questo Paese esistono centinaia di imprese, di tutte le dimensioni, alcune anche internazionali, che con i metodi Parmalat e dei suoi consulenti e banchieri internazionali non hanno nulla da spartire.