Verona 1944 Genero di Mussolini ed ex ministro degli Esteri del regime, Galeazzo Ciano fu il principale imputato del dibattimento a carico dei «traditori» che avevano deposto il duce La sua condanna fu espressamente richiesta dai nazisti e dai «duri» di Salò

Nessuno dei giudici del Tribunale speciale era un magistrato Sulla sentenza pesò l’intervento diretto dello stesso Adolf Hitler




«I giustiziati di Verona scontano col castigo estremo il gesto dissennato che, pur per fulminei e forse impensati, ma certo non impensabili trapassi, ha gettato la patria inerme ai piedi del nemico... La sentenza è la prova che la Repubblica fa sul serio. Che il monito valga per chi ne ha bisogno».
Con questo conciso editoriale il quotidiano «La stampa» commenta, il 12 gennaio 1944, la fucilazione, avvenuta alle 8.30 del giorno prima, nel poligono di tiro della città scaligera, di cinque esponenti fascisti: Galeazzo Ciano, Emilio De Bono, Giovanni Marinelli, Carlo Pareschi e Luciano Gottardi, ritenuti dal Tribunale speciale appositamente istituito per questo processo, colpevoli di «tradimento e aiuto al nemico» per aver votato, il 25 luglio 1943, la sfiducia a Mussolini dando così modo a Vittorio Emanuele III di nominare Badoglio capo del governo. Un sesto imputato, Tullio Cianetti, è condannato a 30 anni di reclusione. Lo salva dalla morte il fatto di aver ritrattato quasi immediatamente la sua adesione all'ordine del giorno Grandi informandone il Duce. La sentenza capitale viene emessa anche nei confronti di altri tredici gerarchi (Grandi, Bottai, Federzoni, De Vecchi, Albini, Acerbo, Alfieri, Bastianini, Bignardi, Balella, De Marsico, De Stefani e Rossoni) che erano riusciti a sottrarsi all'arresto o espatriando o trovando rifugio clandestino in luoghi ospitali
Dei cinque fucilati, il più noto è certamente Galeazzo Ciano, per anni ministro degli Esteri del nostro Paese e soprattutto genero di Mussolini avendone sposato la figlia Edda. Sul tavolo del capo della Repubblica sociale italiana, non giungerà mai la domanda di grazia, che anche Ciano si era convinto a firmare dopo due ore di insistenze per non danneggiare gli altri condannati. Ma lo stesso Ciano era più che consapevole che la sua richiesta non sarebbe stata accolta.
La sua morte la volevano innanzitutto i nazisti. «La sua sorte - ha scritto un diplomatico tedesco accreditato a Salò - era stata decisa in un colloquio tra Hitler e Mussolini. Berlino fece anche sapere che un'eventuale commutazione della pena degli imputati, in particolare di Ciano, sarebbe stata accolta molto male». La volevano, anzi la pretendevano come un atto di giustizia dovuto, quei fascisti «arrabbiati» e fanatici della prima ora che il 14 novembre 1943, nel salone dei concerti del castello di Castelvecchio a Verona (lo stesso dove si sarebbe celebrato il processo), danno vita, interpretando non pochi umori della base, al Partito fascista repubblicano, del quale fu segretario Alessandro Pavolini.
In queste condizioni Mussolini non poteva - e probabilmente non voleva - concedere una grazia che avrebbe potuto suonare come un gesto di favoritismo verso il genero, la figlia e i tre nipoti. Al Consiglio dei ministri, riunito poche ore dopo l'annuncio della morte di Ciano, Mussolini si limita a un laconico «Giustizia è fatta». Poche parole in più avrebbe detto al ministro delle Finanze, Domenico Pellegrini: «Ora tutto è finito. Se non avessi fatto fucilare Ciano avrebbero detto che volevo salvare mio genero. Oggi diranno che ho fatto fucilare il padre dei miei nipoti».
In realtà le conclusioni del processo di Verona erano inevitabili, guardando alla scansione dei tempi. Questa inizia il 23 agosto 1943 quando Ciano, non avendo ottenuto dal governo Badoglio un passaporto che gli avrebbe consentito di raggiungere la Spagna (ma la meta finale era l'America del Sud), si «affida» alle Ss tedesche che, con un aereo partito da Ciampino, lo trasferiscono in Germania. Da qui il 19 ottobre è condotto a Verona e rinchiuso nel carcere dell'ex convento dei Carmelitani scalzi, dove occupa la cella 27. A dicembre viene raggiunto dagli altri cinque imputati, tra i quali il generale De Bono, uno dei quadrumviri della Marcia su Roma ma che ormai vive ai margini del regime.
I responsabili della Repubblica sociale italiana vogliono chiudere in fretta la vicenda. E intendono farlo con una condanna esemplare. Quello che si svolge a Verona è - lo dirà lo stesso Mussolini - un processo sostanzialmente politico. Nessuno dei giudici del Tribunale speciale è un magistrato. Ci sono due avvocati, un operaio, un generale e quattro ufficiali della milizia, un medico squadrista. Tutti fascistissimi doc che sembrano offrire «le massime garanzie che, specialmente nel caso di Ciano, pronunceranno la sentenza di morte», come avrebbe raccontato alcuni anni dopo uno dei giurati, il generale Montagna (l'unico che apertamente in camera di consiglio si sarebbe battuto inutilmente per una distinzione tra i capi della congiura, tra i quali Ciano, e gli altri imputati «che hanno agito in buona fede»).
Il processo si apre alle 9.15 di sabato 8 gennaio. Lunedì 10 la giuria, alle 10.05, si ritira in camera di consiglio. Ne esce tre ore dopo. La mattina successiva alle 8.30 un plotone di trenta volontari della polizia federale fascista avrebbe eseguito la sentenza. Alle 10, nella villa che lo ospita, Mussolini è informato della morte del genero. Si chiude nel silenzio. Poi improvvisamente chiede: «E Ciano?». Gli dicono che è morto da coraggioso.


Antonio Airò
L'Avvenire
2 01 04