....leghista
Milano. “Che ci vuoi fare? Anche a noi capita, in Consiglio provinciale, di dover discutere di crocifissi”. Come dire, succede di dover buttare via tempo, o almeno di impiegarlo meno proficuamente.
Sergio Rossi è uno che alle 9,30 della mattina dell’Epifania sta scaricando un camion, e preferisce finire: tocca aspettare dieci minuti. Ha quarantasei anni, è attivista della Lega Nord dal 1991; ha fatto un po’ di carriera: è consigliere della Provincia di Lecco e – “la cosa a cui tengo di più” – segretario della sezione di Calolziocorte (provincia di Bergamo, finché non nacque quella di Lecco).
E dunque, capita anche a loro di dover discutere di crocifisso,
“però qualcuno di voi sa che la Lecco-Bergamo è la strada più
trafficata e lenta d’Italia?”.
Tasse, infrastrutture, l’azienda, la concorrenza, i viluppi della burocrazia, l’insofferenza per tutto ciò che è romano (e dunque centralista): non è che i leghisti “del territorio” – la base
– si siano discostati molto dai temi storici del partito, anche in tempi di dispute attorno alla fecondazione assistita e al semestre
europeo.
E mentre Umberto Bossi e la pattuglia parlamentare si cimentano nelle arti tattiche e compromissorie del Palazzo, i soldatini
restano al loro posto.
“Restiamo qui, facciamo il nostro lavoro, la nostra politica, e speriamo, siamo lì con le speranze”, dice Sergio Rossi.
“Il 2004 sarà per noi la prova d’appello”. La Lega (insieme con
Alleanza nazionale) è l’unico partito della maggioranza
di governo ad avere un base vera, popolare, spesso rozza ma attenta, con un suo fervore che in qualche modo limita o
indirizza le scelte dei leader.
Per avere una mezza idea, basta entrare nel forum politica-online della Padania. Un navigatore apre un tema di discussione sulla grazia ad Adriano Sofri, ottiene trentotto visite e una risposta. Un secondo navigatore apre un tema di discussione su “Solidarietà a Stefano Galli – No alla galera di stato fascista”. Le visite sono mille e ottocentotrentatré, le risposte centodieci. Stefano Galli è un consigliere comunale di Lecco condannato a dieci mesi per vilipendio alla bandiera.
Gian Maria Flocchini, trentanove anni, è un consigliere regionale, attivista dal 1988, un specie di istituzione leghista in Val Sabbia, provincia di Brescia, dove è stato a lungo assessore nel Comune di Idro. Il giorno dell’Epifania sta andando a Brescia, dove seguirà la partita dalla curva. “Per noi la scelta di sposare questa alleanza, di candidarci al governo con partiti con i quali abbiamo poco in comune, è stata sicuramente difficile da digerire. E dopo due anni e mezzo di governo, di cose sullo stomaco ne abbiamo ancora di più”, dice Flocchini. E continua: “I nostri parlamentari vengono alle nostre feste, non è che non si facciano vedere. Noi glielo diciamo che non c’entriamo niente con Previti, con le leggi ad personam, con tutte le liti sulla tivù. Ci dicono di avere pazienza, che se vogliamo portare a casa qualcosa, qualcosa dobbiamo concedere. Certo, il tempo sta passando.
Credo che il 2004 sarà per noi la prova d’appello.
Andare oltre non sarà possibile”. Quando, lo scorso ottobre, Gianfranco Fini propose di concedere il diritto di voto alle amministrative per gli immigrati, il popolo del Nord la prese come ci si può immaginare. “E’ un voltafaccia”, “Fini è peggio dei democristiani”, “I nostri non hanno la casa e il lavoro, e vogliono pensare a quelli lì”. Bossi fece subito l’occhiolino ai suoi col già celebre “bingo bongo”. Flocchini ripete mille volte di capire: “Io capisco che la politica impone rinunce, e impone di piegare spesso la testa”. Dice di capire soprattutto “da consigliere regionale”. Poi, però, ammette che da attivista capisce meno, perché dice di essere “legato alla vecchia Lega, quella della battaglia di piazza, io amo quella Lega. Capisco che la lotta non è conclusa, che si è spostata, anche soltanto momentaneamente, ma un po’ di nostalgia c’è”. Flocchini dice di far fatica a capire “le ore spese a discutere di indulto, indultino, indultino bis e tris. E faccio fatica a spiegarlo ai miei. Ma certo che a Roma si perde un gran tempo in chiacchiere. E lo diciamo ai nostri parlamentari. Ma sappiamo che loro fanno tutto questo, e noi sopportiamo tutto questo, per la devolution. Ce la aspettavamo prima, non ci immaginavamo tutte queste enormi difficoltà. Ma la aspettiamo ancora per un pochino”. C’è impazienza, c’è un po’ di delusione, anche un po’ di
Nella pagina delle lettere della Padania, il quotidiano, i lettori se la prendono col ministro dell’Agricoltura, Gianni Alemanno, per le quote latte (“la Padania non è una mucca da mungere”); col ministro delle Telecomunicazioni, Maurizio Gasparri, per
“l’invasione della pubblicità televisiva”; sono al fianco dei tranvieri che “lottano per difendere il potere d’acquisto dei salari”; molti se la prendono con Berlusconi perché “è uguale a Fini”, e altri con Fini perché è “uguale a Berlusconi”, e cioè “statalisti”, e mantengono l’Ici che è “una tassa ingiusta”, e le aziende artigiane “del Cadore continuano a morire”.
La Padania diretta da Gigi Moncalvo lascia spazio ai tanti nervosismi dei lettori. Non esita a dire che va tutto a catafascio e che il governo non funziona, malgrado il gran lavoro di Bossi e degli altri. Sembra seguire proprio uno dei motti di Bossi: “Per i nostri, noi siamo come emissari in missione in terre lontane e ostili”. Quello che succede a Roma è roba di Roma. Tutto quello che si guadagna è guadagnato. Se le cose non vanno bene, è soltanto colpa del nemico momentaneamente alleato. “Continuiamo a restare insieme a Previti, che si fa i comodi suoi malgrado abbia preso sedici anni di galera. Conviene rimanere lì per limitare i danni o viste le cose è meglio lasciare? Sempre e solo questo è il dilemma…”, scrive nel forum uno che si firma “Pensiero”.
Conta il federalismo e solo il federalismo
Daniele Belotti, trentaquattro anni, bergamasco, come il suo amico
Flocchini è consigliere regionale e tifoso da curva, sebbene
dell’Atalanta. In città è conosciuto soprattutto di spalle, la posizione che ha occupato per ore nell’attività di attacchinaggio. Come gli altri ripete che conta il federalismo e soltanto il federalismo, a qualunque prezzo. “Io non voglio buttare via tutti gli anni di lavoro, i pomeriggi trascorsi dietro ai banchetti, per
strada, a meno sei gradi, sotto la pioggia, sotto la neve.
I fine settimana a lavorare diciotto ore di fila per organizzare una manifestazione.
I fine settimana a lavorare per le marce sul Po e
tutte quelle robe lì. Ci prendevano per i fondelli, con la storia della secessione, però adesso il federalismo è un’idea accettata da tutti, e forse è davvero in arrivo. Io lo dico agli amici, che le rivoluzioni danno i loro frutti nel tempo, negli anni, col sudore, con la battaglia quotidiana. Le rivoluzioni che danno i frutti domani mattina, sono quelle in cui si spara in testa alla gente. Certo che quando guardiamo i telegiornali, le cose del Parlamento, i discorsi, certe operazione, certe dichiarazioni, sentiamo che non è roba nostra. Ma noi siamo lì per un obiettivo, e dobbiamo raggiungerlo”.
Ma spiega che il primo a saperlo è Bossi: “Lui poi viene, dopo i comizi si ferma a parlare con la gente, per delle ore, sa tutto. Mica non conosce la sua gente e le sue necessità”. Sergio Rossi, finito col camion, dice la sua: “Noi siamo lì al governo da tanto tempo e per il Nord i risultati sono stati scarsi. Questo è il problema delle alleanze, c’è poco da fare, se non andare avanti finché è possibile. Ma nessuno di noi pensa che i nostri parlamentari siano diventati tutti democristiani che discutono sulle stupidate e gli arzigogoli. Loro sanno perfettamente che qui i problemi sono altri, le aziende che soffrono, la politica delle tassazioni che deve cambiare.
Io non me ne intendo, ma qualcosa tipo le gabbie salariali, qualcosa del genere, bisogna fare. L’importante è sentirsi ascoltati, e noi siamo ascoltati. Poi se ci bloccano di nuovo il federalismo e Bossi decide di lasciare il governo, niente in contrario, figuriamoci se mi dispiace, io sono un secessionista”. Gian Maria Flocchini è quasi arrivato a Brescia. Strada facendo, s’è un po’ lasciato andare. Dice che la Lega resta la Lega, con le “sue solite battaglie, che sono le battaglie della nostra vita. L’identità territoriale, la difesa della cultura, la precedenza nell’assegnazione delle case, le risorse che devono rimanere sul territorio, l’equità nelle tasse, io resto fedele al motto ‘padroni a casa nostra’.
Le altre battaglie, quelle combattute a Roma, sono altre, sono diverse, servono per quelle tattiche lì. Sono anche importanti, per carità, ma sono altre battaglie. Semmai c’è paura che portino via troppe energie.
Poi, però, Bossi torna qui, noi gli spieghiamo perché i Cobas del latte hanno ragione da vendere, e Bossi scende in strada coi Cobas.
Bossi poi ritorna sempre a essere Bossi”.
Anzi, “Bossi è sempre Bossi”, specifica Belotti.
Così, se qua e là qualcuno se la prende per i “disastri della Lega romana”, in combutta con “la masnada di briganti di Alleanza nazionale” sul “voto agli immigrati” e la difesa degli “allevatori di cozze” (il navigatore Wotan, nel forum), oppure per “i vari condoni edilizi per gli abusivisti meridionali” (Asburgico, anch’egli nel forum) i più si sentono comunque a un bivio eccitante: o il federalismo, che cambierà la vita al Nord, oppure l’uscita dal governo, che riporterà la gente leghista in piazza, “ma stavolta mica si scherza, stavolta lotta vera e voce grossa” (ancora Flocchini). Allora ci si divertirà; “guerra civile”, come scrive Western in Internet.
E pazienza per “questa finanziaria che condona gli abusi e aumenta le tasse sulla birra” (Quorthon, forum).
saluti