In memoria di un maestro
Toni Negri
E' strano poterlo osservare solo quando si parla di Maestri morti: c'è un periodo felice della loro vita, un periodo nel quale sono stati davvero maestri - e questo periodo non si confonde né con i prodromi né con i posteri che di volta in volta vengono ricoperti della gloria di quel momento felice per mostrare illusoriamente come ci si poteva arrivare o per indicare quanto esso sia continuato. Per Bobbio, poi, capita una cosa strana: di lui si parla come di un resistente e di un padre fondatore della Repubblica oppure come del filosofo che, a partire dagli anni `70, cercò di orientare il pensiero politico italiano verso una Seconda Repubblica. Certo, quando la Seconda Repubblica arrivò era tutto tranne quello che Bobbio aveva voluto ma questo, se tolse forse al politico il buon umore non tolse al filosofo la capacità critica. Quanto poi alla partecipazione di Bobbio alla Resistenza, essa gli comportò un breve periodo di carcere a Verona, ma è soprattutto nella sua testa che alcune risonanze del passato e della filosofia giuridica tedesca dalle quali era influenzato andarono in tilt. In questo caso fu il politico a rallegrarsi davanti alla tristezza del filosofo. Ma andiamo al momento felice del pensiero di Bobbio. Esso non si rappresentò dunque né nella Resistenza né nella fase successiva al `68. Bobbio fu un vero maestro negli anni `50 e `60. Filosofo curioso: attraversò la contemporaneità filosofica dalla Germania agli Usa, dalla fenomenologia all'esistenzialismo fino al positivismo logico e al tornante linguistico. Giurista sopraffino: i suoi corsi sull'interpretazione giuridica e sull'ordinamento giuridico restano pietre miliari nella dogmatica del positivismo giuridico occidentale. E soprattutto uomo politico attentissimo: visse nella Torino fordista un grande ruolo di mediazione tra il potere degli Agnelli sulla società torinese e la resistenza istituzionale del Partito comunista. Quello di Bobbio fu, in questa occasione, un grande keynesismo intellettuale. Il suo scambio di lettere con Palmiro Togliatti è da questo punto di vista un ottimo esempio di compromesso storico, una formula largamente vagheggiata dall'intellettualità riformista italiana a partire dal Risorgimento e ora finalmente, in quella temperie, resa attuale. Perché Torino fu davvero la capitale d'Italia tra gli anni `50 e `60. Non lo era stata se non come regia di un Re conquistatore precedentemente dopo Carlo Alberto e gli altri tristi sovrani. Ma poi Torino non divenne capitale del regno se non con la Prima Repubblica: Fiat, Einaudi, Camera del lavoro, ecco i tre poli di un potere ripartito nel capitalismo maturo. Bobbio è un'istituzione di questa realtà, divenne il filosofo ufficiale di questo progetto, e fu ognuna di queste cose in maniera estremamente onesta, sincera e intelligente. Il catalogo Einaudi per quanto riguarda le scienze giuridiche e filosofiche ne dà un esempio lucente. Inoltre egli fu il motore del reinserimento delle discipline sociologiche nella cultura italiana: anche la sua simpatia per i Quaderni Rossi si pone in questo quadro.
Quella Torino finì nel `68. Dopo l'occupazione di Palazzo Campana, a molti docenti vennero disturbi psichici: Bobbio non fu tra questi. Dopo l'autunno caldo del `69 tutti gli uomini delle istituzioni torinesi subirono disturbi somatici. Il grande rimosso di Torino capitale d'Italia, l'insubordinazione dell'operaio massa, era apparso. Il pensiero tradizionale, fosse pure quello dei Maestri, non riusciva più a controllare quel nuovo evento. Sul nuovo diritto del lavoro Bobbio scrive pochissime cose; è quella una figura del diritto che sconvolge gli schemi del positivismo giuridico ed egli non sa come collocarla; sul marxismo può dire cose corrette (sulla teoria dello Stato sovietico in particolare) ma sul nuovo marxismo che gli operai e gli studenti di Torino avevano sviluppato nella pratica, non sa dir nulla se non esprimendo scetticismo e talora qualche simpatica incertezza. Ma quando, negli «anni di piombo», la bella illusione del riformismo ideologico salta definitivamente a Torino come in tutto il resto delle città industriali e operaie italiane, la voce di Norberto Bobbio è paurosamente assente. Non segue l'oltranzismo degli amici Valiani e Galante Garrone, non si copre del disonore dei suoi coetanei nel sollecitare leggi repressive fuori dallo Stato di diritto o premiali per l'infamia giuriziaria. Tace tuttavia, né il suo punto di vista è in alcun modo equivocabile: sta a favore del «mondo occidentale». Il bizzarro è, in questa situazione, che Bobbio non pervenga a capire che la fine di quel mondo torinese abbia anche rappresentato la fine della Prima Repubblica, del suo sistema di rappresentanza, di quella forma ingenua eppure relativamente costituente di democrazia che tutti avevamo creduto di poter vivere dopo la Resistenza. Che non si sia accorto della mutazione di concetti stessi sui quali egli aveva lavorato con grande efficacia e volontà di affermazione politica: sul concetto di filosofia analitica per esempio, divenuto sempre di più strumento di neutralizzazione filosofica e del pensiero in generale; sui concetti di positivismo, di formalismo, di scienza giuridica divenuti sempre di più strumenti, non tanto dello Stato di diritto quanto di una nuova funzione di controllo.
La sparizione di Bobbio, nel Paese dominato da Berlusconi e dalla cultura Mediaset, creerà grande nostalgia intellettuale, morale e politica. Anche a noi, anche quando Bobbio sia considerato (e lo fu davvero) un avversario. Tuttavia il suo carattere (se mai davvero conobbe il dubbio) si manifestò sempre nell'insofferenza per l'ignoranza e la volgarità. Obbligò anche gli avversari a confrontarsi con la grande cultura. Fu un intellettuale europeo in quel periodo fordista e keynesiano nel quale l'intelligenza europea visse due volte, operaia e capitalista, comunista e liberale - senza mai dimenticare che egli fu, senza rimorsi, capitalista e liberale.
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