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    Predefinito Intervento di Fini all'Assemblea Nazionale

    L'INTERVENTO DI GIANFRANCO FINI

    Roma, 10 gennaio - La relazione integrale del presidente di An Gianfranco Fini nell'intervento di questa mattina all'Hotel Ergife.



    L’odierna riunione dell’Assemblea Nazionale rappresenta il primo appuntamento politico importante del 2004. E’ un momento di rilievo non solo per il Partito ma per tutta la politica nazionale. Alle nostre valutazioni e alle decisioni che ne scaturiranno guardano con attenzione le altre forze politiche, a partire ovviamente dagli amici che con noi compongono la maggioranza che sostiene il Governo Berlusconi.
    E’ una premessa incontestabile quanto doverosa. Nessuno tra voi ha bisogno di essere richiamato al senso di responsabilità, ma tutti insieme –a partire da me e dal gruppo dirigente- dobbiamo mostrare di essere all’altezza del compito.
    Oggi non siamo chiamati a discutere soprattutto di noi stessi, del nostro passato e della nostra attuale identità.
    Abbiamo un ordine del giorno assai più oneroso: indicare a tutta la società italiana le linee che la Destra intende porre al centro dell’azione del Governo nella seconda parte della legislatura, da oggi fino alle elezioni generali del 2006.
    Dopo due anni e mezzo di governo è giusto fare il bilancio di quel che si è fatto e verificare con gli alleati cosa si intende fare.
    Non è un rituale da prima repubblica, ma una necessità inevitabile alla luce dello scenario economico interno ed internazionale in cui siamo chiamati ad operare ed anche alla luce dei meriti che abbiamo conseguito e degli errori che con onestà dobbiamo ammettere di aver commesso.
    Abbiamo alle spalle trenta mesi di governo largamente positivi, per l’Italia innanzitutto ma anche per AN che si è saputa affermare anche sul piano internazionale, come forza responsabile, portatrice di una cultura autenticamente democratica basata su solidi valori ideali di riferimento e su un preciso progetto di modernizzazione della società.
    Ad ognuno di voi sarà capitato, incontrando i rappresentanti delle categorie produttive, dei sindacati, delle associazioni di volontariato, delle professioni, di sentirsi dire che gli esponenti di AN al Governo sono all’altezza del ruolo che rivestono. La loro professionalità e serietà è oggi largamente apprezzata, in alcuni casi anche dagli avversari politici.
    Sono davvero lontani anni luce i tempi in cui l’anomalia italiana era indicata nella natura ambigua e potenzialmente pericolosa della Destra politica.
    La nostra piena legittimazione interna ed internazionale è un successo che credo sia giusto dedicare a Pinuccio Tatarella, cui giusto 10 anni fa un ministro belga si rifiutò di stringere la mano facendoci brutalmente capire che non basta vincere le elezioni e andare al governo per avere credibilità e rispetto ….
    La coscienza di aver bene operato ci deve far respingere con forza un atteggiamento pessimistico che davvero non ha senso se si ricorda cosa erano i governi Prodi e D’Alema e se solo si immagina cosa avrebbe fatto il centro sinistra nella congiuntura internazionale ed interna del dopo 11 settembre.
    Se nel 2001 Rutelli avesse vinto le elezioni l’Italia non avrebbe avuto alcuna maggioranza capace di garantire una seria politica internazionale in sintonia con la nostra tradizionale collocazione atlantica ed occidentale.
    Viviamo tempi in cui la pace e la sicurezza dei popoli, minacciate globalmente dal terrorismo e dal fanatismo integralista, non si difendono coi girotondi e le bandierine arcobaleno, ma con coraggiose assunzioni di responsabilità sul piano internazionale.
    Con il centrosinistra al governo l’Italia avrebbe moltiplicato per mille la pessima figura che fece dinanzi al mondo intero durante la guerra nei Balcani.
    Ne avremo la riprova fra pochi giorni quando in parlamento il centrosinistra si dividerà ancora una volta sulla necessità di confermare la presenza delle nostre forze armate in Iraq per garantire la rinascita di quel popolo dopo la caduta di Saddam.
    I tragici avvenimenti di Nassirya, per i quali esprimiamo ancora una volta commossa solidarietà alle famiglie dei Caduti e forte plauso per l’abnegazione dei nostri militari, hanno dimostrato che c’è un’Italia profonda che è orgogliosa dei suoi eroi moderni, che si commuove per il loro sacrificio, che si stringe non solo idealmente attorno alla bandiera tricolore e al Capo dello Stato.
    Non sarebbe giusto definire questa Italia, largamente maggioritaria soprattutto tra le giovani generazioni, l’Italia della Destra. Certo non è l’Italia immaginata dal centrosinistra, ne è anzi l’antitesi più evidente e clamorosa.
    C’è un’altra ragione per la quale , guardando al bilancio di questi trenta mesi di governo possiamo essere soddisfatti. Anche l’Italia ha attraversato la più grave congiuntura economica degli ultimi 20 anni. Lo scenario internazionale negativo ha determinato in tutto l’occidente fenomeni di stagnazione e in alcuni casi di autentica recessione.
    Non possiamo dimenticare due dati di fatto: che il programma con cui vincemmo le elezioni del 2001 era stato pensato partendo da una previsione di crescita economica del tutto diversa e soprattutto che il nostro governo ha saputo attraversare la crisi limitando i danni e creando le condizioni per sfruttare appieno la ripresa non appena essa si manifesterà.
    E’ un concetto importante perché fa giustizia dell’accusa più frequente ed insidiosa mossaci dalla opposizione: “col centrodestra al governo l’Italia è in declino, meno competitiva”.
    Non è così. Il calo di competitività non è la dimostrazione del presunto declino nazionale bensì un elemento strutturale che riguarda tutta l’economia europea e risente della concorrenza senza regole esercitata nel mercato globale da giganti quali la Cina e l’India.
    Con l’aggravante che in Italia mali antichi che abbiamo ereditato e non certo creato –un enorme debito pubblico, il divario nord sud, la fragilità delle reti infrastrutturali, la scarsa propensione alla ricerca scientifica,il nanismo delle nostre imprese complicano ancor più la situazione rispetto agli altri paesi europei.
    Quello che può apparire superficialmente l’elemento più incisivo delle critiche del centrosinistra –“avete fatto tre manovre finanziarie all’insegna della cosiddetta finanza creativa, con voi l’Italia sta a galla a fatica”- è nella realtà l’elemento più debole della polemica dei nostri avversari.
    Perché è vero che quella approvata pochi giorni fa è la terza legge finanziaria che fa ricorso anche ai condoni, alle cartolarizzazioni, al taglio dei trasferimenti di risorse alle autonomie locali, al blocco parziale delle assunzioni nel pubblico impiego alle dismissioni. Ma è anche vero che è la terza legge finanziaria che, caso quasi unico in Europa, tiene sotto controllo la spesa pubblica, riduce lo stock del debito e non aumenta la pressione fiscale.
    Credo che gli italiani, se ci pensano, non abbiano dubbi nel preferire la cosiddetta finanza creativa del centrodestra a quella abitudinaria e repressiva del centrosinistra che sapeva solo aumentare le tasse e che anche per entrare nell’Euro introdusse una tassa ad hoc!
    In Europa l’Italia del centrodestra è passata in questi tre anni dal ruolo di imputato per la sua cronica instabilità politica e per i conti pubblici perennemente in disordine a quello di esempio da seguire (parole del tedesco Tietmeier) per la capacità, pur nella difficilissima congiuntura internazionale di ridurre il debito pubblico, di non superare la soglia del 3% nel rapporto deficit/pil, di non incrementare la pressione fiscale complessiva e anzi di ridurla seppur di pochi decimali.
    In altre parole si potrebbe dire che se davvero l’Italia è rimasta a galla in questi tre anni si tratta di un successo e non di uno smacco. Basta pensare alla attuale e grave situazione francese e tedesca e confrontarla con lo scenario del 2001.
    Oppure basta pensare all’evidente imbarazzo con cui i catastrofisti in servizio permanente effettivo del centrosinistra hanno commentato l’esito della riunione Ecofin di dicembre e i ringraziamenti che Chirach e Schroeder hanno riservato a Berlusconi per la comprensione che l’Italia ha mostrato di fronte alla situazione dei conti pubblici delle due potenze continentali.
    Anche il nostro semestre europeo di presidenza è stato largamente positivo, nonostante la mancata ratifica della Costituzione europea.
    L’obiettivo non è sfumato, è solo rimandato di qualche mese.
    L’equilibrio che l’Italia ha mostrato, la sua capacità di comprendere le ansie dei dieci nuovi paesi, la sua decisione nel rifiutare direttori o doppie velocità che avrebbero diviso l’Europa, la sua convinzione della necessità di un continente unito nella diversità, libero da veti nazionalistici, protagonista nella politica estera e militare, attento ai valori di equità sociale, sono tutte garanzie del fatto che nel processo di riunificazione europea Roma continuerà a svolgere un ruolo centrale, come è stato per oltre 50 anni.
    E, per la prima volta nella storia, un peso importante lo ha avuto e lo ha, e non solo per la mia presenza nella convenzione, la destra politica italiana.
    La polemiche di Prodi su questo versante sono davvero fuori luogo, soprattutto se si ricorda che vengono da un presidente dalla commissione che ha da tempo deciso di rituffarsi nella politica nazionale e che, come osservato da tutti in Europa, ha più volte strumentalmente utilizzato il suo incarico per polemizzare con Berlusconi per fini interni e non certo per difendere le istituzioni di Bruxelles.
    Se l’Europa ha avuto nel 2003 dei problemi provenienti dall’Italia è proprio a Prodi che si deve pensare non al nostro Governo. L’ultimo clamoroso esempio è giunto dalle comunità ebraiche a proposito dell’ambiguità di certi documenti comunitari in materia di antisemitismo.
    Se si vuole tracciare un bilancio veritiero dell’operato del Governo nella prima parte della legislatura, non possiamo inoltre dimenticare che era dal 1992 che il numero dei nostri disoccupati non scendeva così in basso.
    Non si tratta di precariato di massa, ma dei primi frutti della riforma del mercato del lavoro. Una riforma strutturale, giudicata per anni prioritaria ed oggi finalmente reale con la cosiddetta riforma Biagi.
    Al raggiungimento dell’obiettivo di incrementare il numero degli occupati ha certamente contribuito anche la regolarizzazione di oltre 700 mila lavoratori stranieri.
    Sul tema della immigrazione il nostro governo ha davvero segnato una netta , positiva inversione di rotta rispetto al passato.
    La nuova legge (la cosiddetta Bossi Fini) rappresenta la prova che legalità e solidarietà sono davvero due facce della stessa medaglia. L’immigrazione è una necessità e una risorsa specie per una società come la nostra che invecchia rapidamente. Ma è una opportunità che deve essere regolata da leggi che favoriscono l’integrazione sociale e contestualmente reprimono lo sfruttamento e la clandestinità.
    La legge sull’immigrazione ha dei precisi ancoraggi culturali che fanno chiaramente capire cosa significa la destra al governo.
    Su piani diversi, ma non meno importanti, lo stesso può dirsi per la riforma Moratti, la prima riforma organica e globale della scuola dai tempi di Gentile!
    E’ una riforma che reintroduce criteri di selezione meritocratica, indica nella educazione, nella istruzione ma anche nella formazione professionale i compiti primari della scuola e riafferma la parità tra scuola statale e non statale in quanto scuola come servizio pubblico, cioè servizio reso alla società nella sua interezza.
    Né si può dimenticare; per capire quale è la portata profondamente riformatrice del centrodestra e il peso rilevante che hanno i valori culturali della destra, che il 2004 sarà l’anno della discussione in parlamento della legge, già approvata dal Consiglio dei Ministri, che riordina le norme per la lotta alla droga.
    La polemica furibonda già scatenata dall’opposizione e da tutto il variopinto fronte del relativismo morale dimostra che abbiamo colpito nel segno, forti del sostegno della larghissima maggioranza della pubblica opinione. Una maggioranza che, se sarà necessario, inviteremo a non rimanere silenziosa. Perché non può esistere la libertà di drogarsi, perché è giusto prevenire l’uso delle sostanze stupefacenti, perché è doveroso recuperare i tossico dipendenti, perché è sacrosanto reprimere la produzione e lo spaccio delle droghe.
    Immigrazione, scuola, droga sono tre grandi questioni su cui l’azione del governo è stata efficace e su cui i valori di AN si sono tradotti in precisi provvedimenti legislativi.
    Essi hanno contribuito a definire nei fatti la nostra identità culturale e politica. Ci hanno posti al centro del dibattito, attirandoci consensi e critiche quasi in egual misura ma sempre ponendoci nel ruolo dei protagonisti, costringendo gli avversari e a volte anche gli alleati a confrontarsi con le nostre idee e le nostre proposte.
    Ne abbiamo avuto una prova clamorosa nel caso della proposta di concedere il voto amministrativo per gli stranieri in regola con la legge e con precisi requisiti.
    E’ vero che non si tratta di una proposta su cui sarà possibile richiamare la solidarietà della maggioranza per la forte ostilità della Lega.
    Ciò non può tuttavia significare rinunciare da parte nostra a sostenerla convintamente, nel parlamento e nel paese.
    Non è una sfida , ma la serena consapevolezza che si tratta di una proposta giusta, di grande civiltà e che contribuisce in modo determinante a far capire quale è la vera identità della destra italiana, la sua profonda differenza dalle altre destre europee.
    E una proposta che fa capire quanto sia vero che A.N. è custode della memoria della nostra storia nazionale, dei suoi valori e delle sue sofferenze. Una memoria condivisa, da tutti gli italiani e per tutti gli italiani.
    Non ha senso ricordare la tragedia dei minatori abruzzesi di Marcinelles, commuoversi di fronte alle fotografie dei bambini napoletani ritratti nel museo di Ellys Island, pensare alle sofferenze dei siciliani stipati negli anni cinquanta nelle baracche di Stoccarda, rivendicare con orgoglio la storica, vincente battaglia per il riconoscimento dei diritti dell’altra Italia, culminata nella conquista dell’elettorato attivo e passivo e poi … non essere coerenti. Non tendere la mano a chi oggi è emigrato in Italia per lavorare onestamente. Come noi italiani, con la valigia di cartone, eravamo costretti a fare fino a pochi decenni fa.
    Fino a cinquanta anni fa i bingo-bongo eravamo noi italiani e non è un caso che non lo comprenda chi nega valore alla storia nazionale, chi non sente l’Italia come la propria Patria.
    Non credo che il partito, per quel che scrivemmo a Fiuggi ed anche per il sol fatto di chiamarsi Alleanza Nazionale, possa permettersi il lusso di non avere memoria storica, di non voler creare i presupposti per una memoria condivisa da tutti gli Italiani, finalmente libera dagli odi e dalle ideologie del Novecento.
    Fuoriuscire da un dopoguerra durato quaranta anni è un processo difficile, che può essere doloroso. L’Italia contemporanea ci sta riuscendo e dobbiamo essere lieti del fatto che la Destra politica stia facendo fino in fondo la sua parte, senza reticenze.
    Ringrazio il Presidente del Senato Marcello Pera per averlo detto con chiarezza e coraggio politico: “dopo il crollo del comunismo e dopo il viaggio di Fini in Israele e le sue parole non ha più senso definire la Repubblica come antifascista, definiamola per quello che veramente è. Democratica.”.
    Non è la prima volta che questo concetto viene espresso. Noi stessi a Fiuggi sostenemmo che mentre tutti i democratici erano antifascisti, non tutti gli antifascisti erano democratici. Ma è la prima volta che simili parole sono pronunciate dalla seconda carica della Repubblica italiana.
    Ciò avvicina il traguardo di una memoria condivisa, di una scrittura intellettualmente onesta della storia, non più immemore delle atrocità subite dai vinti, documentate oggi con grande successo da Pansa e ieri nel totale silenzio da Pisanò. Non più irrispettosa delle scelte, compiute unicamente nel nome dell’onore dell’Italia, dai giovani volontari del 1943 come Tremaglia. Finalmente cosciente della odissea delle centinaia di migliaia di giuliano-dalmati perseguitati e infoibati solo perché italiani.
    Siamo ad un passo dalla fine della “damnatio memoriae”. Dal momento storico di una autentica pacificazione nazionale, da sempre perseguita dalla Destra politica fin dall’atto di nascita del Movimento Sociale.
    Capisco l’ostilità dei nostalgici della guerra civile, di quanti elevarono l’antifascismo a religione laica per legittimare il loro stalinismo e per decenni hanno speculato politicamente su questa mistificazione.
    Essi difendono una rendita di posizione, sanno di non avere futuro fuori dalla stantia contrapposizione fascismo/antifascismo.
    Ma noi? Perché dovremmo fare il loro gioco? Lasciamoli al passato cui appartengono.
    Noi occupiamoci del presente e, se ne siamo capaci, del futuro che possiamo costruire. Del domani che ci appartiene come amavamo dire da ragazzi, nei terribili anni settanta. Anni di piombo in cui non c’era “la meglio gioventù” come sembra far credere un irresponsabile revival nostalgico incredibilmente in voga.
    Chi ha vissuto quegli anni non li dimentica. Ne onora le vittime perché sa a quali tragedie portarono le ideologie dei cattivi maestri. Chi ha pianto i propri amici assassinati nel silenzio dei più perché “uccidere un fascista non era reato” sa perfettamente di avere un preciso dovere morale cui adempiere. Fare in modo che la storia non si ripeta mai più. Insegnare ai più giovani che in politica non c’è un nemico da uccidere, ma un avversario da rispettare.
    Bandire ogni estremismo, condannare senza ambiguità ogni ideologia antidemocratica, combattere ogni discriminazione xenofoba o razzista è un dovere primario sul quale tutta Alleanza Nazionale raggiunge una unità di intenti piena e autentica, che nessuna polemica contingente può scalfire.
    E’ l’unità sostanziale della nostra comunità umana e politica, della nostra gente. Questa unità profonda di sentimenti e di valori non è minacciata e sono certo che dalla Assemblea Nazionale uscirà rinsaldata, al di là degli aspetti formali, del grado di condivisione della mia relazione.
    Ne sono certo perché la voglia di Destra c’è in tutti noi, perché tutti noi sappiamo che è proprio dei valori di Alleanza Nazionale che ha bisogno la società italiana e sta a noi e solo a noi tradurli in azione politica.
    Il Partito è oggi nella condizione di fare un salto in avanti, di essere maggiormente apprezzato per la qualità della sua politica.
    Il nostro consenso elettorale può crescere, fin dalle elezioni di primavera.
    Il coordinatore nazionale Ignazio La Russa sta svolgendo un ottimo lavoro di riorganizzazione, di presenza sul territorio, di mobilitazione delle strutture centrali e periferiche. A breve si terrà dopo anni il Congresso nazionale della nostra organizzazione giovanile e sarà anch’esso un ulteriore momento di rilancio del Partito.
    Ringrazio La Russa e con lui tutti i dirigenti di vertice per aver compreso, nei fatti e senza finzioni, che il dibattito di idee è vitale, che le diverse sensibilità arricchiscono, ma che il correntismo è una degenerazione tipica della peggior partitocrazia, un vizio che può essere fatale. Specie in periferia, dove deve essere ben chiaro a tutti che vince o perde tutto il Partito, non questa o quella corrente interna.
    Ci attendono prove impegnative e il mio ottimismo deriva dal fatto che tutti i dirigenti che hanno alte responsabilità anche di Governo ne sono consapevoli e lo dimostreranno, se necessario, anche impegnandosi in prima persona, dando per primi l’esempio.
    L’ipotesi di liste per le elezioni europee con tutti gli esponenti del buon governo della Destra, a livello nazionale e regionale, candidati per garantire un grande successo di A.N., è ipotesi tutt’altro che peregrina. Ovviamente ne dovremo riparlare quando sarà più chiaro lo scenario politico, la sorte della lista unica margherita/ds, l’esito della verifica politica che oggi abbiamo nella Casa della lIbertà. Ma fin d’ora voglio mettere in chiaro che non siamo e non dobbiamo sentirci sulla difensiva, anzi al contrario dovremmo vivre i prossimi mesi con grande attivismo e determinazione.
    Non siamo presuntuosi ma solo coscienti di aver già fatto molto e di poter fare ancora di più. Per Alleanza Nazionale e per l’intera coalizione, per quella Casa delle Libertà che consideriamo un valore da tutelare e da rafforzare.
    La CdL rappresenta l’unica seria ipotesi di governo alternativa alle sinistre. Non esistono altre formule. Il bipolarismo faticosamente raggiunto anche per le nostre scelte a favore del maggioritario, è un bene troppo prezioso per essere sacrificato sull’altare delle identità di partito fini a se stesse.
    Non c’è incompatibilità tra forte identità di partito e forte spirito di coalizione. Specie quando, come nel caso del centro-destra, c’è un programma comune e un leader riconosciuto che ne è il garante.
    La logica del trasformismo e dei ribaltoni non ci è mai appartenuta. Non è nel nostro DNA l’atteggiamento intimidatorio di chi pretende di imporre le proprie opinioni. Ma nemmeno ci appartiene l’atteggiamento subordinato di chi rinuncia a priori a far valere le proprie ragioni.
    E’ con questo spirito di assoluta trasparenza e lealtà che intendiamo porre a Silvio Berlusconi, che è e resta il leader naturale ed insostituibile della Casa delle Libertà, alcune questioni di metodo e di merito per affrontare nel modo migliore la seconda parte della legislatura.
    Il nostro obiettivo è semplice e dichiarato. Porre le condizioni perché il centro-destra vinca le elezioni politiche del 2006. Vogliamo, con un decennio di buon governo, trasformare in profondità la società italiana, liberarla definitivamente dai cascami ideologici e dalle utopie fallimentari delle sinistre.
    Il livore, l’astio, la faziosità e a volte finanche la patente malafede con cui il centro-sinistra svolge il suo ruolo di opposizione, sempre e solo distruttiva, devono far riflettere sul pesante clima di restaurazione e di revanscismo politico che si determinerebbe in Italia se il centro-sinistra dovesse tornare al governo.
    Da una coalizione che non teme nemmeno di sprofondare nel ridicolo quando denuncia l’instaurazione di un regime che esiste solo nella sua fantasia, c’è davvero da aspettarsi di tutto.
    Lo ricordo per mettere in evidenza come qualsiasi comportamento della Casa delle Libertà, di qui al 2006, che dovesse avvantaggiare il centro-sinistra non avrebbe solo la conseguenza di deludere chi nel 2001 ci diede fiducia, ma finirebbe per compromettere l’avvenire stesso dell’Italia. In altre parole, non ci possiamo permettere di sbagliare, dobbiamo far tesoro dell’esperienza maturata, non possiamo fornire alibi o pretesti ai nostri avversari.
    Le questioni che intendiamo porre al centro della verifica politica sono, come detto , di duplice natura. Il carattere della coalizione e la sua azione in quattro campi di primaria rilevanza: le riforme costituzionali, la giustizia, il sistema dell’informazione radio televisiva la condizione economica e sociale del paese.
    Il carattere della coalizione, cioè il suo tratto distintivo, deve necessariamente essere quello di una grande alleanza riformatrice che persegue il suo obiettivo di profondo cambiamento dell’Italia senza alimentare scontri istituzionali, senza inutili estremismi verbali, rifuggendo dalla logica nefasta del muro contro muro e della contrapposizione fine a se stessa.
    Noi lo possiamo dire in assoluta serenità perché nessuno ci potrà mai accusare di nostalgie consociative.
    Governare e fare le riforme non significa cercare la resa dei conti con avversari veri o presunti, siano essi i sindacati (come è stato nel caso della sciagurata battaglia per la riforma poi abortita dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori), siano altri organismi costituzionali, come a volte è sembrato essere nei confronti della magistratura e di Banca d’Italia.
    Non si governa mostrando i muscoli ma usando il cervello.
    Berlusconi ha perfettamente ragione quando ricorda che gli elettori moderati, cioè di centro destra, non gradiscono le differenziazioni marcate e men che meno le risse tra le forze della casa delle libertà.
    Ma lo invitiamo a riflettere sul fatto che si tratta degli stessi elettori che non gradiscono nemmeno certi atteggiamenti, tanto estremistici a parole quanto sterili nei fatti, di fronte ai quali dissentire diventa a volte doveroso.
    Nella coalizione il senso di responsabilità deve essere pratica quotidiana per tutti, non solo per alcuni.
    Potrei ricordare numerosi episodi di polemica nella maggioranza, alimentati anche da AN. Ma quasi sempre si tratta di episodi conseguenti alle parole in libertà di qualche ultrà della curva che è arrivato ad insultare perfino la chiesa cattolica.
    E’ evidente che il pensiero va subito ad alcuni estremismi leghisti che, soprattutto nel centro sud determinano guasti non facilmente recuperabili e che non possono essere sempre minimizzati soltanto perché Bossi “parla al suo elettorato”.
    Sarebbe però superficiale e riduttivo pensare che i problemi siano sempre e solo nelle posizioni e nei toni della Lega.
    Specie nel delicatissimo e vitale comparto socio economico (perché è su questi temi che si vincono o si perdono le elezioni) abbiamo a volte avuto il sospetto che un certo egoismo geografico e sociale –il mito del nord produttivo grazie al popolo delle partite iva contrapposto alla presunta passività del centro sud e del lavoro dipendente- sia presente nel pensiero del Ministro Tremonti non meno che nei comizi del leader leghista.
    Ma su questa questione tornerò, diffusamente e con precise proposte più avanti.
    Pari dignità, reciproco rispetto ed effettiva collegialità sono regole di comportamento che la coalizione deve osservare e che Berlusconi è chiamato a garantire proprio per il fatto che ne è il leader.
    Non è la prima volta che AN pone questa questione di metodo. Qualche positivo effetto c’è stato, ma il problema non è ancora completamente risolto. In futuro occorrerà un impegno ed una vigilanza ancora maggiori soprattutto se si vuol affrontare in modo positivo le quattro questioni di merito che poniamo al centro della verifica. Come detto, esse riguardano le riforme costituzionali, il funzionamento della giustizia, il pluralismo dell’’informazione radio televisiva, le prospettive economico sociali.
    Vediamole una per una, analiticamente.
    Le riforme costituzionali hanno costituito da sempre un obiettivo importante della nostra strategia politica. Le abbiamo sempre considerate essenziali per rafforzare il sistema bipolare e la partecipazione popolare.
    E’ un tema sul quale non abbiamo complessi di inferiorità e su cui nessuno può rivendicare primazie o diritti di esclusiva. Soprattutto perché le riforme rappresentano il terreno più tradizionale per un aperto confronto parlamentare con tutte le forze politiche, nessuna esclusa.
    Cambiare la costituzione a colpi di maggioranza non sempre è la scelta migliore, come dimostrano i tanti problemi creati dal centro sinistra con l’approvazione della riforma del titolo V della costituzione con soli 4 voti di scarto. Al tempo stesso, non si può riconoscere alcun diritto di veto all’opposizione. Confrontarsi senza pregiudizi non può significare l’obbligo di trovare un compromesso in assenza del quale tutto resta inalterato.
    E’ la ragione per la quale la maggioranza ha giustamente deciso, ed è la prima volta che accade, di approvare in consiglio dei ministri un testo di riforma della intera seconda parte della costituzione e di sottoporlo all’esame del parlamento senza blindatura, ma al tempo stesso con la forte volontà politica di farlo ratificare dalle camere.
    Per quanto ci riguarda, il ministro Bossi non ha quindi ragioni per essere diffidente e ancor meno ne ha per minacciare.
    Il testo di riforma della costituzione approvato dal consiglio dei ministri ha un suo equilibrio che AN condivide perché ha contribuito a realizzarlo.
    L’attribuzione di ulteriori competenze legislative esclusive alle regioni, la cosiddetta devoluzione, è per noi possibile solo se avviene nel rispetto dell’equilibrio istituzionale che abbiamo raggiunto nel testo approvato dal consiglio dei ministri.
    Vale la pena di ricordarlo con chiarezza. A scanso di equivoci, ma soprattutto perché il parlamento lo esaminerà liberamente fin dal prossimo 21 gennaio, in aula al Senato.
    I cinque principi su cui AN non sarebbe disposta a transigere qualora venissero modificati sono noti ma voglio richiamarli rapidamente:
    1) l’eliminazione del III comma dell’art. 116, che da corpo all’ipotesi del cosiddetto federalismo a doppia velocità, parente stretto anche se mascherato del secessionismo perché agevola le regioni più ricche e penalizza le altre.
    2) la conseguente reintroduzione del concetto di interesse nazionale, concetto essenziale quando col federalismo si capovolge il rapporto tra lo Stato e le regioni. Il carattere unitario nazionale e solidale della repubblica costituisce per noi un elemento essenziale e non trattabile.
    3) l’esplicitazione che tra le materie oggetto di devoluzione di poteri legislativi esclusivi alle regioni figura la polizia amministrativa locale e non la polizia locale. La sicurezza del cittadino e il coordinamento tra le forze di polizia sono questioni troppo sensibili, anche in termini di democrazia, per non fugare sul nascere qualsiasi dubbio interpretativo sulla effettiva volontà del legislatore.
    4) il chiaro riconoscimento del ruolo e dei poteri costituzionalmente garantiti alla città di Roma, in quando capitale d’Italia.
    5) l’introduzione di un inscindibile rapporto fiduciario tra il voto degli elettori e il governo. Norme di flessibilità sono possibili, ma sarebbe per noi inaccettabile qualsiasi alchimia volta a introdurre la possibilità di un governo sostenuto da una maggioranza parlamentare anche solo parzialmente diversa da quella scelta nelle urne dal corpo elettorale.
    Si tratta di un livello minimo di presidenzialismo –la parola è impropria in termini costituzionali, ma rende bene l’idea in termini politici- sotto del quale sarebbe per noi impossibile scendere.

    Un terreno sul quale nella seconda parte della legislatura sarà necessario lavorare con maggiore intensità e con una precisa gerarchia di obiettivi da raggiungere è quello delle riforme in materia di giustizia e soprattutto della quotidiana amministrazione della giustizia.
    Dico subito che considero ingenerose e sbagliate le critiche a quanto abbiamo fatto in questi due anni e mezzo. Sono convinto ad esempio della opportunità di una legge come il cosiddetto lodo Schifani-Maccanico.
    A parte la strumentalizzazione di chi pensa ancora di ribaltare il risultato delle elezioni per via giudiziaria, chi ha criticato il lodo per motivi di merito non ha valutato a sufficienza che un esercizio improprio della giurisdizione rischia di limitare in modo altrettanto improprio l’azione di un governo –di qualunque colore- che è tale per consenso elettorale. Ciò non può non preoccupare chi ha a cuore la democrazia.
    Affrontando il tema giustizia dobbiamo essere consapevoli che il problema non è soltanto nella politicizzazione di alcune correnti della magistratura. C’è indubbiamente anche questo problema. Basta pensare al costante appello che Magistratura democratica fa alla “funzione di indirizzo politico propria della giurisdizione”.
    Del resto come far finta di nulla di fronte alla partecipazione attiva di tanti giudici a manifestazioni di partito o alla simpatia che taluno di loro manifesta palesemente per i girotondini e i no global?
    Alcuni componenti di Magistratura Democratica hanno definito il ddl del governo sulla droga una “proposta fascista che parifica il consumatore a un trafficante del cartello di Medellina”.
    Altri giudici continuano a sabotare la legge sull’immigrazione disapplicando alcune sue norme o sommergendo la corte costituzionale di ordinanze di illegittimità.
    Il vero problema è però ben più patologico della semplice appartenenza a una corrente. E’ la convinzione che il ruolo del giudice sia non solo quello di valutare singoli fatti eventualmente illeciti commessi dagli esponenti politici (dovere ovviamente sacrosanto) ma anche quello di controllare la politica nel suo insieme.
    La mia affermazione non è frutto di deduzioni sospettose e maligne. L’intendimento è stato teorizzato, è stato illustrato in scritti e in convegni all’interno della stessa magistratura, è stato riproposto in sede europea d’intesa con giudici di altri paesi.
    La riforma della giustizia non è quindi un problema di Berlusconi ma di tutti gli italiani.
    La propaganda della opposizione sostiene che le leggi in materia di giustizia varate in questa legislatura hanno avuto tutte l’obiettivo di risolvere le vicende del premier e/o dei suoi amici . Non è così.
    La riforma del diritto societario era già stata tentata senza successo dal centro sinistra in termini non dissimili da quelli andati in porto in questa legislatura. E vale la pena di ricordare che per le società quotate in borsa, come Parmalat, nulla è cambiato con la nostra riforma per quel che riguarda il falso in bilancio.
    Probabilmente le leggi sulle rogatorie e sul legittimo sospetto potevano essere fatte con minore concitazione, ma anche su questi temi non mancano i precedenti nelle passate legislature quando il centro-sinistra era al governo.
    Se l’amministrazione della giustizia è sempre più deludente, non dipende però soltanto dalla politicizzazione di parte crescente della magistratura. Dipende anche da una crisi di efficienza accentuata da leggi volute dall’Ulivo, come nel caso della Carotti che ha riempito di formalismi inutili il processo penale, o come nel caso del cosiddetto pacchetto sicurezza che ha introdotto ulteriori ostacoli operativi.
    Oggi la pubblica opinione attende da noi delle risposte soprattutto sul fronte della efficienza dell’apparato giudiziario.
    Ipotizzare ulteriori modifiche dei codici, e in particolare del codice di procedura penale, con proposte che vanno nella direzione esattamente opposta alla certezza della pena incrementerebbe l’inefficienza senza aumentare le garanzie. Sarebbe sbagliato oltre che per noi politicamente inaccettabile.
    Avere approvato la sospensione dei processi per le cinque più alte cariche dello Stato ci consente oggi di giocare a carte scoperte e senza fraintendimenti. Dalla eliminazione di condizionamenti impropri all’azione del governo può derivare, con il concorso del parlamento, un forte contributo alla efficienza della giurisdizione.
    Per questo intendiamo far proseguire il percorso di quelle leggi delle quali oggi vi è effettiva necessità. A cominciare dalla riforma dell’ordinamento giudiziario che non può non prevedere meccanismi di verifica sostanziale, concreta e periodica, della preparazione e del lavoro del giudice.
    Sfido l’opposizione a ritenere che questa riforma sia inutile o punitiva per la magistratura. Invito invece tutti gli interessati, a cominciare dalle rappresentanze degli avvocati e dei magistrati, a contribuire positivamente alla buona riuscita della riforma abbandonando atteggiamenti corporativi che servono esclusivamente ad aumentare la tensione.
    Con identica fermezza Alleanza Nazionale pone il problema di una effettiva riforma del Consiglio Superiore della Magistratura che oggi assomma in sé le diverse funzioni di legislatore in materia di ordinamento e di disciplina con le sue circolari, di giudice disciplinare con le sentenze dell’apposita sezione, di amministratore con i suoi poteri in materia di nomine e di trasferimenti.
    Il CSM è a un tempo potere legislativo, esecutivo e giudiziario. In più dirige anche la formazione dei magistrati.
    Finchè a giudicare disciplinarmente i magistrati sarà una sezione del CSM eletto in base a criteri di corrente, la verifica sul piano deontologico non cambierà mai di molto. Durante i lavori della commissione D’Alema si immaginò un autonomo collegio disciplinare svincolato dal CSM. Può essere la strada giusta per un sistema di controllo effettivo. Non è un atto di ostilità nei confronti della magistratura, ma un atto di sostanziale rispetto del dettato costituzionale, che non può essere un feticcio da esibire in occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario e da ignorare fin dal giorno successivo.
    Dicevo prima della certezza della pena. Non intendo sottrarmi ad una riflessione sulla questione della grazia a Sofri. Per ricordare che è stato condannato con sentenza irrevocabile per un fatto gravissimo che segnò l’inizio degli anni di piombo. Per ricordare che la sentenza è giunta dopo un percorso lunghissimo e macchinoso ma è definitiva. Per sottolineare che il fatto che Sofri abbia accettato le conseguenze della sentenza, pur proclamandosi innocente, è un elemento da rispettare e che gli fa onore ma non incide minimamente nel merito della condanna.
    Per come è stata presentata negli ultimi giorni, la grazia nei suoi confronti rischia di far apparire l’eventuale provvedimento del Capo dello Stato come una sorta di riparazione ad un torto giudiziario, come una contestuale restituzione di dignità ad un innocente ingiustamente perseguito, come una condanna morale verso chi lo ha costretto al carcere.
    Non credo si possa consentirlo, specie se si riflette sul fatto che Sofri è davvero il detenuto più coccolato d’Italia e che non si tratta certamente dell’unico caso di sentenze definitive collegate agli anni bui della violenza di massa e del terrorismo.
    E’ troppo chiedersi perché gli attivissimi sostenitori della sua causa sembrano dimenticare questo inequivocabile aspetto della questione?
    Non vogliamo infierire su persone che pagano per quanto accaduto trenta anni fa. Vogliamo porre al primo posto il rispetto per la verità così come è stata accertata in sede di giudizio. Ma c’è di più. Oggi vi sono in Italia diverse migliaia di cittadini che hanno subito gravi danni perché vittime di reati o che hanno visto uccidere un proprio familiare. Ed è altrettanto certo che la gran parte di costoro attende ancora il congruo risarcimento previsto dalla legge.
    Non possiamo pensare soltanto all’ipotesi di grazia per chi è stato riconosciuto colpevole di omicidio senza provvedere in precedenza all’approvazione di una legge organica e completa che tuteli le vittime dei reati.
    In Parlamento si discute proprio in questi giorni di due proposte di legge che vanno in questa direzione. Una è stata avanzata da deputati di AN. Sul tavolo della verifica è giusto porre il problema del reperimento della copertura finanziaria per questo importante provvedimento di autentica giustizia.
    Al di là del caso Sofri, il governo deve tradurre nei fatti il proprio impegno per la certezza della pena attraverso la revisione della legge Gozzini, per fare in modo che il minor rigore del regime penitenziario all’approssimarsi del termine della espiazione sia direttamente proporzionale alla effettiva e verificata rieducazione del condannato. Lo abbiamo scritto nel programma elettorale, adesso dobbiamo farlo.
    La certezza della pena è indispensabile in un momento in cui le minacce alla nostra convivenza quotidiana provengono sia dal terrorismo nelle sue varie forme sia dalla criminalità organizzata.
    Pregiudiziale a qualsiasi intervento è la piena consapevolezza, che alla politica non può mancare mai e a noi certamente non manca, che mafia, camorra, ‘ndrangheta, non sono scomparse, operano, sono una metastasi del nostro ordinamento. E con le metastasi non si convive. Le si estirpa e poi si provvede a curare l’organismo nel quale si trovano. La lotta alle mafie non è soltanto repressione, ma è anche repressione. In questa legislatura su impulso del governo il Parlamento ha eliminato la provvisorietà del carcere duro e ha fatto diventare il 41 bis una modalità di espiazione della pena definitiva per i mafiosi più pericolosi. Abbiamo fatto bene a farlo ma dobbiamo intensificare e rendere più omogenea sul territorio nazionale, soprattutto al sud, l’applicazione delle misure di prevenzione patrimoniale, cioè il sequestro e la confisca dei beni di provenienza illecita.
    Servono subito modifiche legislative per superare intollerabili lentezze burocratiche e per garantire una destinazione certa ai beni confiscati. Non possono essere messi all’asta per fare cassa, troppo forte è il rischio che finiscano di nuovo in mano a mafiosi e per giunta a prezzi stracciati. I beni confiscati devono essere utilizzati per scopi sociali, devono essere messi a disposizione delle comunità locali anche per l’evidente valore simbolico che essi assumono. Attendiamo al riguardo assicurazioni dai ministri Tremonti e Castelli.
    Funzionamento della giustizia, certezza della pena, forte volontà di sradicare mafia e terrorismo sono indispensabili per garantire la sicurezza del cittadino e per sorreggere il grande impegno delle forze dell’ordine.
    Esse vanno ringraziate. Il nostro governo ha provveduto con l’ultima legge finanziaria, per la tenacia del ministro Pisanu e per la nostra ferma determinazione, a stanziare finalmente le risorse finanziarie per dotarle di mezzi efficienti e di remunerazioni adeguate. E’ un impegno che abbiamo mantenuto, ma nei prossimi anni dobbiamo continuare a considerare il binomio “legge e ordine” un valore che un governo di centro-destra non può trascurare.


    Le questioni della riforma del sistema radio televisivo, del pluralismo nell’informazione e del conflitto di interessi sono strettamente collegate tra loro. Incendiano da tempo il dibattito politico, in particolare per la faziosa polemica alimentata anche in Europa dalle opposizioni. Hanno avuto recentemente una impennata con la decisione del presidente Ciampi di rinviare alle camere la legge di riforma. Sono questioni che vanno pertanto affrontate e risolte rapidamente e con chiarezza.
    AN intende farlo. Sia per l’oggettiva importanza della questione, sia per il ruolo di primissimo piano che, con grande senso istituzionale, ha avuto ed ha il Ministro Gasparri, quindi tutto il partito.
    Abbiamo tutti il dovere di reagire alle critiche che lo hanno ingiustamente colpito (e di cui ha fatto recentemente giustizia anche il commissario Monti) non solo per una doverosa solidarietà umana e politica, ma anche perché si tratta di critiche pretestuose e soprattutto perché –e di questo in particolare lo ringrazio- il Ministro Gasparri ha ben compreso la portata politica della intera vicenda. Che è almeno di triplice natura: il contenuto innovatore e coraggioso della riforma, che rafforza il pluralismo dell’informazione. La fondatezza dei rilievi del Quirinale. La necessità di smascherare le bugie della sinistra sul tema del conflitto di interessi.
    Non è questa la sede per una analisi dettagliata sui vantaggi della televisione digitale terrestre che comporta la moltiplicazione dei canali, forme di interattività, una modernizzazione del mezzo televisivo che potrà essere al servizio anche della telemedicina, del e-government e di tante altre attività oltre a quelle tradizionali.
    Voglio però ricordare che la riforma contiene una norma in base alla quale il presidente della Rai potrà essere eletto soltanto dal voto a maggioranza qualificata dei due terzi della commissione parlamentare di vigilanza. E’ un principio che esalta il ruolo del parlamento e rafforza il ruolo delle minoranze. E’ la dimostrazione che vogliamo un sistema che garantisca tutti e che non sia usato, come continua a fare la sinistra televisiva alla Deaglio, con una clava nei confronti degli avversari.
    Con la nuova legge si consente inoltre agli editori dei giornali l’ingresso nel mondo della televisione. In sostanza, con nuove regole e nuove tecnologie si da un contributo importante al rafforzamento del pluralismo.
    La sostanziale validità dell’impianto legislativo proposto dal governo non ci deve però impedire di valutare con attenzione, e non solo con rispetto istituzionale, le osservazioni di merito mosse dal Quirinale. Come ha più volte affermato proprio il Ministro delle Telecomunicazioni, si tratta di questioni troppo delicate politicamente per alimentare tensioni istituzionali, per giunta in pendenza della sentenza sulla materia da parte della corte costituzionale.
    Per questa ragione la osservazione del Colle circa le verifiche sui tempi e sulle dimensioni del passaggio alla televisione digitale terrestre è già stata recepita nel decreto della fine di dicembre.
    Il contenuto del decreto farà certamente parte del testo definitivo della legge, a garanzia di norme efficaci che dotino l’autorità per le comunicazioni di poteri di controllo reali e in tempi ragionevolmente brevi.
    Nella discussione parlamentare dovrà però essere esaminato anche il problema del sistema integrato delle comunicazioni. Va ricordato che un principio del genere era già contenuto nelle leggi Mammì e Meccanico e che il governo con la sua proposta ha adeguato alle nuove convergenze multimediali i contenuti del sistema integrato delle comunicazioni.
    Sarà comunque necessario ed opportuno verificarne le dimensioni e affidare alla discussione parlamentare il compito di individuare una soluzione che tenga conto del rilievo del Presidente della Repubblica.
    In conclusione, puntiamo ad una legge che possa affrontare il suo ulteriore iter parlamentare in maniera tale da regolamentare, all’insegna del pluralismo e dell’innovazione il sistema radio televisivo raccogliendo lo spirito del messaggio del Capo dello Stato.
    Il fatto che il governo Berlusconi si faccia carico di problemi che nel passato erano stati volutamente elusi, per scelta o per incapacità, dal centro sinistra deve trovare conferma anche sulla questione del conflitto di interessi.
    Per tutta la passata legislatura il centro sinistra, pur avendone la possibilità, non fece approvare alcuna normativa per regolare il conflitto di interessi. Alla attuale opposizione faceva troppo comodo poter sostenere, in campagna elettorale e nelle sedi europee molto sensibili al tema, che Berlusconi non poteva essere il Presidente del Consiglio perché prigioniero dei suoi interessi privati.
    Ciò la dice lunga sulla sincerità di certe sdegnate filippiche che vengono pronunciate
    In ogni circostanza da esponenti del centrosinistra.
    Ma ciò impone anche al nostro governo di rispettare l’impegno preso con gli elettori. Dobbiamo approvare, se necessario anche solo con la nostra maggioranza parlamentare, una legge che regoli la materia.
    Il consiglio dei ministri lo ha già fatto. Il Senato l’ha già esaminata e ora tocca alla Camera. E’ opportuno che ciò avvenga al più presto. Non dobbiamo fornire alibi alla opposizione. Giudichino pure, come già hanno fatto, inadeguata la legge Frattini. Sarà facilissimo far capire agli italiani la loro malafede ricordando, quando nell’ordinamento italiano vi sarà una legge sul conflitto di interessi, che ciò è avvenuto solo per volontà del centrodestra.
    Tergiversare ancora non avrebbe davvero alcun senso politico.


    Veniamo infine all’ultimo tema della verifica: le prospettive economiche e sociali.
    Schematizzando si può dire che AN vuole voltare pagina. Vogliamo passare dalla finanza creativa all’economia reale, da una politica per l’emergenza ad una politica per lo sviluppo, dalla stabilità senza crescita alla crescita nella stabilità.
    Ci interessa la rotta che il governo intende seguire, non il nocchiero che deve guidare la nave. Anche perché, come spero di dimostrare, è tutto l’equipaggio che deve essere coinvolto.
    All’inizio della legislatura il governo delineò un programma di grandi riforme che aveva i suoi punti forza in quattro direttrici fondamentali: 1) fisco e spesa pubblica corrente. 2) mercato del lavoro e previdenza. 3) modernizzazione della pubblica amministrazione. 4) infrastrutture.
    Già dall’indomani dell’insediamento due eventi negativi e imprevisti hanno però prodotto un rapido e negativo cambiamento economico. Il primo evento è consistito nello squilibrio finanziario emerso nei conti pubblici ereditati dal precedente governo, il secondo è stato l’11 settembre che ha cambiato radicalmente il quadro economico (e non solo) del mondo intero.
    Di conseguenza, la crescita dell’economia italiana che sembrava potersi attestare al 3% annuo è stata in realtà attorno all’1%.
    Ciò significa che oggi, tre anni dopo, abbiamo circa 150 mila miliardi di vecchie lire di prodotto interno lordo in meno rispetto a quello che era lecito attendersi all’inizio della legislatura.
    Questo è l’ordine di grandezza oggettivo entro il quale il governo ha dovuto operare e che non deve mai essere dimenticato.
    Nella seconda metà del 2003 sono finalmente apparsi in modo visibile forti segnali di ripresa dell’economia americana che ripropongono gli Stati Uniti come una grande locomotiva mondiale. Nei prossimi 2 /3 anni gli Usa prevedono di tornare a crescere tra il 3 e il 4 % all’anno.
    Qualche segnale di ripresa si avverte anche in Europa. Resta il fatto che il vecchio continente rimane appeso al traino dell’economia americana. L’Europa ha tuttavia risorse e capacità. Può e deve crescere di più.
    Non si tratta di attenuare o peggio ancora di abbandonare la via del rigore finanziario sancita nel patto di stabilità e di crescita. Si tratta semmai di applicare fino in fondo il patto per mantenere la stabilità e costruire la crescita.
    Qualcuno ha detto che il patto è stupido. Qualcun’altro pensa che se ne possa fare a meno. Sbagliano entrambi.
    L’Europa non può avere un Euro forte e una economia debole né ci si può illudere che basti un Euro più debole per avere una economia forte. Per rendere forte l’economia occorre una decisa politica economica che abbia il coraggio di realizzare grandi riforme strutturali senza abbandonare la stabilità finanziaria.
    La ripresa europea non si costruisce solo ratificando ex post gli sfondamenti di deficit, come è successo per Francia e Germania. Si costruisce governando ex ante la destinazione delle risorse.
    Grazie al nostro governo, l’Italia è riuscita fino ad oggi a rispettare i parametri del patto. Adesso dobbiamo porre con forza ai partners europei la necessità di interpretare il patto con intelligenza, cioè tenendo sotto controllo la spesa corrente ma aprendo spazi consistenti per gli investimenti pubblici.
    L’esempio più significativo di ciò che il governo dovrà fare in Europa è certamente quello, già posto con forza e con successo durante il nostro semestre di presidenza, delle trans european networks, cioè delle grandi reti continentali.
    Ma questo è solo un esempio. Occorrerà giungere a decisioni rilevanti nel settore delle politiche commerciali e avere un ruolo determinante nel fissare regole e politiche di integrazione internazionali nell’ambito del WTO. Occorrerà attuare la riforma della politica agricola comune, cui il ministro Alemanno ha contribuito in modo determinante, e passare dalle attuali protezioni e distorsioni sui prezzi a politiche di sostegno degli investimenti, della qualità dei prodotti, del reddito degli agricoltori.
    Sempre sul versante dell’agricoltura e nel quadro di un impegno per valorizzare la qualità del settore agro-alimentare italiano, voglio sottolineare che il nostro governo ha finalmente varato anche la riforma del settore delle quote latte. Abbiamo chiuso una vicenda che ha fatto perdere all’Italia complessivamente quasi tre miliardi di euro in venti anni di continui rinvii e cedimenti. Oggi si è voltata definitivamente pagina con il pieno consenso degli oltre cinquantamila allevatori italiani e di tutte le organizzazioni professionali. Ecco perché il governo non può cedere alle pressioni della Lega che ancora oggi, quando i cosiddetti cobas del latte si sono ridotti a poco più di un migliaio di rumorosi irriducibili, vorrebbe rinviare l’applicazione della riforma e continuare a scaricare sul bilancio dello Stato duecento milioni di euro l’anno di multe non pagate.
    Il governo, come ho già detto, ha avuto il grande merito di mantenere l’equilibrio finanziario.
    Adesso dobbiamo rilanciare lo sviluppo.
    Dobbiamo essere consapevoli che senza uno spostamento delle risorse da spesa corrente a investimenti il solo equilibrio contabile produce effetti negativi sulla economia reale. Perché determina minore produttività, minore competitività e minore crescita.
    In Italia gli eccessi speculativi sui prezzi conseguenti all’introduzione dell’euro e soprattutto la progressiva integrazione con le altre economie europee hanno già posto un problema serio indebolendo il potere d’acquisto dei salari, degli stipendi, delle pensioni. L’attuale frustrazione del ceto medio ne è la riprova.
    Questo circolo perverso va interrotto rapidamente perché potrebbe assumere rilevanza sociale per i lavoratori con redditi medio-bassi ma potrebbe anche avere rilevanza economica perché la ripresa dei consumi si basa sulla difesa e sull’incremento del potere d’acquisto degli stipendi.
    Non si tratta certo di alimentare demagogicamente la vecchia spirale salari-prezzi, che per di più con l’euro porterebbe direttamente ad ulteriori perdite di competitività e di potere d’acquisto. Si tratta di concentrare tutti i nostri sforzi e tutte le risorse disponibili sul sostegno alla competitività ed alla produttività.
    Questo impegno straordinario per un forte sviluppo esige la ripresa di un rapporto diretto con il mondo delle imprese.
    Le politiche industriali e produttive non si possono esaurire in misure orizzontali in cui si affrontano genericamente i temi dell’innovazione e della competitività e si spalmano le poche risorse disponibili in modo indifferenziato e senza una verifica puntuale dei risultati ottenuti.
    Compito dei ministeri che presidiano attività produttive dovrà essere quello di elaborare misure specifiche in partenariato con le diverse filiere produttive. Da ciò può derivare una nuova stagione di confronto e di dialogo con tutte le parti sociali che vanno sfidate a porre sul tavolo del confronto le loro proposte, non solo quando si tratta di questioni sociali ma anche di questioni connesse allo sviluppo ed alla competitività.
    Puntare su competitività e produttività significa percorrere una strada con due corsie parallele, entrambe necessarie per riavviare lo sviluppo.
    In primo luogo servono azioni che riqualificano il posizionamento strategico dell’Italia come sistema paese.
    Si tratta delle grandi infrastrutture.
    Il governo appena insediatosi indicò saggiamente duecentoquaranta opere rilevanti contenute nella cosiddetta legge obiettivo. Ad oggi sono già stati approvati dal CIPE, con il relativo impegno di fondi, i progetti realizzativi di quindici opere.
    Fin dall’inizio del 2004 dobbiamo selezionare cinque opere strategiche la cui realizzazione dovrà partire nel corso di quest’anno.
    Dovremo cioè individuare e rimuovere i cinque più soffocanti colli di bottiglia nel sistema logistico e infrastrutturale del paese.
    E’ un esempio che mi consente di spiegare bene cosa intendiamo per collegialità. Non chiamiamo in causa polemicamente il ministro Lunardi per non averlo fatto finora o il ministro Tremonti per non avere assegnato risorse sufficienti.
    Mettiamo in luce il fatto che il governo non ha avuto fino ad oggi, stretto come era dall’obbligo di fronteggiare l’emergenza finanziaria, una visione di insieme della essenziale politica delle infrastrutture.
    Analogo ragionamento si può fare per ciò che riguarda il quadro, e quindi la guida complessiva, della politica industriale.
    Ancora una volta per noi non è in discussione l’azione di questo o quel ministro. Denunciamo il fatto che spesso è mancato un momento collegiale e complessivo di scelte, di individuazione delle priorità.
    Invitiamo gli alleati a riflettere sul fatto che la presidenza del CIPE delegata al ministro dell’Economia, che deve essere soprattutto il guardiano dei conti pubblici e che ha svolto fin qui benissimo questo compito, ha comportato a volte la impossibilità di programmare l’utilizzazione sul medio e lungo periodo delle risorse finanziarie disponibili.
    Non a caso è il Presidente del Consiglio, e non il titolare dell’Economia, a presiedere il CIPE quando si occupa dello spostamento di risorse da un ministero all’altro, nell’ambito del cosiddetto fondo unico.
    Crediamo che da eccezione, ciò debba diventare regola.
    E non crediamo di polemizzare ricordando che la cabina di regia a Palazzo Chigi da noi invano richiesta rispondeva proprio a questa oggettiva esigenza di unitarietà e di coordinamento dell’azione governativa.
    Per quanto riguarda invece le azioni direttamente mirate sul sistema produttivo bisogna partire da una politica energetica che modifichi il precario posizionamento geo-economico e geo-politico dell’Italia. Ogni giorno paghiamo tutti, famiglie e imprese, circa tre centesimi di euro al kwh in più rispetto agli altri paesi europei.
    Grandi imprese come Eni ed Enel, dopo il salutare processo di razionalizzazione e di ritorno a condizioni di economicità, devono oggi essere chiamate a realizzare una strategia industriale che rafforzi non solo il loro posizionamento competitivo sul mercato ma anche il posizionamento strategico del sistema Italia.
    Non abbiamo nostalgia del disciolto ministero delle partecipazioni statali ma vogliamo rimarcare ancora una volta la necessità di un coordinamento e di una guida strategica, nell’interesse nazionale, di due grandi imprese tuttora a prevalente controllo pubblico.
    Ci è difficile immaginare che ciò accada se, dopo la riforma Bassanini, anche questo importante segmento di politica industriale è affidato al ministero di via xx settembre e quindi di fatto subordinato ad una logica meramente finanziaria, al computo dei dividendi annuali.
    Fin da quest’anno il governo dovrà ridefinire le linee strategiche della sua politica industriale, che certamente deve portare a ridisegnare il sistema degli incentivi ma che deve avere la sua base portante su convinte politiche a favore del mercato e della concorrenza.
    Non si tratta quindi di tornare a proteggere quei settori che sono stati aperti alla concorrenza. Si tratta al contrario di aprire alla concorrenza quei settori che ancora oggi mantengono protezioni e posizioni di rendita e sopravvivono solo scaricando sui prezzi pagati dagli utenti l’aumento dei loro costi.
    Per superare il 2% di crescita nel 2004, traguardo ambizioso ma a certe condizioni possibile, un ruolo importante lo avranno le azioni che il governo intraprenderà per la tutela e la produzione del made in italy.
    Non serve innalzare antistoriche barriere doganali. Anche se va detto con chiarezza che l’Europa deve svolgere un ruolo più attivo nell’ambito del WTO e che l’Italia può certamente chiedere parità di condizioni bilaterali ai nostri partners commerciali.
    E’ difficile ad esempio capire la ragione per la quale mentre l’Italia impone un dazio del 6% sulle calzature prodotte in Cina, la stessa Cina faccia pagare il 36% sulle scarpe importate dall’Italia. Delle due l’una, o loro scendono al 6% o noi saliamo al 36%. Oppure concordiamo qualunque aliquota intermedia.
    Dobbiamo però essere consapevoli che si tratterebbe di una operazione tanto giusta quanto di corto respiro.
    La vera grande necessità è inserire stabilmente le nostre imprese nei nuovi enormi mercati. Solo così potremo aprirci solide e durature prospettive di crescita.
    Per farlo occorre una strategia che orienti le nostre produzioni accompagnando i nostri distretti industriali, composti da migliaia di piccole e medie imprese, in una fase di qualificazione delle tecnologie, della ricerca di nuovi materiali, dell’approfondimento dei processi produttivi, della valorizzazione delle nostre capacità creative.
    Questa è la sfida per mantenere in Italia le fasi più strategiche di creazione del valore aggiunto. Dobbiamo governare e non subire i fenomeni di decentramento e delocalizzazione produttiva.
    E’ il progetto delle cosiddette “stazioni sperimentali” che mettono insieme imprese, università e centri di ricerca. Un progetto che dopo essere stato più volte annunciato inspiegabilmente attende ancora di essere realizzato.
    In questo doppio riposizionamento strategico, di sistema e di politiche industriali e di mercato, si dovrà sviluppare una specifica terapia per il mezzogiorno, che rappresenta una grande opportunità per l’Italia intera di agganciare la ripresa economica internazionale.
    L’Europa ha avviato uno storico processo di allargamento ad est. Il suo successo è però legato alla capacità di proiettarsi contemporaneamente verso la sponda sud del Mediterraneo, verso il nord Africa ed il medio oriente. Lo sviluppo del nostro sud non è più solo un problema italiano, è un grande problema europeo di cui nell’Europa a 25 moltissimi sono coscienti.
    Anche la Lega dovrà comprendere che nell’irreversibile e sempre più stringente processo di riunificazione del vecchio continente guardare con attenzione al nostro meridione non è più solo nell’interesse dei cittadini europei di Catanzaro ma anche di quelli di Bergamo e perfino di Copenaghen.
    Anche per questo è indispensabile che il governo riconduca ad unità di progetto e di responsabilità politica l’assegnazione delle risorse e la definizione di poteri decisionali per il meridione.
    Va dato atto al ministro Tremonti di non aver lesinato in questi anni le risorse per il sud, ma ancora una volta paghiamo l’assenza di un momento unitario e collegiale nella scelta delle priorità di intervento. Rischiamo di riprodurre senza accorgercene il fenomeno negativo della dispersione a pioggia delle risorse. E’ uno spreco che non ci possiamo permettere.
    Attivando anche le indispensabili sinergie istituzionali con le regioni, dobbiamo concentrare le risorse finanziarie sul fattore che più di ogni altro determina la lontananza del sud dal resto d’Italia e d’Europa. Lontananza nel senso letterale del termine, perché si tratta in primo luogo delle grandi reti infrastrutturali: strade, autostrade, autostrade del mare, porti, aeroporti.
    A ciò dovrà servire in modo preponderante il cosiddetto fondo unico, nell’ambito del quale continuiamo a pensare sia opportuno studiare un nuovo sistema di incentivi e sostegno agli investimenti basato su un meccanismo che riduca le tre aliquote irpeg irpef e contributi sociali al 15% per un periodo di 5 anni.
    Ciò sarebbe perfettamente compatibile con le regole europee in quanto la riduzione delle aliquote verrebbe applicata sui nuovi investimenti, come peraltro già avviene per il credito di imposta.
    Se fin qui mi sono sforzato di dimostrare cosa intendiamo con la formula “passare da una politica per l’emergenza finanziaria ad una politica per uno sviluppo produttivo”, occorre ora chiedersi quali assetti istituzionali sono necessari per garantire che la finanza pubblica e privata sia al servizio dello sviluppo.
    Alle incertezze sulle prospettive di potere di acquisto degli stipendi, legate ad un rigore senza sviluppo si sono infatti aggiunte le fortissime preoccupazioni per la inadeguata tutela del risparmio nazionale.
    Le vicende dei bonds argentini di Cirio e di Parmalat pongono infatti come vera emergenza economica, e non solo come problema politico, la tutela del risparmio dei lavoratori italiani.
    Il risparmio nazionale, la cui tutela è garantita dalla costituzione, è una entità economica unitaria composta dalla parte privata e da quella che deriva dal bilancio pubblico. Le due parti infatti contribuiscono a finanziare gli investimenti che a loro volta determinano la potenzialità di crescita del reddito dei cittadini.
    E’ necessario quindi ripensare al più presto regole e istituzioni per la tutela del risparmio privato, ma anche regole e istituzioni per la certezza dei dati che determinano il cosiddetto risparmio pubblico.
    Una sana finanza pubblica e privata è condizione indispensabile per lo sviluppo dell’economia reale. Suo asse portante è la fiducia degli operatori e dei cittadini. La fiducia si basa su regole certe e chiare, forti istituzioni di garanzia e di tutela, mercati trasparenti, sanzioni tempestive ed efficaci per chi trasgredisce alle regole. In questo contesto si esaltano i comportamenti corretti, e si riducono i rischi di comportamenti fraudolenti. Fuori da questo contesto può avvenire esattamente il contrario, come purtroppo dimostra l’attualità.
    Per AN è quindi necessaria la tutela parallela e congiunta tra il risparmio dei cittadini e quello determinato dalla pubblica amministrazione. Solo così si può dare certezza e trasparenza ai bilanci e alla finanza dei privati così come al bilancio e alla finanza pubblica.
    Si tratta di costruire un assetto istituzionale e normativo che dovrà di fatto configurarsi con un vero e proprio statuto dei risparmiatori.
    Come dare quindi certezza e trasparenza ai bilanci e alla finanza delle imprese private? E’ necessario innanzitutto chiarire la catena delle eventuali responsabilità. Internamente alle imprese va posta in primo luogo la responsabilità diretta degli amministratori, poi del collegio sindacale e delle società di certificazione.
    Esternamente alle imprese, va posta la responsabilità della Consob, del sistema bancario e della Banca d’Italia come organo di vigilanza.
    Se è evidente che il governo nulla può fare per garantire che venga adottata la prima misura necessaria per ridare fiducia, cioè la dura e inequivocabile condanna penale per comportamenti illegali, credo sia invece doveroso e urgente varare modifiche di legge che, ad esempio , proibiscano ai certificatori di bilancio di essere contemporaneamente consulenti della stessa azienda. Negli Stati Uniti lo si è fatto dopo il caso Enron.
    L’intervento legislativo più rilevante da compiere attiene però alla normativa che regola i rapporti banca impresa.
    Sempre per rimanere nell’attualità, va ricordato che il presidente della Parmalat è stato fino a tempi recenti –grazie alle sue partecipazioni azionarie- nel consiglio di amministrazione di una delle banche più esposte nei suoi confronti, che a sua volta deteneva partecipazioni azionarie del gruppo Cirio.
    E’ un clamoroso conflitto di interessi tanto evidente quanto sottaciuto. La Parmalat chiedeva maggiori crediti per il suo gruppo a banche di cui deteneva pacchetti azionari e le banche concedevano maggiori crediti o finanziamenti a favore di una impresa partecipata.
    La legislazione vigente riconosce che sussiste un problema di controllo delle banche da parte delle imprese e limita tale controllo al massimo del 15% del capitale della banca. Tale vincolo si è rivelato inefficace perché anche con pochissime quote di capitali, ben inferiori al 15%, una impresa può facilmente influenzare le decisioni di una banca. E vale anche la pena di ricordare che la legge vieta ai soci di ottenere crediti se non sono stati votati all’unanimità dal consiglio di amministrazione, ma ciò vale solo nel caso di prestiti al singolo socio persona fisica, non vale più se il prestito riguarda una impresa detenuta, controllata o di cui il socio ha una partecipazione.
    Quanto poi al controllo delle imprese da parte delle banche, non c’è nemmeno una legge, ma solo una direttiva della Banca d’Italia.
    Ci sembra quindi opportuno ed urgente regolare l’attività di vigilanza in maniera più stringente, ad esempio richiedendo l’unanimità del consiglio d’amministrazione di una banca che intenda deliberare un prestito per una azienda di cui la banca detiene partecipazione o per una azienda che ha un suo consigliere nel consiglio d’amministrazione della banca. Le delibere dovrebbero essere pubbliche e l’autorità di vigilanza dovrebbe avere l’obbligo di effettuare verifiche puntuali e trasparenti sulla gestione dei rischi connessi alla allocazione del credito.
    Se norme come queste fossero state in vigore nel recente passato, i casi drammatici emersi ora sarebbero stati più difficili o comunque sarebbero stati individuati prima e con conseguenze per i risparmiatori meno gravi. E se ciò non fosse avvenuto sarebbe stata incontrovertibile la responsabilità della Banca d’Italia quale organo di vigilanza.
    Non mi sembra che il dibattito in corso sulla vicenda Parmalat, pur così accanito, abbia guardato a sufficienza questo aspetto. Vogliamo cioè dire che in assenza di un forte mutamento delle leggi sui controlli incrociati tra banche ed imprese non ha molto senso spostare la vigilanza da una autorità all’altra o concentrare i poteri in una unica autorità o peggio ancora pensare di risolvere il problema cambiando le persone senza mutare le regole da far rispettare e il ruolo delle istituzioni di controllo.
    Il sistema di tutela del risparmio dei cittadini deve essere organizzato sulla base di chiari compiti funzionali che sono: a) vigilanza b) trasparenza dei mercati e controllo degli intermediari finanziari c) tutela della concorrenza.
    Se pur rapidamente, vediamo ora di dare risposta all’altro quesito. Come dare certezza e trasparenza al bilancio ed alla finanza pubblica.
    A nostro avviso è maturo il momento per trasformare alcune funzioni della Ragioneria Generale dello Stato, attualmente svolte come dipartimento del ministero dell’Economia, nelle competenze di una autonoma, e indipendente dall’esecutivo, autorità sul bilancio e la finanza pubblica, nella quale far confluire anche alcune specifiche competenze della Corte dei Conti.
    Il risparmiatore infatti, oltre ad avere diritto alla tutela dei frutti del proprio lavoro quando investe nel settore privato e quando sottoscrive titoli del debito pubblico è anche contribuente e percettore di beni e servizi pubblici.
    La corrispondenza tra tasse pagate e servizi ricevuti, nonché la trasparenza e la certezza dei conti pubblici anche nel medio e lungo periodo, devono quindi rientrare nel principio costituzionale di tutela del risparmio e nel più ampio principio delle grandi democrazie occidentali secondo il quale “non può esserci tassazione senza rappresentanza”.
    Per inciso, voglio evidenziare che se tale autorità sul bilancio e la finanza pubblica fosse già stata istituita, nel 2001 non avremmo avuto l’amara sorpresa di scoprire un deficit nei conti pubblici ben maggiore di quello che era stato falsamente scritto in documenti ufficiali dal precedente governo e non avremmo nemmeno dovuto subire nei mesi scorsi gli isterici quanto falsi allarmismi della opposizione sul presunto sfondamento dei conti pubblici da parte del nostro governo.
    Siamo consapevoli che si tratta di una serie di proposte fortemente innovative, che non rientrano nel programma di governo ma che riteniamo qualificanti e di alto profilo.
    Ci auguriamo vengano discusse serenamente da tutti, anche dall’opposizione.
    Sia perché vanno al di là delle vicende di questi giorni –su cui è opportuno attendere le conclusioni della Commissione parlamentare di inchiesta prima di prendere decisioni- e soprattutto perché riteniamo che la garanzia di una finanza pubblica e privata sana debba stare a cuore a tutti, al di là del fatto di essere maggioranza od opposizione.
    Come tante altre volte abbiamo affermato, Alleanza Nazionale è convinta che senza una politica economica per lo sviluppo non ci possa essere né sicurezza né solidarietà sociale.
    Il rilancio dello sviluppo consente infatti di avere più risorse a disposizione e quindi di garantire più opportunità e più tutele. In altre parole di garantire un welfare migliore.
    D’altra parte solidarietà e giustizia sociale non rappresentano soltanto un irrinunciabile principio morale ma costituiscono la stessa base per la spinta allo sviluppo. Infatti se non si creano le condizioni per garantire il potere d’acquisto dei cittadini non è immaginabile pensare ad una solida continuità di crescita nei consumi.
    Pur nella drammatica ristrettezza finanziaria in cui si è trovato, il nostro governo ne è stato consapevole in molti suoi atti: l’aumento delle pensioni minime, l’aumento delle detrazioni per i figli a carico, la riduzione dell’Irpef per i redditi più bassi, il bonus per ogni nuovo nato dopo il primo figlio. Anche quanto stanziato per il rinnovo dei contratti del pubblico impiego dimostra la nostra sensibilità nella tutela del potere d’acquisto dei salari e delle famiglie.
    L’unità di riferimento per misurare i parametri rispetto ai quali far scattare la rete di sicurezza e solidarietà sociale non può essere infatti che la famiglia, che quasi sempre fotografa con esattezza, e al di là della condizione dei singoli, le vere situazioni di disagio sociale.
    La centralità della famiglia costituisce uno dei punti programmatici qualificanti di AN e di tutta la Casa delle Libertà. Non basta però il pur importante richiamo ad un valore. Nella seconda parte della legislatura occorrerà garantire una effettiva centralità della famiglia con una serie di politiche di settore.
    Occorrerà anche operare con decisione per spezzare la storica gestione pubblica e monopolistica dei servizi sociali e assicurare una maggiore libertà di scelta tra una pluralità di soggetti in concorrenza tra loro: pubblici, privati e privato sociale non-profit.
    L’effettiva libertà di scelta delle famiglie tra più gestori nei servizi sociali rappresenta infatti l’unica vera modalità per garantire efficienza e riduzione dei costi nei servizi sociali.
    Per dare coerenza a queste politiche di settore pensiamo che un contributo importante possa venire dalla costituzione di un tavolo di lavoro permanente tra il governo, il forum delle famiglie e il forum del terzo settore.
    Nei prossimi anni, ma già dal 2004, sarà infine necessario prestare specifica attenzione alle famiglie con i soggetti più deboli: gli anziani e i giovani.
    Secondo lo SVIMEZ “il sistema di welfare italiano si caratterizza per essere modellato sulla tutela del rischio di perdita del reddito per licenziamento e per raggiunti limiti di età degli occupati, mentre prevede uno scarso grado di protezione e un inadeguato livello dei servizi sociali a favore delle famiglie, dell’infanzia, e non fornisce alcun tipo di prestazione per la casa e per i giovani in cerca di prima occupazione”.
    Questa riflessione sintetica ma efficace conferma perché la riforma del welfare è necessaria.
    Una ridefinizione delle diverse componenti del welfare a favore delle fasce oggi escluse e una diversa distribuzione della spesa sociale tra soggetti e territorio è l’obiettivo che Alleanza Nazionale intende perseguire nella seconda parte della legislatura.
    Vi è una questione di carattere pregiudiziale che fa capolino nel rapporto tra riforma delle pensioni e riforma del welfare.
    E’ una questione che ha uno squisito carattere politico e non solo economico-finanziario.
    La questione è questa: il risparmio che la riforma delle pensioni determinerà sulla spesa previdenziale resterà nel circuito del welfare o servirà per fare cassa?
    Per Alleanza Nazionale la risposta è facile, ma attendiamo una risposta precisa al riguardo dal Presidente del Consiglio.
    Non solo per onorare l’impegno che il governo ha assunto con le parti sociali di discutere in generale di tutto il welfare e non solo della riforma delle pensioni, ma anche perché i numeri sono inequivocabili.
    In Italia la spesa pubblica per sostenere le famiglie dei giovani senza lavoro rappresenta l’1,7% della spesa totale contro una media europea del 6,3%.
    Senza una politica di riequilibrio tra le voci della spesa sociale italiana si rischia di assistere alla crescita di una nuova povertà che sempre di più coinvolge ceti medi anche specializzati ma sostanzialmente privi di garanzie sociali.
    La recente inchiesta giornalistica da cui è emersa l’ansia del ceto medio italiano, non tanto perché impoverito nel reddito attuale quanto perché timoroso delle sue condizioni future, ci deve far riflettere.
    Con la firma del patto per l’Italia il governo ha già individuato, d’intesa con le parti sociali, molte terapie efficaci.
    Adesso dobbiamo cominciare a tradurle in realtà.
    Un discorso specifico e puntuale merita infine il tema delle pensioni.
    Le pensioni sono un perno fondamentale del sistema di sicurezza sociale.
    Compito primario del sistema pensionistico pubblico, obbligatorio e generalizzato, è dare certezze ai lavoratori in uno schema di equità e solidarietà che riguardi non solo le singole generazioni ma anche le generazioni future.
    L’attuale sistema a ripartizione, per cui i contributi dei lavoratori attivi sono utilizzati per pagare le pensioni già erogate, non offre più questa certezza. E’ da tempo in pesante squilibrio ed è destinato a diventare sempre più insostenibile nel futuro.
    Il sistema a ripartizione fu introdotto nel 1969, quando in Italia c’erano 4 lavoratori attivi per ogni pensionato.
    Negli ultimi decenni, l’allungamento dell’età media di vita e il ritardo nell’ingresso dei giovani nel mercato del lavoro hanno determinato un pesante e crescente squilibrio.
    Nonostante oggi l’aliquota contributiva sia salita al 32,7% , il bilancio dell’Inps presenta uno squilibrio che è pari a circa 1/3 di tutte le pensioni erogate e l’istituto riceve trasferimenti dal bilancio dello stato per oltre 60 miliardi di euro all’anno.
    Negli anni futuri questa grave situazione è destinata ad un ulteriore e progressivo peggioramento.
    A ciò si deve aggiungere l’ulteriore impatto negativo sulla finanza pubblica determinato dal particolare regime delle pensioni di anzianità che di fatto mette l’Italia totalmente fuori linea rispetto agli altri paesi europei sia per quel che riguarda l’età media di pensionamento dei lavoratori sia per qual che riguarda l’incidenza della spesa pensionistica in rapporto al pil.
    Ecco perché è evidente che il governo deve realizzare una riforma strutturale di lungo periodo che dia certezze, a tutti ma soprattutto ai più giovani. Negarne l’urgenza è semplicemente irresponsabile.
    Occorre inoltre un intervento di breve periodo che corregga la anomala situazione delle cosiddette pensioni di anzianità. Bisogna mantenere i patti con i lavoratori in procinto di andare in pensione, ma incentivarli a prolungare volontariamente la permanenza al lavoro.
    La delega presentata dal governo al parlamento contiene le linee di indirizzo di questa non più rinviabile riforma.
    Per il primo punto – la insostenibilità del sistema a ripartizione- intendiamo realizzare il cosiddetto secondo pilastro pensionistico, già previsto ma mai decollato. Ciò è possibile attraverso fondi pensione verso i quali dirottare, secondo noi anche con il principio del silenzio assenso da parte del lavoratore, il trattamento di fine rapporto.
    La crescita dei fondi pensione potrà consentire certezze, portare nel tempo in equilibrio il sistema e ridurre così nel medio e lungo periodo l’aliquota contributiva.
    Va comunque detto che essendo il tfr denaro del lavoratore la vigilanza sui fondi pensione dovrà essere quanto mai accurata e stringente, poiché si tratta di tutelare una forma particolare e unica di risparmio.
    Per quel che riguarda il secondo punto –pensioni di anzianità- va fatta chiarezza. Non si possono all’improvviso cambiare le carte in tavola ai lavoratori che sono prossimi alla pensione e che hanno costruito la loro vita lavorativa sulla base di regole stabilite decenni prima. D’altra parte, non si può non correggere l’anomalia tutta italiana di una età di pensionamento troppo precoce e palesemente fuori linea rispetto alla media europea.
    Per queste ragioni la delega presentata in parlamento ha introdotto il principio degli incentivi economici per spingere il lavoratore a continuare per uno, due o tre anni la propria attività pur avendo acquisito, e vedendosi riconosciuto e certificato, il proprio diritto pensionistico.
    La delega fissa al 2008 la data di decorrenza della riforma.
    AN ribadisce che, a fronte di una riforma che ha questi contenuti e che risponde ad una esigenza ineludibile, la reazione dei sindacati è stata eccessiva ed è stata motivata più da ragioni di principio che di merito.
    Proclamare lo sciopero generale per una riforma che entrerà in vigore tra 4 anni ha ben pochi precedenti storici e rappresenta davvero, come le pensioni di anzianità, una particolarità tutta italiana.
    Pur tuttavia , AN è convinta che il dialogo che si è faticosamente avviato con le parti sociali, anche per le nostre sollecitazioni, non debba essere unilateralmente interrotto dal governo.
    L’effetto di contenimento della spesa pubblica, stimato dalla ragioneria generale dello stato nello 0,7 del pil, dovrà essere comunque e in ogni caso garantito soprattutto se si vuol disporre di risorse aggiuntive per la riforma del welfare.
    Siamo invece disponibili a discutere con le parti sociali di tutto ciò che può depotenziare il conflitto e garantire al dialogo di proseguire. Ad esempio, di quanto necessario fare per avviare i fondi pensione anche nel pubblico impiego senza determinare voragini nei conti pubblici oppure della opportunità di innalzare a 60 anni l’età anagrafica per le pensioni di anzianità fermi però restando i 35 anni di contributi versati.
    Sono certo che anche il Presidente del Consiglio e gli altri leaders della coalizione avvertono la necessità e l’importanza di giungere ad una riforma previdenziale efficace sul piano dei flussi finanziari, meno conflittuale e più condivisa sul piano del consenso sociale.
    Non riusciremmo davvero a capire per quale motivo il governo, con una posizione opposta ma speculare a quella della CGIL, dovrebbe porsi l’obiettivo perverso di ottenere lo stesso risultato ma con il massimo del dissenso sociale!

    Ci sarebbe molto altro da dire. Ad esempio che è fortissima la delusione dei medici per il fatto che dopo due anni e mezzo di governo la nefasta riforma Bindi è ancora in vigore. Cosa aspettiamo a cancellarla come espressamente promesso nel programma elettorale?
    Spero comunque di avere indicato con sufficiente precisione cosa AN intende per verifica politica di metà legislatura. Come già detto, se l’Assemblea Nazionale approverà la mia relazione ne illustrerò dettagliatamente i contenuti al Presidente del Consiglio ed ai leaders politici della coalizione.
    Mi auguro che il Presidente Berlusconi dia corso alla ipotesi di un seminario di un paio di giorni per valutare ed approfondire le questioni da noi poste e, ovviamente, quelle che gli altri partiti della coalizione riterranno di porre.
    Si tratterebbe di un modo serio per confermare agli italiani la corale volontà della Casa delle Libertà di mantenere l’impegno assunto nel 2001 ed anche del modo migliore per rilanciare l’azione dell’esecutivo.
    Immagino le interpretazioni maliziose che qualche osservatore esterno potrebbe formulare.
    Voglio ribadire che Alleanza Nazionale non è alla ricerca di prebende governative in più.
    Abbiamo posto dei problemi politici fermamente convinti di fare l’interesse del governo di cui siamo orgogliosi di far parte.
    Se, nel corso della verifica, riterremo necessario ridefinire la squadra di governo per renderla più forte e più coesa, avanzeremo le nostre proposte con la stessa trasparenza e lealtà con cui oggi abbiamo indicato i temi su cui a nostro avviso è necessario agire.
    Le prossime settimane saranno importanti. Ovviamente non c’è una scadenza temporale, ma è interesse di tutti concludere la verifica in tempi brevi.
    Credo ve ne siano le condizioni e certamente ve ne è, da parte nostra, la volontà.
    Ringrazio i membri dell’Assemblea Nazionale per l’attenzione con cui mi hanno ascoltato, per l’importante contributo di idee che daranno con i loro interventi.
    Vi chiedo di approvare la relazione con un largo consenso per mettere il vertice del partito nella condizione di superare positivamente anche questo importante e delicato momento della vita di Alleanza Nazionale e della Casa delle Libertà.

  2. #2
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    ehmmm..un pò lunghetto direi...

  3. #3
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    Chi dispone di una stampante capace di stampare su carta igienica?

  6. #6
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  7. #7
    Totila
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    Un bellissimo discorso: denso di contenuti; di cultura politica; di orientamenti e nuovi orizzonti...
    Ma che ha detto?!

    Aveva ragione Ambra (Angioletti) che una volta a Porta a Porta disse a Finistein:"Lei ha fatto un bel discorso; ma alla fine se qualcuno mi chiedesse di riferire cosa ha detto, non saprei farlo". In parole povere non aveva espresso un concetto.
    Il VUOTO ASSOLUTO.


    Mi dicono che Finistein era abbronzatissimo. Alla faccia della destra sociale...Seguite ancora il Vuoto Assoluto. Bravi...

  8. #8
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    In origine postato da Totila
    Un bellissimo discorso: denso di contenuti; di cultura politica; di orientamenti e nuovi orizzonti...
    Ma che ha detto?!

    Aveva ragione Ambra (Angioletti) che una volta a Porta a Porta disse a Finistein:"Lei ha fatto un bel discorso; ma alla fine se qualcuno mi chiedesse di riferire cosa ha detto, non saprei farlo". In parole povere non aveva espresso un concetto.
    Il VUOTO ASSOLUTO.


    Mi dicono che Finistein era abbronzatissimo. Alla faccia della destra sociale...Seguite ancora il Vuoto Assoluto. Bravi...
    A parlato come un leadr che ha responsabilità di governo e non come uno scimunito destronazistoide che vede complotti masso-giudaci in tutto ciò che capita nel mondo è chiaro che agli etnonazifascisti questo non può piacere a me invece soddisfa e molto.

  9. #9
    Totila
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    In origine postato da Manuel
    A parlato come un leadr che ha responsabilità di governo e non come uno scimunito destronazistoide che vede complotti masso-giudaci in tutto ciò che capita nel mondo è chiaro che agli etnonazifascisti questo non può piacere a me invece soddisfa e molto.
    Che Finistein piaccia ai liberi muratori "è di tutta evidenssa" come direbbe il Vuoto Assoluto nel sua "cadensa" bologneisa.

  10. #10
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    In origine postato da Manuel
    etnonazifascisti
    hummmmmmmm....i fascisti non possono essere nazisti...

 

 
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