Inquadrare la guerra irachena risulta molto difficile, dal punto di vista politico. Dal punto di vista militare non si può esimersi dal dire che essa sia stata un successo completo, salvo una riserva per il dopoguerra, funestato da attacchi terroristici continui. Del resto, rispetto alle guerre passate i morti americani sono veramente pochi se rapportati ai numeri precedenti.
L’altro aspetto negativo, che congloba sia aspetti militari che politici, riguarda il mancato ritrovamento delle armi di distruzione di massa che gli Stati Uniti asserivano fossero in mano all’Iraq, e motivo principale dell’attacco. Non voglio disquisire sul fatto che queste armi potrebbero essere ritrovate in un prossimo futuro, ma intendo dimostrare che gli effetti “positivi” della guerra irachena ci sono, e proprio davanti agli occhi di tutti, ma nessuno forse se ne accorto.
Il confronto dell’Amministrazione Bush contro i cosiddetti Rogues States, gli stati canaglia, era cominciata ben prima dell’11 settembre. Il timore degli Stati Uniti era quello che questi stati (soprattutto Iraq, Iran, Libia e Corea del Nord) disponessero nel prossimo futuro di armi di sterminio e dei vettori capaci di trasportarle fino alle città americane o europee. Dopo gli attentati del 2001 questo pericolo è diventato ancora più incombente e il governo americano ha deciso di affrontare senza esitazione la minaccia, anche con l’uso dell’attacco preventivo: il pericolo consisteva sì nella minaccia di un attacco missilistico da parte di uno di questi stati (soprattutto per quanto riguarda la Corea) agli obbiettivi statunitensi nel mondo e, in un futuro prossimo, agli stessi Stati Uniti, ma anche nell’uso che di questi dispositivi di sterminio avrebbero potuto fare i terroristi legati a questi paesi.
Ora, come non può essere evidente che la guerra irachena lungi da non aver sortito nessuno effetto positivo abbia invece cambiato la situazione a livello strategico e mondiale:
(1) l’Iran ha repentinamente autorizzato l’ispezione ai suoi siti nucleari;
(2) la Libia ha recentemente ricevuto in visita lo stesso capo dell’Agenzia per l’energia atomica, dichiarando di voler rinunciare sul nascere al suo primordiale programma nucleare;
(3) e infine, pochi giorni fa, una delegazione americana ha visitato un sito nucleare in Corea del nord (certo, la situazione nordcoreana permane la più delicata, vista la capacità missilistica e la vicinanza ad obbiettivi americani in Giappone e Corea del sud).
In pratica, risulta evidente che i rimanenti tre stati canaglia siano stati in qualche maniera intimoriti dal nuovo corso della politica americana. Non che i passi fatti da questi paesi risultino decisivi verso la cessazione della minaccia intrinseca dei loro arsenali, ma appare chiaro che un risultato del genere, senza la guerra in Iraq, sarebbe stato utopico e imprevedibile.