Mettere il sale sulla coda del tempo, sulla coda degli eventi, sulla coda dei tanti corvi che ormai vivono nelle nostre città, avendo dimenticato cosa sono i boschi e gli alberi. Mettere il sale sulla coda delle cose che scappano, sembra un azzardo pericoloso, chi ci riesce? Io no certo, ma amo l’idea del rischio, della sfida. Perciò ci provo. Che pena vedere sbucare dai cassonetti i rami secchi di tanti alberi di Natale abbandonati. Se ne trovano in tutti gli angoli in questi giorni di dopofesta, e non serviranno nemmeno per essere bruciati dentro un camino acceso. Eppure solo qualche settimana fa li vedevamo in fila, ritti e felici di esistere, nelle vendite improvvisate presso i fiorai delle città, o nei vivai, pronti per essere portati dentro le nostre case e agghindati con sfere colorate e ghirlande d’argento, sovrastati da una stella luminosa.
Un mio amico botanico ha fatto un calcolo rapido: a Roma ci sono un milione di famiglie, ammettiamo che il settanta per cento abbia comprato un albero di Natale, fanno settecentomila alberi che vengono buttati via. Ebbene, con quei giovani abeti si potrebbero ripopolare i giardini della città, nonché le sue periferie disastrate, gratis, con la sola spesa dello scavo nella terra.
Sono anni che compro un albero per Natale e poi lo pianto nel mio giardino. Ma quasi sempre muoiono, pur ricevendo tutte le cure. Ho chiesto il perché al mio amico botanico e lui mi ha spiegato l’arcano: «Per fartelo ricomprare anche l’anno prossimo, calano nell’acqua bollente le radici, oppure le tagliano così corte che non potranno mai essere ripiantate».
Ecco spiegato il mistero degli alberi di Natale che sono destinati fin dalla nascita a morire giovanissimi e a non avere futuro, anche se chi li compra desidera ripiantarli. Ma fa parte della logica perversa del consumo, no? Se si potessero far fuori i vecchi, come direbbe paradossalmente Swift, per eliminare una volta per tutte la questione delle pensioni, se si potessero abolire i malati per ridurre le spese della sanità, se si potessero sopprimere le scuole decidendo per legge che l’insegnamento da ora in poi si fa solo attraverso la televisione, beh, certo che il Paese «respirerebbe».
Ma fuori dallo scherzo: possibile che sia considerato lecito e «normale» distruggere per rivendere? Non sarebbe l’ora di cominciare a cambiare pensiero e metodi? Il futuro ci minaccia con un’enorme montagna di rifiuti che grava sul nostro domani. Se non impariamo a riciclare, finiremo avvelenati dai nostri stessi avanzi. Solo i Paesi veramente poveri conoscono l’arte del riciclaggio. Ricordo in Africa, con che sapienza e intelligenza i bambini costruivano giocattoli riciclando barattoli di latta abbandonati, come gli adulti si fabbricavano scarpe con pezzi di copertone usati, e come ogni chiodo, ogni scatola di cartone, ogni bottiglia di plastica venisse riusata fino al consumo definitivo.
Noi invece, con la noncuranza dei ricchi, gettiamo quintali di plastica che finiscono per tappezzare i fondi del mare, buttiamo via cartoni, barattoli, giornali, macchine usate, per sostituirli subito con qualcosa di nuovo. Ma la roba vecchia non sparisce solo perché noi non la vogliamo più. Per un sacchetto di plastica ci vogliono 55 anni di macerazione prima che sia assorbito dal suolo.
Per non parlare dei veleni di cui disseminiamo, da sconsiderati, il nostro territorio, senza pensare che tutto viene immagazzinato, tutto si accumula e si ritorce contro di noi e i nostri figli che domani mangeranno mozzarella alla diossina, (come è già successo); berranno acqua al plutonio e latte al metanolo. Perché non cominciamo umilmente col pretendere alberi di Natale con le radici sane, da regalare ai Comuni che si impegnino a ripiantarli nei giardini spogli, nei parchi bruciati, nelle periferie desolate e prive di verde?

Dacia Maraini
Corriere della Sera
16 12 04