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    Predefinito Foibe,Stragi rosse da non dimenticare

    Intervista a Marco Pirina, autore di "1945-1947. Guerra civile"


    La guerra civile che insanguinò l'Italia fra il 1943 e il 1945 si prolungò in realtà per qualche anno. Di solito immaginiamo l'immediato dopoguerra come un periodo ancora ricco di macerie, ma comunque tranquillo. Un periodo in cui il Paese si avviava lentamente alla ripresa di una vita normale, magari all'insegna dei film neorealisti o delle comiche di Totò e Aldo Fabrizi. La verità fu ben più amara. Fino al 1947-48, con qualche strascico estremo protrattosi nel 1949, fu in atto, stando a dati finora snobbati dagli storici, una strisciante guerra civile che opponeva non più nazi-fascisti ad antifascisti, bensì comunisti ad anti-comunisti. Tutto ciò emerge da un libro eccezionale, che per la prima volta passa in rassegna numerosi eventi dimenticati, analizzandoli sotto una nuova luce interpretativa. Il Centro Studi e Ricerche Storiche "Silentes Loquimur" di Pordenone ha dato alle stampe un accurato lavoro di Marco Pirina, dal titolo "1945-1947. Guerra civile: la Rivoluzione Rossa". Un'opera che passa in rassegna tutti gli episodi di violenza operati da ex-partigiani comunisti dopo la fine del conflitto. Atti inquadrati in una precisa strategia politica volta a sfruttare il cosiddetto "momento buono" (cioè l'instabilità dell'immediato dopoguerra) teoricamente favorevole a una rivoluzione comunista.

    Sig. Pirina, come è nata l'idea di questo libro?

    «In questo Paese che dimentica troppo in fretta, era necessario recuperare quella che è una vera e propria pagina strappata della nostra storia. Una pagina dimenticata da tutti, che io, per primo, ho avuto il coraggio di ricostruire. E parlare di coraggio non è fuori luogo, perchè, seppure da quegli avvenimenti sono passati ormai 60 anni, è anche vero che oggi operano ancora gli epigoni di chi una volta sognava la rivoluzione. L'eredità delle fallite insurrezioni comuniste degli anni Quaranta, venne raccolta infatti dal terrorismo rosso degli anni Settanta, nonchè dalle frange anarco-insurrezionaliste di oggi».

    Comunque è da tempo un fatto accertato dalla storiografia che molti esponenti del PCI avevano pensato alla guerra partigiana come all'anticamera della rivoluzione. In che cosa esattamente il suo lavoro è innovativo?

    «Vede, se prendiamo ad esempio l'ultimo lavoro di Pansa, "Il sangue dei vinti", egli si limita cronologicamente all'estate del 1945. Si potrebbe pensare che i "regolamenti di conti" aventi per protagonisti ex-partigiani siano avvenuti nei primissimi mesi seguiti alla resa dei Tedeschi. In realtà i comunisti proseguirono per circa tre anni a uccidere o a far scomparire, letteralmente, alcune migliaia di persone. Si trattava non solo di ex-fascisti, ma dei rappresentanti più vari della società civile e dell'antifascismo. Industriali, sacerdoti, commercianti, artigiani, socialisti, sindacalisti cattolici...in una parola gli anticomunisti in genere! Ho raccolto documenti e testimonianze che provano che molti di questi giacquero (e giacciono) insepolti fra i boschi e nei fossati, vittime di un piano efferato. A organizzare queste azioni era una specifica scheggia del Partito Comunista Italiano, guidata dall'on. Secchia. Togliatti, da parte sua, mantenne una posizione di un'incredibile doppiezza. Se da un lato disconosceva le violenze, dall'altro si adoperò nel 1949 perchè oltre 34mila militanti comunisti italiani potessero riparare all'estero, cioè negli Stati "fratelli" dell'Europa Orientale, per sfuggire alla giustizia! Per non parlare dei circa 80mila che usufruirono di amnistie grazie a Saragat e Pertini! Nel mio libro riporto ad esempio la testimonianza del partigiano William, che ammise tranquillamente che il Partito aveva ordinato di fare la rivoluzione e che bisognava eseguire gli ordini, perfino togliendo di mezzo quei comunisti che non erano d'accordo».

    Fra l'altro, proprio in questi giorni, è riemerso il tema delle foibe, uno dei capitoli più drammatici di questa vicenda. Da più parti è stata ventilata l'idea di istituire un "Giorno della Memoria" dedicato a questi martiri italiani del comunismo. Lei che ne pensa?

    «Sono favorevolissimo! Credo che un'iniziativa del genere dovrebbe trovare spazio a livello di legge istituzionale. Il caso delle foibe ci insegna che, prima di tutto, occorre restituire dignità alla memoria. Storicamente, per questa Giornata della Memoria proporrei la data del 10 febbraio. Fu infatti il 10 febbraio del 1947 che il destino dell'Istria potè dirsi segnato. Col Trattato di pace di Parigi un territorio veneto e italiano da secoli fu assegnato alla Yugoslavia. Le potrei citare un dato storico significativo, a dimostrazione del nostro radicamento in quella penisola. Nel 1911, quando l'Istria era ancora parte dell'Impero Austro-ungarico (uno Stato che rispettava i popoli!) un censimento indetto in loco dalle autorità asburgiche rilevò ben 390mila italiani. Erano tempi non sospetti: il fascismo era di là da venire. Oggi ne sono rimasti solo 30mila, meno di un decimo rispetto a 90 anni fa. Oltre 350mila fuggirono, per non finire "infoibati"! La cosa vergognosa fu che durante i massacri, furono spesso gli stessi comunisti italiani a consegnare presunti "fascisti" alle forze yugoslave! "Fascisti" che in realtà erano semplicemente non-comunisti: democristiani, socialisti, monarchici, e quant'altro. D'altronde due divisioni dei partigiani comunisti della "Garibaldi" si erano aggregate ai partigiani di Tito fin dal novembre 1944. E ancora prima che finissero le ostilità contro i Tedeschi, cioè il 7 febbraio 1945, i comunisti avevano massacrato i partigiani democratici della "Osoppo". Era la famosa strage di Porzus, immortalata anche dal cinema».

    Il suo libro si configura dunque come un'analisi ad ampio spettro sulle turbolenze rosse nell'area padana?

    «Certo, furono le regioni del Nord a essere teatro di queste violenze. Il volume è strutturato per aree geografiche. Vengono riportati con precisione i fatti accaduti in ogni regione e provincia. Le fonti sono di vario tipo: atti giudiziari, memorie giornalistiche, fotografie. Il tutto per ricostruire verità dimenticate. Voglio ricordare che il giorno 13 febbraio ad Alfonsine (Ravenna) si terrà una presentazione del libro, organizzata dal locale segretario provinciale della Lega Nord, Federico Pattuelli. Infine, per chi voglia contattare il nostro centro studi "Silentes Loquimur", il numero di telefono è 0434/554230. Potrà essere un punto di riferimento per tutte quelle famiglie che hanno sofferto per tali eventi, ad esempio i troppo dimenticati profughi istriani».

    Mirko Molteni
    La Padania
    [Data pubblicazione: 03/02/2004]

  2. #2
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    sarebbe opportuno discutere qui sugli orrori dimenticati delle foibe e pulizia etnica antiitaliana ad opera dei nazional-comunisti slavi alla fine della guerra.

    In altri fora eccessivamente tolleranti gira un deficiente di nome "Josif" che va dicendo corbellerie ed insultando pesantemente chiunque non condivida la sua folle visione slavofila ed antiitaliana. Qui invece si rispetterà alla lettera il regolamento. Chi insulta, viene buttato fuori, subito e senza discussioni.

  3. #3
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    FOIBE. CINQUANT'ANNI DI SILENZIO Il genocidio ignorato dalla storiografia "ufficiale"

    Teodoro Francesconi


    Il conflitto nella ex-Jugoslavia fra serbi e croati, la guerra che ha per teatro la Bosnia, la durezza di una lotta che coinvolge donne, vecchi e bambini ha portato all'attenzione dei popoli europei e dei nostri connazionali certe caratteristiche degli slavi del sud.
    Si è parlato di "pulizia etnica" e delle modalità con le quali i contendenti in causa intendono applicare questa politica al fine di risolvere radicalmente ogni problema di convivenza: attraverso il terrore, annientando l'avversario, annichilendo ogni sua volontà di contendere il predominio del paese costringendolo alla fuga.
    Non sappiamo se, ed in che misura gli Italiani, alla mercé delle manipolazioni dei mass-media sempre strumentalizzati, abbiano avuto la possibilità di recepire il messaggio.
    Gli slavi del Sud sono popolazioni che, a seguito di esperienze storiche traumatizzanti quali secoli di dominio ottomano, tre anni di guerriglia partigiana, decenni di regime marxista, sono portati a vivere ogni contesa di carattere religioso, politico, etnico, in maniera violenta e radicale, dove la brutalità e la crudeltà non conoscono confini. d'altra parte, questa, una realtà che avrebbe dovuto essere ben recepita dal nostro popolo perchè, nel corso dell'ultimo conflitto, almeno 400.000 soldati italiani si sono alternati come truppa di presidio in Jugoslavia ed hanno visto con i propri occhi cosa significasse la lotta tribale che tormentava quel paese: serbi contro croati, cattolici contro greco-ortodossi e mussulmani, partigiani comunisti contro cetnici realisti, ustascia e guardie bianche contro tutti, in un'orgia di stragi, torture, vendette, efferatezza.
    Ma in tutto questo, e torniamo a riferirci ai mass-media, non si poteva e doveva parlare per due ottimi motivi.
    Innanzitutto in Jugoslavia aveva trionfato il comunismo e sottolineare gli aspetti deteriori di un paese che aveva abbracciato questa fede voleva dire schierarsi e comportava un'alzata di scudi da parte delle sinistre. Era opportuno tacere per non essere accusati di fascismo ed incorrere nella riprovazione generale. Poi c'era un secondo eccellente motivo, e cioè che la fine del secondo conflitto mondiale aveva visto la Jugoslavia (Slovenia e Croazia si dovrebbe dire oggi) impadronirsi di tre province nelle quali la popolazione di lingua italiana era da sempre stata maggioritaria: quelle di Pola, Fiume, Zara. Questa occupazione, oltre a mutilare ingiustamente la Nazione, aveva comportato l'esodo di 350.000 nostri fratelli, e criticare la Jugoslavia significava fare del "revanschismo", disobbedire agli ordini e nuocere agli interessi degli Stati Uniti.
    Sulla "pulizia etnica" come concepita dai nostri confinanti ad oriente, silenzio assoluto, come silenzio assoluto si doveva osservare sulla maniera spietata con la quale era stata praticata ai nostri danni.
    Il termine "foibe" è stato così per cinquanta anni oggetto di una accurata rimozione, almeno negli ambienti ufficiali.
    Sappiamo bene che questa rimozione non riguarda i nostri lettori, ma ci sia consentito di cogliere l'occasione per fare qualche precisazione.
    Il termine "foiba", pozzo naturale che si riscontra con grande frequenza nel terreno carsico della provincia di Pola, è stato convenzionalmente usato a proposito di tutte le eliminazioni di carattere politico ed etnico effettuate nelle province orientali. In effetti le "foibe" riguardano solo una piccola parte delle 15.000 - 20.000 persone di cittadinanza e lingua italiana che sono state assassinate in quella zona dal 1943 al 1950. I dalmati, i fiumani, gran parte dei goriziani uccisi sono stati fatti sparire in mille ingegnosi modi che nulla hanno a che vedere con gli orridi carsici. Ciò non toglie che il termine "foibe" abbia assunto un significato particolare nella "pulizia etnica" effettuata a nostro danno ed abbia avuto un grandissimo rilievo nel terrorizzare, soggiogare, costringere alla fuga i nostri connazionali.
    Si cominciò a parlare di "foibe" in Istria ed a Trieste nell'ottobre del 1943, quando l'offensiva tedesca permise di riprendere il controllo del territorio, restato per tre settimane alla mercé degli slavo-comunisti. Erano spariti da 1000 a 1500 nostri fratelli che erano stati prelevati dalle loro abitazioni e deportati.
    Spariti nel nulla? No! Ben presto si potè accertare che erano stati uccisi gettandoli nelle "foibe". Si procedette al recupero di quelli per i quali l'operazione era più facilmente effettuabile è tutti videro le salme già intaccate dal processo di putrefazione: uno spettacolo orrendo. Ma dalle indagini ed ancor più dalle autopsie si seppe come molti fossero morti dopo una crudele agonia, in quanto non erano state sufficienti nè le pallottole nè la caduta ad assicurare una rapida fine. Anzi si disse che, ad arte, spesso i morituri erano stati spinti a coppia nel baratro, dopo che una sola delle vittime aveva ricevuto il colpo d'arma da fuoco. Fu evidente che chi aveva organizzato la strage, l'aveva premeditata in maniera di colpire la fantasia della gente e renderla folle di terrore. Ovviamente fra gli scomparsi molti erano fascisti, ma molti erano solamente istriani di lingua, costumi, tradizioni, sentimenti italiani e la loro uccisione era la componente principale di un piano satanico.
    Una "pulizia etnica" studiata a tavolino e portata a compimento con la massima determinazione, ed un attento lettore dei fatti della Bosnia e dintorni, non può fare a meno di rilevare l'attualità di questa tecnica, nella quale sarebbe fuorviante far distinzione fra croati, serbi, bosniaci.
    All'appello mancano solo gli sloveni, ma anche di costoro, cinquanta anni fa, avemmo le prove della inclinazione a certe soluzioni radicali.
    I nostri marxisti e gli epigoni degli stessi hanno sempre cercato di imporre il silenzio su questa dolorosissima pagina della nostra storia. Come hanno fatto? In molti casi negandola e, quando questa rimozione totale non era configurabile, si sono trincerati dietro la motivazione ufficiale accampata dagli sloveni e dai croati. Si è trattato, hanno sostenuto, di fatti sporadici frutto di una esasperazione popolare scatenatasi come reazione a venti anni di brutalità e violenze fasciste.
    Con questa nota documentata intendiamo confutare questa tesi di comodo. I comunisti italiani giunsero alla "resistenza" ed agli anni quaranta attraverso un lungo tirocinio, forgiati da esperienze derivanti da trenta anni di lotte e tentativi rivoluzionari.
    Dalla rivoluzione di ottobre del 1917, alla guerra di Spagna del 1936, si era sviluppata la teoria, collaudata poi con la pratica, che il potere popolare si poteva affermare ed imporre solo mediante l'eliminazione delle classi parassitarie. "E il sangue che fa girare le ruote della storia": ed era necessario annientare il nemico perchè il nuovo mondo si affermasse.
    Di questo orientamento avemmo le conseguenze anche in Italia. Durante i lunghi mesi della guerriglia partigiana, ovunque fu possibile, le formazioni comuniste procedettero alla eliminazione fisica dei nemici politici e di classe, al dì là di ogni cautela e finzione tattica. Quando si pervenne alla crudele primavera del 1945, accanto alle vendette private ed alle liquidazioni strascico di una guerra civile, numerosissime furono le uccisioni mirate ed aventi un carattere classista. Questo aspetto è universalmente accettato, con particolare riferimento a certe zone come la rossa Emilia, dove si protrassero clamorosamente anche nel 1946. I comunisti istriani, triestini, goriziani inquadrati nel P.C.I., non potevano logicamente avere una valutazione diversa dai compagni di Bologna, Modena, Vercelli, Novara ecc, ecc.
    Irrilevante era per loro il fatto che in Istria i nemici di classe fossero italiani, considerando un pregiudizio senza peso qualsiasi problema di nazionalità.
    Se i compagni croati e sloveni prendevano l'iniziativa della liquidazione dei borghesi, degli intellettuali, dei possidenti, si trattava di una iniziativa proletaria da appoggiare, perchè nella futura società, distinzioni di nazionalità non avrebbero avuto senso.
    Trovare le prove di questa complicità non è facile anche se l'atteggiamento di costoro è già sufficientemente eloquente. Quando nell'autunno del 1946 fu chiaro che Gorizia e Monfalcone erano perdute per la loro causa, vi furono almeno 3000 comunisti italiani che passarono il confine: un esodo contro corrente rispetto a quello dei nostri 350.000 esuli.
    Meglio la Jugoslavia marxista di Tito che l'Italia di De Gasperi, anche se gran parte dei 3000 rimpatriò furtivamente nel 1948 quando Tito venne cacciato dal mondo comunista.
    Abbiamo però trovato una prova eloquente della approvazione dei comunisti italiani di Trieste all'operazione "foibe".
    Nel 1979 l'Istituto nazionale per la storia del movimento di liberazione in Italia "Istituto Gramsci" pubblicò i tre volumi "Le brigate Garibaldi nella Resistenza-Documenti" a cura di Claudio Pavone.
    In circa 2000 pagine è documentata la vita delle formazioni partigiane comuniste attraverso testi ufficiali, lettere, relazioni, messaggi colleganti comandi divisionali, brigate, distaccamenti garibaldini. Un lavoro di grande impegno che dimostra l'ampiezza della partecipazione comunista alla Resistenza in Italia dal luglio 1943 alla fine maggio 1945. Non c'è dubbio che i documenti siano stati accuratamente selezionati affinché non finisse di pubblico dominio quanto si riteneva opportuno rimanesse riservato. Ma su 2000 pagine è sempre possibile incorrere in un errore! Ed ecco la perla sulle "foibe".
    Prendiamo il 1° volume e leggiamo da pagina 179 a pagina 182, documento 41 datato (... ) dicembre 1943 ed intestato "Il comitato federale di Trieste del P.C.I. al comandante del battaglione "Trieste".
    Comincia con le parole: "Rispondiamo al rapporto del 21 dicembre 1943", e per tre pagine commenta le notizie ricevute, dà consigli, ordini, suggerisce, commenta. Ad un certo punto bisogna giudicare su una perplessità sorta fra i compagni del battaglione "Trieste" a proposito dei carabinieri di Villa Decani. Quei militi avevano dimostrato volontà di collaborazione. Era stato corretto accettarla? Ecco la risposta.
    "Nel caso dei carabinieri di Villa Decani ben fatto, (omissis) non rinunciando con ciò alla tattica delle foibe" quando si scovano fuori fascisti responsabili di azioni contro la popolazione, ex dirigenti e responsabili del regime fascista dimostratisi particolarmente reazionari; dirigenti responsabili dell'attuale fascismo repubblicano, del governo del venduto Mussolini, membri della milizia e della Guardia Nazionale Repubblicana; collaboratori aperti, decisi ed attivi dei tedeschi, spie, ecc. ecc. La "tecnica delle foibe" e non "fatti sporadici frutto dell'esasperazione popolare......" come volevasi dimostrare.


    STORIA DEL XX SECOLO N. 4. Agosto 1995. (Indirizzo e telefono: vedi PERIODICI)
    LA MIA VITA PER UN'ACCA
    Intervista a cura di Maria Paola Gianni


    "Non sono croato, ma italiano, e ne sono fiero! Nonostante quello che ho patito c'è qualcuno che sta falsamente diffondendo l'ipotesi che io sia croato a causa del cognome, solo per screditare la mia persona e la mia storia. Inizialmente il cognome di mio padre era “Udovicich”. Nel ‘22 è stato cambiato in Udovisi, perché con l'avvento prima dell'Italia, poi del fascismo molti hanno deciso, in base ai loro sentimenti, di italianizzare i loro cognomi. Ma la prova che sono istriano è nell'-h finale, tipica dei nomi della piccola penisola".
    Inizialmente, da un primo contatto con il tenente dell'esercito italiano Graziano Udovisi, oggi settantunenne, è emersa una certa sua reticenza nel rilasciare l’intervista, indisponibilità svanita non appena letto l’ultimo numero di Nuovo Fronte.
    "Mi è piaciuta molto l'intervista a Pititto, è un giudice molto in gamba e mi auguro che riesca a portare a termine il suo lavoro estremamente difficile
    Uno dei principali motivi della iniziale reticenza di Udovisi è la sofferenza che prova ogni volta che racconta e rivive la sua drammatica esperienza.
    Udovisi è determinato più che mai a ribadire il suo amore per la Patria, il suo senso del dovere e il ricordo di oltre ventimila fratelli italiani che non ce l'hanno fatta. Il vergognoso il fatto che non percepisca alcuna pensione di guerra, ma solo una pensione da insegnante, in base al lavoro svolto.
    Lo stato italiano non lo riconosce come combattente. L'unica soluzione è che "Scalfaro prenda a cuore questo fatto e finalmente ci riconosca non soltanto come combattenti, ma ci ridia almeno tutti i nostri gradi, la nostra dignità, il nostro titolo personale, quindi anche la pensione, come è stata data ai nostri infoibatori - ha invocato il nostro compatriota. Ma questo significa sconfessare completamente il comunismo dei primi tempi, vuoi dire sconfessare Togliatti, vuoi dire sconfessare addirittura lo Stato italiano che finora ci ha trattato così miseramente". Dopo tutto quello che ha subìto, alla domanda di che cosa provasse nel sapere che il Tribunale penale di Roma non ha ancora potuto disporre l'arresto dei due massacratori jugoslavi Ivan Motika e Oskar Piskulic, rispettivamente di 89 e di 76 anni, a causa della loro avanzata età, ha risposto: "Noooo... è inutile, dopo tanto tempo (sospirando lungamente in segno di sconforto). Sono miserie umane, soltanto miserie umane. Io non conosco i nomi di coloro che mi hanno torturato e infoibato, erano più grandi di me, ora saranno morti. Forse saranno in mano a quei cani neri che hanno buttato per primi dentro le foibe, perché fossero quei cani neri a trattenere le anime degli infoibati e gli infoibatori potessero dormire i loro sonni tranquilli. Siamo stati percossi, torturati, perseguitati e sempre ci hanno chiamato "fascisti". E’ comodo dare a noi, giuliani, istriani, fiumani, dalmati, la colpa di una guerra fatta da tutti gli italiani, iniziata nel 1940. Si parla ancora di fascisti; se anche lo fossimo stati che colpa avevamo per essere infoibati? Attenzione che i fascisti sono persone comuni, come lo sono comunisti, democristiani e altri. E gioire per le sofferenze inflitteci? Eh no! Troppo comodo anche per tutti i partiti che sono al potere. Non ci sto. L'altra mattina mi hanno telefonato dall'Australia per programmare un collegamento diretto tramite una stazione radio di nome "Rete Italia". Laggiù ci sono tanti italiani che vogliono sentire le vicissitudini dell’Istria e mi ha profondamente commosso di essere ricordato dai nostri fratelli istriani emigrati in Australia".
    Quello di Udovisi è un triste diario di ricordi che fa parte di un macabro e vergognoso capitolo della storia, dimenticato da troppi. Ancora oggi non dorme sonni tranquilli, i suoi pensieri tornano indietro, a quel terribile sabato 5 maggio 1945, quando si presentò alle ore 17,30 direttamente presso il comando slavo. Il suo senso di responsabilità lo fece intervenire per cercare di salvare i suoi sottufficiali. Niente da fare. I massacratori slavi non lo fecero neanche parlare ma, dopo avergli chiesto solo nome, cognome e grado, lo legarono con le mani dietro alla schiena col fil di ferro e lo stiparono in una cella tre metri per quattro, assieme ad altri trenta italiani, stretti come sardine, quasi senza aria e tutti con le mani legate col fil di ferro dietro la schiena. Morivano di sete e dopo imploranti richieste hanno offerto loro un fiasco con urina. Seminudi, avevano solo un paio di pantaloni addosso. "Bisogna ricordare che io non parlo per me stesso, ma almeno ventimila nostri italiani sono stati massacrati in questo modo, almeno ventimila!". Allora Udovisi era tenente della Milizia Difesa Territoriale, reggimento comandato da Libero Sauro, figlio di Nazario Sauro, l'eroe istriano. "Mi sono presentato insieme a un amico, che era mio ospite, proveniente dalla zona di Mantova e considerato un regnicolo, ossia un suddito del Regno d'Italia. Da sottolineare che serbi e croati, non appena occupata la zona istriana, hanno considerato slavi tutti coloro che vi risiedevano, ormai per loro non più cittadini italiani".
    Ma, anche se considerati slavi, secondo il loro modo di pensare, eravate da eliminare?
    “Non tutti. C'erano quelli che nel '43 hanno immediatamente impugnato le armi per difendere la popolazione e il territorio italiano. Poi ci sono stati quelli che stavano a guardare e quelli che stavano con gli slavi".
    Ma era già allora tutto preordinato?
    "Oggi possiamo dare una risposta affermativa. Era già preordinato un fattore politico, preparato a tavolino, cercare di creare nelle nostre terre la psicosi di terrorismo per ottenere remissione e obbedienza dalle masse. I padroni dovevano essere loro. Dopo l'8 settembre dominarono per circa un mese l'Istria, periodo durante il quale sono sparite alcune migliaia di persone. Il luogo si scoprirà solo dopo, a causa di continui lamenti che provenivano dalle fenditure rocciose di chi ancora non era morto. Chiedo scusa alla popolazione istriana e alla nazione per non essere riuscito a salvare il territorio italiano. Eravamo in molti, ma non ce l'abbiamo fatta".
    Ma perché questi infoibati?
    "Perché italiani. Ma all'epoca il perché non si sapeva e ancora al giorno d'oggi c'è qualcuno che mette in dubbio l'accaduto. All'epoca nemmeno i più sapienti e colti riuscivano a individuarne i motivi e ripiegarono sull'unica ipotesi immaginabile: la vendetta. Ma come potevano essere vendette personali, se le vittime erano uomini, donne e bambini?". Ma perché siete stati additati come fascisti dai comunisti di allora? "Questo rimane sempre un grande interrogativo".
    Forse era l'unico modo per poter arrestare questa pulizia etnica?
    “Non era una pulizia etnica, questa dizione è stata inventata nel 1980 da uno psichiatra serbo. Io lo chiamo terrorismo etnico".
    Perché Sandro Pertini, in qualità di capo dello Stato, andò a Belgrado a riverire la salma di Tito e non passò mai a visitare le foibe? Dovendo rappresentare l'unità d'Italia non avrebbe dovuto omaggiare prima di tutto quei luoghi dove migliaia di con i patrioti innocenti sono stati trucidati?
    "Fino a pochi anni fa nessun presidente della Repubblica Italiana ha mai onorato della sua presenza una foiba: solo Cossiga, nel 191 e in seguito Scalfaro, che ha definito il tutto "una montagna di sofferenze".
    La verità è che ci sono stati molti, per non dire moltissimi, non solo ex capi di Stato, ma anche leader di partito, che sono stati più vicini ai nostri persecutori che a noi perseguitati. Ci sono tanti italiani che hanno infierito su di noi. Il Pm Giuseppe Pititto li ha trovati e ha parlato di crimini contro l'umanità. Come sono stati perseguitati gli ebrei e qualcuno doveva pagare qui in Italia, così italiani, croati, serbi e sloveni, tutti gli jugoslavi, cioè slavi del sud, hanno detto che eravamo noi a dover pagare, come se noi avessimo dichiarato loro guerra".
    Ma perché il governo italiano non ha difeso le proprie terre e si è comportato così irresponsabilmente?
    "Basti pensare che abbiamo un segretario dei partito della sinistra triestina (Pds) che ha affermato sui giornali che negli anni 43-48 il comunismo diede copertura e legittimazione alle foibe. Quindi, era tutto preordinato, tutto predisposto. Il nostro sforzo di combattere gli slavi fu totalmente vano".
    Lei aveva solo 19 anni quando è stato sul punto di morire. Se la sente di raccontare la sua storia?
    "Io non sono stato catturato, ma mi sono presentato direttamente al comando slavo e non per consegnare le armi, perché ero già in borghese. Rientrato con il mio reparto a Pola di notte, nessuno sapeva del mio ritorno, tranne alcuni dei miei compagni. Non sarebbero riusciti mai a trovarmi, ma uno dei miei sottufficiali, parlando con mia madre, disse che gli slavi li stavano cercando dappertutto e chiese se potevo fare qualcosa. Capii che avevo il dovere di presentarmi al comando slavo per dire che avevo mandato la maggioranza dei miei uomini a Trieste. Solo così, forse, avrebbero smesso di cercarli. Sono intervenuto solo per salvare qualche mio soldato".
    Ha sortito qualche effetto questo gesto di grande coraggio?
    “Assolutamente no. Però, ringraziando Iddio, mi sono salvato sia io che il mio amico presentatosi con me. Lui, essendo stato considerato regnicolo, quindi abitante del Regno d'Italia, era stato mandato in un campo di concentramento e per cercare di mantenere buoni i contatti con l’Italia lo hanno considerato prigioniero di guerra, mentre per quel che mi riguarda mi hanno considerato un traditore, perché ufficiale”. Che sentimento è rimasto in lei dopo quella tragica storia?
    “L'amaro in bocca, anche perché l'Italia ha fatto ben poco. Certo gli slavi potevano ammazzarci in altro modo. Per quale motivo le foibe? Avevano forse cercato di cancellare le loro tracce, nascondendo i corpi martoriati nelle fenditure rocciose".
    E poi che è successo?
    "Ad un certo punto ci hanno prelevati in sei e portati in un'altra stanza per torturarci tutta la notte. Dopo mezz'ora non sentivo più nulla, avrebbero potuto anche tagliarmi a pezzettini, ma non me ne sarei reso conto. Ormai il corpo non rispondeva più ai riflessi, era inerme, e quando a un certo momento mi hanno ordinato di alzarmi in piedi, ho cercato di guardarmi intorno: il mio volto era talmente tumefatto, livido e gonfio che vedevo a malapena da due piccole e lunghe fessure degli occhi, dovevo avere la testa rovinata. Ricordo di aver visto un mio compagno di fronte a me, la cui schiena era completamente rossa e mi chiesi per quale motivo lo avessero dipinto di quel colore, invece era tutto il sangue che stava uscendo dalle innumerevoli ferite. Se lui era ridotto in quel modo, se gli altri erano così, allora anch'io ero in quelle condizioni, ma non me ne rendevo conto. E quando ci hanno fatto alzare in piedi per portarci fuori entrarono due ufficiali, un uomo e una donna, la quale disse che il più alto doveva stare davanti alla fila. Nessuno si mosse, allora questo ufficiale mi prese per i capelli, mi strattonò spingendone davanti a lei, la quale senza dire una parola mi spaccò la mascella sinistra con il calcio della pistola. Mi misero alla testa della fila perché ero ufficiale, gli altri erano dietro, ma l'ultimo non ce la faceva a stare in piedi. Forse perché lo avevano massacrato più degli altri, forse perché più debole, non so. Sin dal primo momento di prigionia ci avevano legato le mani dietro la schiena col fil di ferro, per non slegarcele mai più, neanche durante le torture. Si può facilmente immaginare come quei maledetti fili taglienti avessero solcato la carne dei polsi e come continuavano a incidere sulle ferite al minimo movimento. Poi ci misero in fila e ci portarono fuori seminudi, senza scarpe: forse il fresco della notte ha fatto in modo che capissi qualcosa di più, in quanto la testa era completamente imbambolata, il cervello funzionava relativamente. A quel punto altri soldati, ben vestiti, ci portarono fuori, nel bosco, non erano quelli che ci avevano torturato. Dovevano essere dei militari, qualcuno della banda d'accordo con loro e anche borghesi, partigiani comunisti, erano tutti contro di noi. Ci hanno disposti in fila l'uno dietro all'altro, sempre con le mani dietro la schiena e ulteriormente legati insieme tramite un filo di ferro che scorreva sotto il braccio sinistro di ognuno, per formare una fila dritta, fino ad arrivare all'ultimo che, non avendo la forza di stare in piedi, essendo svenuto a terra, era stato legato non al braccio, ma intorno al collo. Ricordo di aver sentito suggerire da due che parlavano in italiano, nel nostro dialetto, di legarlo attorno al collo. Sicuramente durante il tragitto l'ultimo è morto soffocato dal filo che ci legava l'un l'altro. Abbiamo camminato per un viottolo, non so per quanto tempo, ero distrutto e il fil di ferro che mi univa ai compagni era una tortura. Appena riuscii a farlo scorrere leggermente lungo il braccio, fino al polso, mi sembrò un sollievo; in quel momento sono scivolato e caduto. Immediatamente mi è arrivata una botta con il calcio di una mitragliatrice al rene destro. A causa di ciò ho subito tre operazioni al rene, che da quel momento ha sempre prodotto calcoli".
    Quante altre conseguenze ha avuto?
    "Tante. Non solo sono stato leso in modo tale da essere sordo all'orecchio sinistro e al destro ci sento per metà. Ma dal tragitto di trasferimento da Pola fino a Fianona me ne hanno fatte di tutti i colori, mi hanno fatto mangiare della carta, dei sassi, mi hanno sparato vicino alle orecchie, si divertivano tanto a vederci sobbalzare. Mi hanno accompagnato verso un posto e ci hanno detto: "Fermatevi. La liberazione è vicina". Dentro di me ho mandato un pensiero al Cielo. Ho guardato dentro alla foiba, ma non vedevo niente, perché era mattina presto. Giù in fondo si scorgeva solo un piccolo riflesso chiaro. Si sono tirati indietro e quando ho sentito il loro urlaccio di guerra mi sono buttato subito dentro come se questa foiba rappresentasse per me un'ancora di salvezza. Dopo un volo di 15-20 metri, non lo so, sono piombato dentro l'acqua. Venivo trascinato sempre più giù e mi dimenavo con tutta la poca forza rimasta in corpo. Ad un certo momento, non so perché, sono riuscito a liberarmi una mano. Ho immediatamente nuotato verso l'alto e ho toccato una zolla con dell'erba, era in realtà una testa con dei capelli. L'ho afferrata e tirata in modo spasmodico verso di me e sono riuscito a risalire, ringraziando Iddio. Ho salvato un fratello".
    Questa persona dov'è ora?
    "E’ andata in Australia, e purtroppo è morta, però ha lasciato la sua testimonianza. Ha lasciato l'Italia, non trovava lavoro, non trovava più pace. Ha sofferto per la lontananza dalla sua terra e per la tortura subita".


    NUOVO FRONTE N. 168 . Novembre 1996. (Indirizzo e telefono: vedi PERIODICI)
    MA NON DIMENTICHIAMO GLI INFOIBATI
    Claudio Schwarzenberg


    Un “flash” di agenzia del 27 maggio: il governo italiano ha chiesto alle autorità argentine “di disporre le necessarie misure” per evitare “una possibile fuga” dell'ex capitano nazista Erich Priebke che dal 9 maggio scorso è agli arresti domiciliari nella località andina di Bariloche, a circa 1.450 chilometri a sud-ovest di Buenos Aires.
    Bene fa il nostro governo nel cercare di assicurare alla giustizia questo criminale di guerra nazista, ma sarebbe ancora meglio se identica solerzia fosse dimostrata anche nella ricerca di altri criminali (quelli che agivano con la stella rossa sulla bustina, tanto per intenderci) dei quali si conoscono, da sempre, fatti, misfatti, nomi e luoghi di residenza.
    Pensiamo alle foibe, voragini disseminate in tutta la Venezia Giulia e nell'Istria. Molte sono ancora inesplorate. Furono usate dai croati e dagli sloveni, dal 1943 in poi, quali enormi fosse comuni per eliminare migliaia di persone colpevoli solo di essere italiane. L'infoibamento era l'ultima fase della tortura: le salme avevano i polsi legati con filo di ferro stretto con le pinze fino a spezzare il polso.
    Molti cadaveri furono esumati in coppia, legati con filo di ferro agli avambracci; e solo uno dei due presentava colpi di arma da fuoco, l'altro precipitava vivo. Con calci e bastonate erano portati sull'orlo della foiba.
    Ma, come ha scritto Luciano Luciani segretario del Circolo Giuliano Dalmata di Milano, non c'erano solo le foibe. In Dalmazia c'era il mare. Centinaia di vittime furono gettate in mare con una pietra al collo. Tra queste la famiglia del farmacista Pietro Ticina, di Zara: l'intera famiglia composta dai genitori, dalla suocera e da una bambina subirono questa triste sorte. Con disperata energia il padre riuscì a trascinare con sé uno dei feroci aguzzini.
    Ancora: il 30 settembre 1944 l'industriale Nicolò Luxardo di Zara e sua moglie Bianca Ronzoni, che s'erano rifugiati sull'Isola Lunga, catturati dai croati, furono gettati anch'essi in mare con un sasso al collo. Ci furono anche lapidazioni, impiccagioni, fucilazioni. Giuseppe Cernecca, di Sanvincenti, fu costretto a portare sul luogo dell'esecuzione un sacco di pietre con le quali venne lapidato. Altri due suoi fratelli vennero affogati nel mare di Santa Marina.
    Cosa hanno fatto i vari governi, nei cinquant'anni della prima Repubblica, per assicurare alla giustizia coloro che si macchiarono di questi efferati delitti? Quanti magistrati hanno compulsato presso l'archivio storico del ministero degli Affari Esteri le buste di documenti relativi ad “atrocità ed illegalità” commesse dagli jugoslavi contro gli italiani nel periodo che va dal 1941 al 1945?
    Dal 24 al 28 luglio 1990 su “La voce del Popolo” di Fiume, quotidiano della minoranza etnica italiana in Jugoslavia, apparvero le tre puntate di un'intervista straordinaria e coraggiosa di tale Laura Marchig con Oskar Piskulìc-Zuti il cui nome oggi in Italia, e forse in buona parte della vecchia Jugoslavia, non dice nulla a nessuno.
    Per gli esuli di Fiume -ha scritto Amleto Ballarini su “Il Secolo” del 28 giugno 1992, per quanti là, volenti o nolenti, rimasero, per gli stessi slavi del Golfo del Carnaro, quel nome s'associa, con un doloroso riflesso condizionato dell'anima, all'idea delle foibe. Come dire nel Biellese, tanto per intenderci, di Moranino Francesco detto Gemisto. Laura Marchig introduceva la sua intervista con una premessa che per esser stata pubblicata a Fiume (Rijeka) assume il valore d'un documento eloquente nella sua sinteticità come il referto di un'autopsia:
    “Oskar Piskulìc, il famoso Zuti, nato a Fiume nel 1920, eroe della Guerra Popolare di Liberazione, attivista di spicco del movimento comunista, iscritto al Partito dal 1941, entrato subito nella resistenza, sia durante la guerra che dopo, svolgerà sempre funzioni di polizia. Al termine del conflitto diviene uno dei capi dell'Ozna, la polizia segreta che più tardi prenderà il nome di Udba. E questo è tutto quello che c'è da sapere su Oskar Piskulìc... Speravamo, facendogli un'intervista, di avere dei chiarimenti sia sulla sua attività di quegli anni sia su alcuni fatti della storia rimasti oscuri.
    Avremmo voluto conoscere la storia di intere famiglie fiumane, viste per l'ultima volta ammassate per le piazze di Fiume e dopo scomparse per sempre, o quella di tanti ufficiali e sottufficiali dell'esercito italiano segregati nelle carceri di via Roma e dopo spariti. Ci premeva di avere chiarificazioni sulle uccisioni degli autonomisti fiumani avvenute fra il 3 e il 4 maggio del 1945, subito dopo l'arrivo delle brigate partigiane in città. E, soprattutto, avremmo voluto sapere il perchè di queste frettolose esecuzioni sommarie, ma anche assassinii, compiuti casa per casa. Com'è morto, ad esempio, il Dott. Mario Blasich, autonomista che da anni giaceva paralizzato in un letto? La moglie raccontò che furono in due. Bussarono alla porta e chiesero. - Xe in casa el dotor? - Li fece accomodare. Dopo un po' se ne andarono. Trovò il marito strangolato nel suo letto.
    Come morirono altri cittadini fiumani che avevano sperato nella creazione di una Città Stato non soggetta al potere di alcun Paese? Cosa si nasconde dietro l'uccisione di Giuseppe Sincich, giustiziato a colpi di pistola? Dietro a quella del dott. Nevio Skull, padrone della fonderia Skull, la cui storia rimane in verità ancora più misteriosa? E il senatore Bacci e il senatore Riccardo Gigante? Cosa ne è stato di tutti gli altri i cui nomi appaiono come chiazze nere sul vermiglio di una bandiera? "Tante cose avremmo voluto sapere, ma confessiamolo, non ne abbiamo cavato un ragno dal buco.
    Lo stesso Oskar Piskulìc ci ha confidato di essere legato da un giuramento che è comune a tutti i membri della polizia segreta: quello di non rivelare mai, in vita, nemmeno per iscritto, nemmeno tramite memorie depositate, quello che sa".
    Oltre ai senatori del Regno Icilio Bacci (arrestato il 21 maggio 1945) e Riccardo Gigante (arrestato il 4 maggio 1945), alla memoria dei quali il Senato della Repubblica non ha dedicato alcun ricordo, furono arrestati e uccisi a Fiume, a guerra finita, per volontà del Piskulìc (che continua a vivere tranquillamente a Fiume) Carlo Colussi (già podestà di Fiume) e sua moglie Nerina Copetti in Colussi; Rodolfo Moncilli; Mario Blasich; Angelo Adam, sua moglie Ernesta Stefancich e sua figlia Zulema Adam; Nicolò Cattaro panettiere di Abbazia; Lucia Vendramin; Giuseppe Sincich; Nevio Skull; il prof. Gino Sirola (ultimo podestà di Fiume dopo l'8 settembre 1943 e riconfermato il 9 febbraio 1944), che, arrestato dai “titini” a Trieste il 3 maggio 1945, fu riportato a Fiume nella villa Rippa trasformata in carcere e luogo di torture) e poi scomparve; Margherita Sennis e sua figlia Gigliola; Angela Neugebaucr, crocerossina più volte decorata e tanti, tanti altri.
    Insieme a Oskar Piskulìc (detto Zuti) e a sua moglie (una certa Marghitic) operarono a Fiume contro gli italiani: Jovo Mlademe, Vicko Lorkovic Minack, Milan Cohar, Norino Nalato e Giuseppe (detto Bruno) Domancich.
    I fatti delittuosi commessi da costoro non possono essere definiti “crimini di guerra” (perché la guerra era ormai finita) ma veri e propri “crimini contro l'umanità”, imprescrittibili nel tempo. La nostra solerte Amministrazione cosa ha fatto per assicurare alla giustizia questi criminali? Sono state avviate domande di estradizione? Si è iniziato un procedimento penale a loro carico? Oppure non si è fatto nulla (omettendo atti d'ufficio), perché ci sono ancora i morti buoni e quelli cattivi, quelli, per capirci, che essendo stati uccisi (e i loro corpi gettati chissà dove) per il solo fatto di essere italiani non destano interesse alla giustizia degli uomini, perché rappresentano i vinti? E i vinti hanno sempre torto.


    IL SECOLO D'ITALIA Quotidiano del 4 Giugno 1994.
    IL MARTIRIO DI NORMA COSSETTO La tragedia istriana nella seconda guerra mondiale
    Mario Varesi


    Violentata da 17 partigiani, venne gettata agonizzante nella foiba di Villa Surani con le mani legate da filo di ferro.
    Nell'area espositiva dell'Associazione Venezia Giulia e Dalmazia alla Militalia di Novegro (Milano), è avvenuta l'allocuzione dell'Ardito Prof. Mario Varesi, per celebrare il martirio di Norma Cossetto, fra pareti rivestite da pannelli, atti a spiegare iconicamente la tragedia adriatica: pannelli provenienti dall'archivio dell'Ardito Pierpaolo Silvestri di ascendenze portolane e da lui ordinati nella mostra. Era presente la sorella di Norma, Licia Cossetto Tarantola. Il Vice Presidente della sezione milanese dell'A.N.V.G.D., Vittorio d'Ambrosi ha introdotto il rito, ringraziando pubblico e stampa.
    Diamo una sintesi dell'orazione del Varesi che ha attinto da Licia notizie precise.
    "Nell'abbandono e nel nulla, lasciato da Badoglio, si fanno vivi gli slavi." Sostiene Buscaroli "Le foibe sono la diretta conseguenza dell'armistizio. Rappresentano un'incarnazione simbolica della realtà italiana, piombata nel nulla, senza sovranità e stato, senza onore. Esprimono la crudeltà, diretta al fine preciso: uccidere per indurre altri alla fuga e impedire così il riproporsi della questione in termini numerici, cioè con plebisciti o autodeterminazione". È in tale quadro di sovversione generale che si compie il martirio di Norma Cossetto. Accenniamo ora alla sua famiglia.
    Il padre Giuseppe (S. Domenica di Visinada 1888), sposato a Margherita Micattovi (Ghedda 1894), aderisce al fascismo per il suo programma d'italianità. È segretario politico e podestà di Visinada, commissario governativo delle casse rurali dell'Istria. È allietato dalla nascita di Norma (1920) e di Licia (1923). Percorre i gradi della M.V.S.N. fino a Console.
    Sui documenti appare la dizione: possidente. Alle sue terre si sono aggiunte quelle della moglie, tutte lavorate a mezzadria da contadini, trattati da familiari più che da dipendenti. Assiepavano infatti la casa padronale per necessità, consigli, aiuti, feste, mentre i loro figli crescevano nel calore di quella casa, fratelli ideali di Norma e Licia. Scaturiva da qui il prestigio di Giuseppe Cossetto per avere anche sostenuto la banda musicale e i circoli locali di cultura, soprattutto per essere sempre pronto a soccorrere chiunque avesse bisogno, trasportandolo con la propria macchina (l'unica del paese) all'ospedale della città più vicina, non importa fosse giorno o notte. Decade puranco l'ipotesi politica di eventuali dissidi: tutti erano italiani, fascisti al 100%, preti compresi.
    Su cosa poggerà allora la focalizzazione dell'odio?
    Proprietà, automobile, collegio delle figlie, italianità: nodi attizzati dalla propaganda comunista che prometteva la terra altrui ai contadini. Unico pedaggio: permutarsi a slavi e protagonizzarsi in fanatismo per Tito, nel macabro gioco di una mattanza in essere e in divenire, più squallidamente marchiata dagli stupri, elevati a procedimento di guerra.
    Parliamo ora di Norma e Licia, allieve del collegio "Notre Dame" di Gorizia, tenuto da suore tedesche.
    Norma, superata la maturità con 9 e 10 in greco e latino, si iscrive a lettere nell'università di padova. Parla tedesco e francese. Suona pianoforte, canta, dipinge. È preparata così da insegnare, pur da universitaria, nel liceo di Pisino, nella magistrale di Parenzo, pre breve tempo a Spalato. Nota caratteristica il carattere generoso, socievole, versatile. Nello sport predilige nuoto, giavellotto, tiro a segno, partecipando con la sorella a Como ai Ludi Juveniles. Nelle organizzazioni del ventennio è piccola italiana e giovane fascista. Norma ricerca, presso comuni e canoniche istriane, documentazioni utili alla sua tesi "L'Istria Rossa" (ma di bauxite).
    La tragedia esplode il 26 settembre 1943, quando i partigiani invadono casa Cossetto: c'è solo Norma, che arrestano rinchiudendola nella ex caserma dei Carabinieri di Visignano. La invitano a collaborare, ma vanamente. Dapprima è liberata, perché tra i guardiani improvvisati c'é qualcuno che conosce. Non si poteva però fuggire: fin sotto casa stazionavano guerriglieri e le strade erano covi di traditori e spie. È più tardi arrestata nuovamente, condotta a Parenzo nella ex caserma della Guardia di Finanza, poi trasferita nella scuola di Antignana, ove comandava il feroce voltagabbana Antonio Paizan (Toni). Qui si concreta il supplizio di Norma: nel pomeriggio, fissata nuda a un tavolo, è violentata da 17 aguzzini. Un'orgia lurida su un corpo disfatto da tormenti e umiliazioni. Quindi, a notte, i partigiani le pugnalano le mammelle e le conficcano a spregio un legno in vagina, gettandola agonizzante nella foiba di Villa Surani con le mani legate da filo di ferro.
    Giuseppe Cossetto in quei giorni a Trieste, informato dell'arresto, si precipita a Santa Domenica, dove i partigiani lo rassicurano sulla liberazione della figlia. A sera però cade nell'agguato, assieme a Mario Bellini, suo parente che non voleva lasciarlo solo nella penosa contingenza. Da notare che il Bellini era un giovane tenente, invalido di guerra, sposato da un anno, in attesa di un figlio.
    Scatta la trappola: una mitragliata e il Bellini muore all'istante, mentre Giuseppe Cossetto resta ferito, tosto freddato dalla coltellata di un assassino, che egli stesso aveva salvato qualche mese prima, portandolo di notte con la propria automobile all'ospedale di Pola. Vengono entrambi gettati nella foiba di Castellier di Visinada.
    I tedeschi intanto rioccupano la zona. Informati da Licia, arrestano alcuni guerriglieri, dai quali emerge la verità su Norma, il padre e Bellini.
    Mario Harzarich, Comandante i vigili del fuoco di Pola, recupera il 10 dicembre 1943 la spoglia di Norma, qualche giorno dopo quelle di Giuseppe Cossetto e di Mario Bellini.
    Scrive Padre Flaminio Rocchi: "La salma di Norma fu composta nella piccola cappella mortuaria del cimitero di S.Domenica. Dei suoi 17 torturatori, 6 furono arrestati e obbligati a passare l'ultima notte della loro vita nella cappella mortuaria per vegliare la salma. Veglia funebre di terrore, alla luce tremolante di due ceri, nel fetore acre della decomposizione di quel corpo, che essi avevano seviziato 67 giorni prima, nell'attesa angosciosa della morte certa. Soli con la loro vittima, con il peso enorme dei loro rimorsi, 3 impazzirono e all'alba caddero con gli altri. Ai funerali di Norma partecipò una folla immensa. Era considerata una vera martire".
    Liberata dai tedeschi, Licia fugge frattanto a Trieste, di notte a piedi, per la via dei campi. A S.Domenica resta solo la madre, lì sono sepolti i suoi cari, nonostante subisca ogni giorno la sguaiata arroganza dei nuovi padroni nelle divise del marito (bardate ora con la stella rossa), a bordo della Balilla 4 marce, predata alla famiglia.
    "La portammo poi a Trieste, a Ghemme, infine a Ginevra, non potendola lasciare sola, tanto era assente. L'unico sprazzo di gioia, quando imponemmo a mia figlia il nome di Norma. Io mi ero sposata - continua Licia - nel '44 con Guido Tarantola da Novara, pilota della RSI, sequestrato a Ghemme dai partigiani e liberato dalla "Muti". Povera mamma, si spegnerà poi a Ginevra nel 1960, ufficialmente per infarto, in realtà per dolore implacato. L'8 maggio 1949 l'Università di Padova concesse la laurea honoris causa, su istanza del suo ultimo maestro, il professor Concetto Marchesi, a cui volli chiarire che mio padre era fascista e Norma sua figlia. Marchesi rispose che non importava: era una ragazza meritevole, morta così male per la libertà del'Istria".
    Peccato (commentiamo noi) che questo dato - la libertà istriana - non sia stato focalizzato sul diploma di laurea, apparendovi unicamente - caduta per la difesa della libertà - dizione ambigua dopo il '45 di sventure.
    Sono passati 55 anni e fa terrore il nome di Norma Cossetto. Non una via dedicata. Sui testi scolastici ancora ignorata. Nessun atto di giustizia seppure simbolica: i crimini contro l'umanità non hanno archiviazione. "Ho fatto denuncia contro quei partigiani presso i Carabinieri di Ghemme - continua Licia - onde fosse inoltrata al Giudice Pititto a Roma, ma poi sappiamo come tutto andò a finire".
    Fortunatamente la Cassazione (22 aprile 1998) ha confermato la giustezza di celebrare quei processi in Italia, essendo l'Istria allora sotto sovranità italiana.


    STORIA DEL XX SECOLO N. 43 - Dicembre 1998 (Indirizzo e telefono: vedi PERIODICI)
    NORMA COSSETTO
    L. Rache


    Di recente, interpretando il "pensiero’’ dei comunisti - più o meno mascherati da democratici - la compagna Nilde Iotti ribadiva che il PCI ‘ha sempre combattuto in difesa dela classe operaia, della democrazia e della libertà’’. Anche Tito, l’infoibatore, diceva le stesse cose mentre le sue orde slavo-comuniste compivano i noti orrendi massacri in Istria. In quel genocidio persero la vita, dopo atroci sofferenze, oltre quindicimila nostri fratelli.
    Tra le migliaia di connazionali uccisi, fucilati, impiccati, infoibati, annegati, vogliamo ricordare una delle martiri di quella nera stagione di 56 anni fa.
    Da diciassette giorni il Savoia fuggiasco (con la sua degna cortigianeria) era traghettato nell’ospitale campo nemico quando - a circa 1800 km di distanza in linea d’aria, i suoi nuovi alleati slavo-comunisti, dilagando da oriente, tingevano di sangue italiano la Venezia Giulia, l’Istria e la Dalmazia. Il 26 settembre 1943, infatti, viene prelevata dalla sua abitazione in Santa Domenica di Visinada, da una banda di assassini, la ventitreenne maestra e studentessa universitaria Norma Cossetto.
    Dopo l’arresto, la giovane è portata ad Antignana. Pochi giorni dopo, rinchiusa nella scuola di questa località, rimane alla mercé di diciassette aguzzini. (Aguzzini è un eufemismo perché, forse, non è stato ancora coniato un termine adatto).
    "... nella notte dal 4 al 5 ottobre 1943, rinchiusa dai partigiani di Tito nella ex caserma dei Carabinieri di Antignana, fu fissata a un tavolo con legature alle mani e ai piedi e violentata per tutta la notte da 17 partigiani. Venne poi gettata nella foiba con un pezzo di legno conficcato nei genitali.’’(1)
    Anche il padre di Norma, Giuseppe e il genero Mario Bellini, informati dell’arresto della giovane, con il solito banditesco agguato vengono catturati. Le braccia legate con del filo di ferro, furono entrambi uccisi e gettati nella foiba di Treghelizza a Castellier di Visinada. I loro corpi saranno recuperati il 4 novembre successivo. Nei giorni 11 e 12 dicembre ’43 furono estratte, dalla foiba di Surani, ventisei salme di cui venti identificate. Tra queste, tre donne che presentavano tutte segni di violenza. Una di esse era quella di Norma Cossetto.
    Dal Verbale del Comandante dei VV.FF. di Pola Mario Harzarich:
    "Sceso nella voragine, dopo molte fatiche e grande pericolo per il continuo franare di terra e massi delle pareti, fui scosso, alla luce violenta della mia lampada, da una visione irreale. Stesa per terra con la testa appoggiata su un masso, con le braccia stese lungo i fianchi, quasi in riposo, nuda, giaceva una giovane donna. Era Norma Cossetto ed il suo corpo non presentava, a prima vista, segni di sevizie. Sembrava dormire e neppure lontanamente si poteva immaginare fosse morta da diverse settimane. La prima esplorazione effettuata nella foiba di Surani era stata compiuta esattamente il giorno 9 dicembre 1943. La mattina del 10 dicembre venne iniziato il lavoro di recupero delle salme. La signorina Cossetto venne estratta dalla foiba per quarta; e, dopo 7 ore e 30 minuti di permanenza internamente alla foiba, vennero, dopo tremendi sforzi e mille pericoli, estratte 12 salme. Tutte avevano le mani legate con del filo di ferro, molte erano legate a coppie; la sola Cossetto non aveva le mani legate. Quando io recuperai la salma, essa non era per niente in putrefazione, essa era intatta e sembrava che dormisse, tant’è vero che, come io rimasi impressionato nell’averla vista il giorno prima, altrettanto e molto più rimasero impressionati i due vigili che nel salvataggio mi aiutarono sul fondo della foiba. E sul principio non vollero neppure toccarla, perché sembrava che realmente essa dormisse. Posso ancora affermare che nel recuperare la salma della Cossetto non vennero neppure adoperate le maschere, perché, come detto sopra, non era per niente in putrefazione.(2)
    Scrive Padre F. Rocchi: "La salma di Norma fu composta nella piccola cappella mortuaria del cimitero di Santa Domenica. Dei suoi 17 torturatori, sei furono arrestati e obbligati a passare l’ultima notte della loro vita nella cappella mortuaria per vegliare la salma.
    Veglia funebre di terrore, alla luce tremolante di due ceri, nel fetore acre della decomposizione di quel corpo, che essi avevano seviziato 67 giorni prima, nell’attesa angosciosa della morte certa. Soli con la loro vittima, col peso enorme dei loro rimorsi, tre impazzirono e all’alba caddero cogli altri’’.(3)
    Nel secondo semestre del 1944, con l’istituzione del Corpo Ausiliario delle CC.NN. di Squadre d’Azione, a Trieste, unitamente alla 41ª Brigata Nera "Tullio Cividino’’, si costituì - unica in Italia - una Brigata Nera femminile che prese il nome di Norma Cossetto.
    Nel 1949, l’Università di Padova - nella quale Norma era iscritta - la proclamava Dottore in Lettere - Honoris Causa - motivandone la decisione in base al L.L. 7 settembre 1944 n. 236, ossia per onorarne la memoria poiché caduta il 5 ottobre 1943 per la difesa della libertà.
    Motivazione sibillina, che può trarre in inganno perché Norma può essere confusa con i partigiani morti durante la guerra civile. Altre Cattedre, però, avrebbero dovuto riconoscerne il martirio e beatificare Norma Cossetto, quale simbolo dell’Olocausto Giuliano-Dalmata, che non è certo da meno di quelli di Dachau e Auschwitz o quelli di Dresda, Frascati, Treviso, Hiroshima e Nagasaki.
    Questo "Paese’’ erede dell’infame 8 settembre ’43, imbelle e rinunciatario, obbediente agli dèi falsi e bugiardi, patrocinatori della globalizzazione, del meticciato, del mercato comune della droga, criminalità e prostituzione, succube di altrui decisioni, si attivizza per portare nell’Europa dei Cesari, di Leonardo, di Michelangelo, dei ‘ragazzi del 99’, i non pentiti discendenti degli infoibatori, sorta di "etnie’’ dedite alle stragi da oltre sei secoli, sino al recente Kossovo.
    Come negli anni Cinquanta ha supinamente accettato di entrare nella Nato, senza chiedere alcuna contropartita (Venezia Giulia, Istria, Zara, la parità di condizioni in riferimento agli armamenti, Briga e Tenda, ecc.) adesso - con la medesima sindrome di soggezione politica e libidine di servilismo - continua imperterrito la crociata pro Slovenia e Croazia, senza nulla pretendere circa le foibe, l’esodo, le espropriazioni e i beni abbandonati dai profughi, in barba all’articolo 52 della Costituzione che sancisce: "La difesa della Patria è sacro dovere del cittadino’.

    Note:
    (1) Da "L’esodo dei Giuliani Fiumani e Dalmati’’
    (2) Dal Periodico "Unione degli Istriani’’
    (3) Dal Periodico "L’ardito’’

  4. #4
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    Le orride voragini del Carso
    "Le stragi delle Foibe - due presidenti a Basovizza", Marcello Lorenzini, Trieste 1994

    Primavera 1945. Trieste nuovamente «sottoposta a durissima occupazione straniera, subiva con fierezza il martirio delle stragi e delle foibe, non rinunciando a manifestare attivamente il suo attaccamento alla Patria». Lo proclama un solenne documento dello Stato, firmato da due Presidenti della Repubblica, Luigi Einaudi e Giovanni Gronchi, con il quale è stato concesso alla Città I'oro della massima ricompensa al valor militare.

    Il passo citato è indiscutibilmente il più importante e incisivo della motivazione, che pur ne contiene altri di molta rilevanza per il riferimento alle lotte irredentistiche, all'eroismo dei volontari triestini nella Grande Guerra, alla resistenza contro I'«artiglio nazista».

    «Le foibe». Un tempo la parola «foiba» apparteneva quasi esclusivamente al linguaggio degli abitanti del Carso, ai geologi, agli speleologi. Oggi è più conosciuta - ma non tanto - a seguito del lugubre significato di orrore e di morte. L'altipiano roccioso del Carso, che si estende su notevole parte della Venezia Giulia, è da paragonarsi ad una immensa groviera. Il suolo è costellato di numerose voragini - ne sono state contate 1700 - che sprofondano per centinaia di metri nelle viscere della terra, spesso percorse dalle acque. Appunto, le foibe, misteriose, impressionanti, impenetrabili. E accanto ad esse cavità di ogni genere, cunicoli, grotte, acque che scorrono fra tortuosi, profondi meandri.

    I due fenomeni più spettacolari di questo mondo sotterraneo le celebri Grotte di Postumia e il fiume Timavo. Questo, dopo un percorso in superficie di circa 40 chilometri, si getta negli abissi e prosegue per altrettanti chilometri fino alla profondità di 300 metri, per ricomparire immediatamente in faccia al mare e finire nel golfo di Trieste. Lo ricorda anche il poeta latino Virgilio nell'«Eneide». In complesso, una natura unica, forte di massimo rispetto, ma buona, che purtroppo gli uomini hanno più volte profanata e violentata. E così le foibe sono diventate strumento di martirio e orrida tomba per migliaia di infelici. Ed ecco i fatti.
    I PARTIGIANI DI TITO INVADONO TRIESTE

    Alla fine dell'aprile 1945 le armate tedesche si arrendono e l'Italia, stremata e straziata, esce dal «tunnel» di una guerra disastrosa, ed esulta per la fine di tante sofferenze e per le prospettive di pace. Non così Trieste, l'Istria, le terre del confine orientale. Su di esse si avventano contro i patti, vide di conquista e di vendetta, le truppe partigiane del maresciallo jugoslavo Tito all'insegna della stella rossa. I neozelandesi, con insipiente imprevidenza degli alti comandi anglo-americani, arriveranno in ritardo e poi staranno a guardare. Trieste, l'Istria, Gorizia precipitano così dalla feroce oppressione nazista nell'altrettanto feroce oppressione slavo-comunista. Ai forni crematori e ai "lagher" della Germania subentrano le foibe e i «lagher» balcanici.

    A Trieste, le due invasioni, le due oppressioni, tedesca e jugoslava, nazista e comunista, hanno lasciato segni tremendi: la Risiera e le Foibe, in particolare quelle di Basovizza e di Opicina. Sono le due fosse comuni più grandi e più tragiche esistenti in Italia. Per la Risiera di San Sabba - un antico impianto industriale per la lavorazione del riso, alla periferia della città - passarono migliaia di ebrei e di partigiani di Tito o ritenuti tali, rastrellati dai tedeschi nella regione ed avviati ai campi di sterminio in Germania; molti però furono eliminati fra quelle squallide mura. Oggi la Risiera è classificata «monumento nazionale».

    Come detto, alla Risiera, senza soluzione di continuità, si succedettero le foibe, che ingoiarono soprattutto migliaia di italiani. La tecnica di eliminazione nelle foibe era già stata collaudata e praticata dalle bande partigiane di Tito nella prima invasione dell'Istria, dopo l'8 settembre 1943. Le vittime ammontarono a centinaia. Molte salme furono recuperate allorché i tedeschi ricacciarono i partigiani. Quei cadaveri misero in agghiacciante evidenza la crudeltà, la ferocia degli infoibatori: corpi denudati e martoriati, mani legate con il filo di ferro fino a straziare le carni, colpi alla nuca, sevizie orrende di ogni genere.

    QUARANTA GIORNI DI TERRORE

    Questa tecnica di tortura e di morte venne applicata su più vasta scala anche nell'invasione jugoslava della primavera 1945 a Trieste e altrove. Accanto alle foibe istriane, altre foibe del Carso inghiottirono italiani, tedeschi ed anche sloveni antititini. E alle foibe si aggiunsero le deportazioni per altre migliaia di disgraziati, molti dei quali non conobbero ritorno. Ecco quanto ha scritto sui tragici 40 giorni dell'occupazione, jugoslava Diego De Castro, che fu rappresentante italiano presso il Governo militare alleato a Trieste:

    " (...) forse non è inutile ricordare agli altri italiani quali furono gli orrori dell'occupazione jugoslava di Trieste e dell'Istria: gli spari del maggio 1945 contro un corteo di italiani inermi con cinque morti e innumerevoli feriti, le razzie di miliardi di allora nelle banche. nelle società, negli enti pubblici. A tutti i nostri connazionali è ormai nota la lugubre parola foiba e tutti sanno che cosa sono i campi di concentramento."

    Sul ciglione carsico, a 9 chilometri da Trieste, sorge la borgata di Basovizza. Nei pressi si apriva il "Pozzo della miniera", oggi meglio conosciuto come "Foiba di Basovizza", divenuta simbolo di tutte le foibe del Carso e dell'Istria, e di tutti i luoghi che videro il martirio e la morte atroce di italiani, sia per il numero delle vittime che ha inghiottito, sia tragicità delle vicende connesse alla strage colà perpetrata.

    LA CARNEFICINA AL POZZO DELLA MINIERA

    Occorre precisare che questa tristemente famosa voragine non è una foiba naturale, ma, appunto come si accennato sopra, il pozzo di una miniera scavato all'inizio del secolo fino alla profondità di 256 metri, nella speranza di trovarvi il carbone. La speranza andò delusa e l'impresa venne abbandonata. Nessuno allora si curò di coprire l'imboccatura e così, nel 1945, il pozzo si trasformò in una grande, orrida tomba.

    Un documento allegato a un dossier sul comportamento delle truppe jugoslave nella Venezia Giulia durante l'invasione, dossier presentato dalla delegazione italiana alla conferenza di Parigi nel 1941, descrive la tremenda via-crucis delle vittime destinate ad essere precipitate nella voragine di Basovizza, dopo essere state prelevate nelle case di Trieste, durante alcuni giorni di un rigido coprifuoco.

    Lassù arrivavano gli autocarri della morte con il loro carico di disgraziati. Questi, con le mani straziate dal filo di ferro e spesso avvinti fra loro a catena, venivano sospinti a gruppi verso l'orlo dell'abisso. Una scarica di mitra ai primi faceva precipitare tutti nel baratro. Sul fondo chi non trovava morte istantanea dopo un volo di 200 metri, continuava ad agonizzare tra gli spasmi delle ferite e le lacerazioni riportate nella caduta tra gli spuntoni di roccia. Molte vittime erano prima spogliate e seviziate.

    LE VITTIME E I CARNEFICI

    Ma chi erano le vittime? Italiani di ogni estrazione: civili, militari, carabinieri, finanzieri, agenti di polizia e di custodia carceraria, fascisti e antifascisti, membri del Comitato di liberazione nazionale. Contro questi ultimi ci fu una caccia mirata, perchè in quel momento rappresentavano gli oppositori più temuti delle mire annessionistiche di Tito.

    Furono infoibati anche tedeschi vivi e morti, e sloveni anticomunisti.

    Quante furono le vittime delle foibe? Nessuno lo saprà mai! Di certo non lo sanno neanche gli esecutori delle stragi. Questi non hanno parlato e non parlano. Finora qui non si è alzato alcun Otello Montanari come a Reggio Emilia, ad ammonire i compagni comunisti. D'altra parte è, pensabile che in quel clima di furore omicida e di caos ben poco ci si curasse di tenere la contabilità delle esecuzioni.

    Sulla base di vari elementi si calcola che gli infoibati furono alcune migliaia. Più precisamente, secondo lo studioso triestino Raoul Pupo, "il numero degli infoibati può essere calcolato tra i 4 mila e i 5 mila, prendendo come attendibili i libri del sindaco Gianni Bartoli e i dati degli anglo-americani".

    Alle vittime delle foibe vanno aggiunti i deportati, anche questi a migliaia, nei lagher jugoslavi, dai quali una gran parte non conobbero ritorno. Complessivamente le vittime di quegli anni tragici, soppresse in vario modo da mano slavo-comunista, vengono indicati in 10 mila anche più. Belgrado non ha mai fatto o contestato cifre. Lo stesso Tito però ammise la grande mattanza.

    Per quanto riguarda specificamente le persone fatte precipitare nella Foiba di Basovizza, è stato fatto un calcolo inusuale e impressionante.

    Tenendo presente la profondità del pozzo prima e dopo la strage, fu rilevata la differenza di una trentina di metri. Lo spazio volumetrico - indicato sulla stele al Sacrario di Basovizza in 300 metri cubi - conterrebbe le salme degli infoibati: oltre duemila vittime! Una cifra agghiacciante. Ma anche se fossero la metà, questa rappresenterebbe pur sempre una strage immane. A guerra finita!

    E i carnefici? lndividui rimasti senza volto. Comunque è ritenuto certo che agirono su direttive deII'OZNA, la famigerata polizia segreta del regime titino, i cui agenti calarono a Trieste con le liste di proscrizione e si servirono di manovalanza locale. Nell'invasione jugoslava di Trieste e di ciò che ne seguì i comunisti locali hanno responsabilità gravissime. In quei giorni le loro squadre con la stella rossa giravano per la città a pestare

    ad arrestare. Loro elementi formavano il nerbo della "difesa popolare".

    pagine tratte da "Le stragi delle Foibe - due presidenti a Basovizza", Marcello Lorenzini, Trieste 1994, Comitato per le Onoranze ai Caduti delle Foibe.

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    l martirio di Norma Cossetto


    Il 25 settembre 1943 un gruppo di partigiani slavi irruppe in casa Cossetto razziando ogni cosa. Entrarono perfino nelle camere, sparando sopra i letti per spaventare le persone.
    Il giorno successivo prelevarono Norma. Venne condotta prima nella ex caserma dei Carabinieri di Visignano dove i capibanda si divertirono a tormentarla, promettendole libertà e mansioni direttive, se avesse accettato di collaborare e di aggregarsi alle loro imprese. Al netto rifiuto, la rinchiusero nella ex caserma della Guardia di Finanza a Parenzo assieme ad altri parenti, conoscenti ed amici tra i quali Eugenio Cossetto, Antonio Posar, Antonio Ferrarin, Ada Riosa, Maria Valenti, Umberto Zotter ed altri, tutti di San Domenico, Castellier, Ghedda, Villanova e Parenzo. Dopo una sosta di un paio di giorni, vennero tutti trasferiti durante la notte e trasportati con un camion nella scuola di Antignana, dove Norma iniziò il suo vero martirio. Fissata ad un tavolo con alcune corde, venne violentata da diciassette aguzzini, ubriachi ed esaltati, quindi gettata nuda in una foiba poco distante, sulla catasta degli altri cadaveri degli istriani. Una signora di Antignana che abitava di fronte, sentendo dal primo pomeriggio gemiti e lamenti, verso sera, appena buio, osò avvicinarsi alle imposte socchiuse. Vide la ragazza legata al tavolo e la udì, distintamente, invocare la mamma e chiedere da bere per pietà ...
    Il 13 ottobre 1943 a S. Domenico ritornarono i tedeschi i quali, su richiesta di Licia, sorella di Norma, catturarono alcuni slavi che raccontarono la sua tragica fine e quella di suo padre. Il 10 dicembre 1943 i Vigili del fuoco di Pola, al comando del maresciallo Harzarich, ricuperarono la sua salma: era caduta supina, nuda, con le braccia legate con il filo di ferro, su un cumulo di altri cadaveri aggrovigliati; aveva ambedue i seni pugnalati ed altre parti del corpo sfregiate. Emanuele Cossetto, che identificò la nipote Norma, riconobbe sul suo corpo varie ferite d'arme da taglio; altrettanto riscontrò sui cadaveri degli altri.
    Norma aveva le mani legate in avanti, mentre le altre vittime erano state legate dietro. Da prigionieri slavi, presi in seguito da militari italiani dell'Istria, si seppe che Norma, durante la prigionia venne violentata da molti.
    Un'altra deposizione aggiunge i seguenti particolari: "Cossetto Norma, rinchiusa da partigiani nella ex caserma dei Carabinieri di Antignana, fu fissata ad un tavolo con legature alle mani e ai piedi e violentata per tutta la notte da diciassette aguzzini. Venne poi gettata nella foiba."
    La salma di Norma fu composta nella piccola cappella mortuaria del cimitero di Castellerier. Dei suoi diciassette torturatori, sei furono arrestati e obbligati a passare l'ultima notte della loro vita nella cappella mortuaria del locale cimitero per vegliare la salma, composta al centro, alla luce tremolante di due ceri, nel fetore acre della decomposizione di quel corpo che essi avevano seviziato sessantasette giorni prima, nell'attesa angosciosa della morte certa. Soli, con la loro vittima, con il peso enorme dei loro rimorsi, tre impazzirono e all'alba caddero con gli altri, fucilati a colpi di mitra.
    Il destino di Norma fu lo stesso di tanti italiani di Gorizia, di Trieste, dell'Istria, di Fiume e della Dalmazia. Saranno tantissimi gli italiani infoibati e trucidati nei modi più crudeli durante e dopo l' ultimo conflitto mondiale, per il solo fatto di essere italiani.

    http://utenti.lycos.it/irr_ita/index-350000.html

 

 

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